Ovvero:“La storia russa leggila come la vita dei santi”
(K.Aksako)
Per i russi la Russia è la “Santa Russia”, anzi, la “Santa Madre Russia” con una identificazone tra la Santa Chiesa Ortodossa e la “Madre Patria” che nemmeno un settantennio di persecuzione ateistica hanno potuto vincere, poiché qualunque storia della Russia avrà il suo inevitabile prologo nel battesimo del santo principe Vladimir –di tutta la sua famiglia, e tutto il proprio esercito, e di tutto il popolo di Kiev- nelle fredde acque del fiume Dniepr, per mano di ecclesiastici appositamente giunti da Costantinopoli, nell’anno 988.
Dalla “Grande Chiesa” bizantina i russi ricevettero, inscindibilmente con la fede, anche i riti liturgici e la disciplina ecclesiastica: questa obbedienza (e sottomissione) del clero russo al Trono Ecumenico consentiva al Patriarca di Costantinopoli di scegliere quale suprema autorità della Chiesa russa un ecclesiastico “greco” che si insediava nel Principato di Mosca col titolo di Metropolita di Kiev e di tutta la Rus’. Il titolo episcopale del capo della Chiesa russa non verrà modificato nemmeno quando dopo il 1326 il Metropolita di Kiev risiederà stabilmente a Mosca in seguito all’invasione polacca di quelle terre poi note come Ucraina.
L’Arcivescovo “greco” Isidoro in quanto Metropolita di Kiev , e in rappresentanza dell’Ortodossia moscovita, partecipò a quel Concilio di Firenze che aveva lo scopo religioso di mettere fine allo scisma tra Chiesa di Roma e Chiesa bizantina (e lo scopo politico di spingere gli Stati dell’Europa occidentale, che allora erano tutti cattolici, ad unirsi in una crociata per salvare Costantinopoli dall’invasione turca).
Premiato dal Papa Eugenio IV con la porpora per l’entusiastico appoggio all’unione delle Chiese, il Metropolita a e “Legato pontificio” in faccia al clero, aristocrazia e popolo moscovita schierati, lesse solennemente il decreto di unione che gli costò l’arresto immediato e l’accusa di alto tradimento. Fuggito dal monastero moscovita in cui era stato segregato, e dopo un rocambolesco viaggio, il cardinale Isidoro arrivava a Roma dove il nuovo Papa Nicolò V gli conferiva un secondo ingrato compito: celebrare solennemente l’unione tra Chiesa latina e Chiesa bizantina nella Basilica di Santa Sofia di Costantinopoli (che solo cinque mesi dopo verrà trasformata in moschea da Maometto II).
Poiché il Gran Principe di Mosca non poteva tollerare che la Chiesa russa fosse in alcun modo assoggettata a quella Chiesa costantinopolitana ormai caduta nelle grinfie dell’eresia latina, nel 1448 fece eleggere un ecclesiastico russo quale nuovo Metropolita. E non bastò che il nuovo Patriarca, di una Costantinopoli ormai capitale di un impero islamico, ripudiasse l’unione con Roma per riottenere la sottomissione canonica delle gerarchie russe poiché per Mosca era inammissibile che il clero della Santa Russia prestasse obbedienza ad un suddito, ed ostaggio, di un tiranno “pagano”.
Un concilio convocato a Mosca nel 1459 proclamerà solennemente la Chiesa russa “autocefala” cioè facente capo solo a se stessa, ovvero indipendente, e che pertanto in avvenire l’elezione del nuovo Metropolita non avrebbe avuto più alcun bisogno dell’ approvazione del Trono Ecumenico. Quando poi si dovette eleggere il nuovo Metropolita non fu più “di Kiev” ma “di Mosca e di tutta la Russia”.
Il cardinale Isidoro non era certo il solo illustre “greco” scampato alla conquista ottomana del 1453 che avesse optato per un dorato esilio romano: i più illustri bizantini che trovarono accoglienza presso la Corte Pontificia furono gli stessi ultimi eredi della corona imperiale. Nel 1462, portando in dono a Pio II la testa dell’apostolo Andrea, fecero il loro solenne ingresso in Roma Tommaso Paleologo, fratello dell’ultimo imperatore Costantino XI, ed i figli Andrea, Manuele e Zoe.
Nel 1472, per i buoni uffici di Sisto IV la principessa Zoe Paleologa verrà data in moglie al Gran Principe di Mosca Ivan III.
Avvenne così che proprio per mezzo dell’odiato Papa di Roma venisse data una legittimità dinastica alle pretese moscovite di essere erede della tradizione autocratica bizantina.
Se il principe moscovita rimaneva l’unico sovrano di un regno cristiano-ortodosso, sposando un’erede (seppur non erede diretta) dell’ultimo Cesare bizantino, accoglieva l’eredità imperiale di Bisanzio. Da quel momento Mosca dovrà essere la “Terza Roma” cioè la capitale di quel medesimo impero che dalle rive del Tevere l’imperatore Costantino aveva trasferito nella “Nuova Roma” fondato sul Bosforo e che i recenti luttuosissimi eventi avevano fatalmente nuovamente traslato sulle rive della Moscova.
L’aquila bicefala che fu simbolo dell’impero costantinopolitano diverrà il nuovo simbolo del sovrano moscovita per il quale essere un “Gran principe” è ormai troppo poco: egli è vero imperatore, è “Cesare”, è “C-zar”!
Coerentemente con la tradizione bizantina della “sinfonia” tra Stato e Chiesa, se lo C-zar di Mosca è l’erede dell’imperatore di Costantinopoli conseguentemente anche il Metropolita di Mosca dovrà essere l’erede del Patriarca di Costantinopoli. La qual cosa è ben difficile da ottenere perché sotto il tallone del Turco i Patriarchi di Costantinopoli non solo continuano a pontificare ma ricevono dal Sultano il potere d sottomettere tutti i cristiani ortodossi presenti dell’immenso impero ottomano: non solo gli ortodossi serbi, romeni e bulgari ma anche i patriarcati di Alessandria d’Egitto, Gerusalemme ed Antiochia.
Ma se i titolari degli antichi patriarcati sotto il giogo islamico hanno perso la loro libertà non hanno nessuna intenzione di rinunciare anche alla loro autorità e pertanto anche quando, nel 1592 riunitisi a Costantinopoli, ratificheranno solennemente la concessione all’arcivescovo moscovita del titolo di “Sua Santità” e “Patriarca di Mosca e di tutta la Russia” non benediranno affatto il mito della “Terza Roma” e nella gerarchia dei patriarcati non inseriranno Mosca subito dopo Costantinopoli, come invece pretendevano i russi. Alla Santità del Patriarca di Mosca verrà riservato il quinto posto: dopo Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme.
Tanto grande sarà in Russia l’autorità dei Patriarchi di Mosca durante il XVII secolo che non avranno imbarazzo ad usare la (ormai riconosciuta per falsa) Donazione di Costantino a Papa Silvestro per invocare la preminenza della loro autorità spirituale sull’autorità temporale degli C-zar. Alla morte del Patriarca Adrian avvenuta nell’anno 1700 Pietro “il Grande” riterrà quindi opportuno vietare l’elezione di un nuovo patriarca ed “ammodernerà” l’amministrazione del patriarcato russo sul modello delle Chiese di Stato dell’Europa protestante che professavano il principio luterano della sottomissione della Chiesa allo Stato e in cui il monarca era capo della Chiesa.
Continueranno ad essere nominati gli arcivescovi di Mosca ma essi non saranno più patriarchi e nemmeno conserveranno quel prestigio puramente onorifico che invece sarà tributato l’arcivescovo di San Pietroburgo la nuova capitale russa. Seppur umiliata da sovrani “illuminati” come Pietro e Caterina II la Chiesa considererà le guerre espansionistiche zariste come vere e proprie guerre sante ortodosse, e specialmente quelle miranti ad incamerare i dominii polacchi.
Ma sarà nel romantico XIX secolo, quando gli imperatori russi torneranno ad essere più pii ed innalzeranno sulla Piazza Rossa la nuova colossale cattedrale del Salvatore, che la volontà di potenza dello Stato russo sarà tutt’uno con l’affermazione del primato dell’Ortodossia russa sulle altre Chiese ortodosse.
Il lento ed inesorabile sgretolarsi dell’impero ottomano darà all’impero russo la possibilità di presentarsi come paladino dei legittimi moti indipendentistici dei popoli balcanici, fratelli nella comune fede ortodossa. E siccome per i greci, serbi, romeni e bulgari l’indipendenza politica dai turchi era tutt’uno dall’indipendenza ecclesiastica dal Trono Ecumenico, l’impero zarista si proclamò protettore nonchè vendicatore dei cristiani ortodossi sudditi della Sublime Porta.
Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale fece intravedere il miraggio di una storica rivincita dell’Ortodossia bizantina contro un Islam ricacciato definitivamente al di là del Bosforo, e di una Costantinopoli tornata ad essere capitale di un impero cristiano formato da tutte le nazioni slave ed ortodosse dell’Europa orientale sotto lo scettro dei Romanov; e di una Santa Sofia tornata cattedrale bizantina in cui avrebbe pontificato un Patriarca di Costantinopoli non più greco ma finalmente russo circondato da un Santo Sinodo slavo.
Se questi erano i piani della politica estera, tanto più in politica interna gli C-zar erano convinti che per russificare le minoranze etniche bisognasse costringerle a convertirsi alla Chiesa ortodossa russa, provocando per contrappasso il sorgere in quelle popolazioni di un sentimento nazionalistico. Quando durante la Prima Guerra Mondiale l’impero russo invase ed occupò militarmente la Galizia abitata in prevalenza da polacchi il Granduca Nicola comandante delle armate russe lamenterà che egli aveva atteso l’arrivo di treni carichi di munizioni ed invece erano arrivati dei treni carichi di pope (venuti a battezzare i polacchi e gli ucraini).
In questa indistricabile epopea della Chiesa e della Nazione russa l’anno 1917 rimane una data memorabile poiché, tra la rivoluzione di febbraio e la rivoluzione d’ottobre, la gerarchia ortodossa momentaneamente libera dal controllo politico ne approfittò per rieleggere, dopo oltre due secoli, un nuovo Patriarca nella persona di Tichon, Metropolita di Mosca.
Il nuovo regime bolscevico volendo estirpare ogni fenomeno religioso farà della Chiesa ortodossa, non l’unico ma certamente il principale, oggetto della persecuzione anticlericale che si prefiggeva come scopo il totale annientamento del cristianesimo in Russia.
Nel 1922 oltre quaranta vescovi del patriarcato di Mosca furono fucilati e gran parte del clero venne deportato nei gulag mentre le chiese venivano chiuse, spogliate dei loro ornamenti, spesso distrutte e demolite. A fermare le persecuzioni non basteranno le pubblica attestazione di lealismo al governo bolscevico da parte del patriarca Tikhon e la sua presa di distanza dalla "controrivoluzione" interna ed estera. Nel 1925, sul letto di morte San Tikhon profeterà: “La notte sarà molto lunga e buia”.
Con l’avvento al potere di Stalin la precaria situazione della Chiesa non si stabilizza affatto ma tra le improvvise sparizioni e le esecuzioni capitali, o a causa dei maltrattamenti in carcere, nel periodo della “lunga notte” vengono meno 272 vescovi del Patriarcato di Mosca. La Chiesa Russa è condannata a scomparire esattamente così come la cattedrale moscovita del Salvatore che Stalin fa radere al suolo: in sua vece venne eretto un centro sportivo e con il marmo del demolito tempio venne pavimentata la nuova metropolitana di Mosca.
Alla morte del Patriarca Tikhon il metropolita Sergiej Stragorodskij, per il drammatico procedere degli eventi, di fatto ("de jure" solo dal 1936) si trovò nel ruolo di “Locum Tenens” patriarcale, intervallando la sua residenza forzata fuori Moca a periodi di carcerazione. Nel 1927 stilava una solenne “Dichiarazione” in cui la Chiesa Ortodossa riconosceva nell’Unione Sovietica la propria patria civile e giurava lealtà al Soviet Supremo. Tale politica lealista -che era la fedele continuazione di quella del defunto Tikhon- fu oggetto di aspre critiche, soprattutto da parte di quella porzione di clero e fedeli russi nella diaspora che, del resto, già dal 1920 avevano ricevuto da Tikhon la facoltà di crearsi un’amministrazione ecclesiastica autonoma.
Il metropolita Sergio per salvare il salvabile non poteva che affidarsi al più disincantato realismo: impossibile creare in Unione Sovietica una Chiesa clandestina -come molti auspicavano- proprio perché sarebbe stato impossibile sfuggire alle maglie della polizia e dello spionaggio per una gerarchia ecclesiastica organizzata capillarmente in tutto il territorio nazionale.
Nel 1939, quando Hitler invade la Polonia dando inizio al secondo conflitto mondiale, in tutta l’Unione sovietica i vescovi del Patriarcato di Mosca ancora “liberi” sono solo quattro! Stalin però sa che se ha distrutto la Chiesa ortodossa non è riuscito ad estirpare la fede ortodossa dal cuore e dalla mente delle masse. Seppur privato del clero e dei luoghi di culto il popolo continua privatamente nelle proprie devozioni e a celebrare le festività del calendario giuliano.
Quando nel 1941 Hitler dichiara guerra all’Unione Sovietica Stalin decide di mettere alla prova il patriottismo del metropolita Sergio.
Da buon ex seminarista qual è, il leader sovietico sa bene che nella storia della Russia il clero, brandendo le icone della Madre di Dio, ha fomentato il popolo conto gli ogni invasione della “Santa Russia”: contro i tartari, contro i polacchi, contro gli svedesi e contro Napoleone. Lo stesso giorno in cui giunge a Mosca la notizia che l’esercito nazista è penetrato in territorio sovietico, il Locum tenens patriarcale emanava prontamente una lettera pastorale indirizzata a tutti i fedeli ortodossi dell’Unione Sovietica spronandoli, in nome di Dio, ad opporsi all’invasore tedesco.
Ma se Stalin voleva una Chiesa che supportasse la propaganda nazionalistica avrebbe dovuto consentire che l’agonizzante ortodossia russa si riorganizzasse e così migliaia di monaci e di preti riapparvero dopo molti anni di segregazione nei gulag. Vennero ricostituite le 73 diocesi in cui era diviso il Patriarcato di Mosca nell’era prerivoluzionaria e di conseguenza consacrati i nuovi rispettivi vescovi.
L’8 settembre 1943 Stalin premiava il metropolita Sergio concedendogli l’elezione al soglio patriarcale. Quando pochi mesi dopo il Patriarca Sergio moriva Stalin acconsentiva che si procedesse all’elezione del successore nella persona del metropolita di Leningrado Alexij Simansky che si era eroicamente prodigato durante la resistenza leningradese all’assedio nazista.
Il 2 febbraio 1945 con la sua solenne intronizzazione cominciava il pontificato del Patriarca Alessio I.
Stalin non ha concesso al Patriarcato di Mosca altro privilegio se non solo quello di non essere annientato ma nonostante questo, o forse proprio per questo, nelle gerarchie ortodosse si innescò inesorabilmente una specie di “sindrome di Stoccolma” che fa credere possibile di ottenere per mezzo dell’atea Unione Sovietica quel ruolo di guida dell’ortodossia mondiale che non si era riusciti a raggiungere sotto l’autocrazia zarista. Esempio di “sinfonia” tra Stalin ed Alessio I fu la forzata sottomissione al Patriarcato di Mosca della Chiesa bizantina unita a Roma e maggioritaria dell’Ucraina occidentale (Galizia) inglobata nell’URSS con lo smembramento della Polonia.
Nel nuovo clima segnato dagli accordi di Yalta, Stalin cerca tramite il Patriarcato russo di estendere l’influenza sovietica sulle nazioni non ancora allineate; con la benedizione di Stalin e Molotov il neoeletto Alessio I ad appena poche settimane la sua investitura parte per un tour che tra l’aprile e il maggio 1945 toccherà Teheran, Bagdad, la Siria, il Libano, Gerusalemme e l’Egitto, al fine di promuovere presso le antiche Chiese orientali un orientamento filo-russo (sia religiosamente sia politicamente) in sostituzione dell’influenza della filo-occidentale Ortodossia “greca” del Patriarcato Ecumenico e della Chiesa ellenica. Avendo l’appoggio di Stalin e con un Patriarcato Ecumenico straziato a causa del disprezzo del Governo turco nei confronti di tutto quello che fosse greco, Alessio I ritenne che la situazione politico-ecclesiastica fosse la più propizia per sanzionare ufficialmente la preminenza sul Patriarca di Costantinopoli agognata da secoli e a tale scopo convocò a Mosca un concilio a cui invitò tutti i rappresentanti delle Chiese bizantine ma che la dura protesta del Santo Sinodo costantinopolitano, e del Santo Sinodo di Atene, costrinse il Patriarca Alessio a derubricare a semplice celebrazione per i cinquecento anni dall’ottenuta indipendenza (autocefalia) dal Patriarca di Costantinopoli.
Le manovre staliniane non sfuggirono affatto al Presidente americano Truman che costrinse l’alleato turco a permettere l’elezione di un nuovo Patriarca Ecumenico nella persona del capo della Chiesa greco-ortodossa in Nord America: il metropolita Athenagoras che, ad elezione avvenuta, nel 1949 metteva piede ad Istanbul scendendo la scaletta del “Number One” cioè l’aereo personale del Presidente degli Stati Uniti.
Nella Pasqua del 1950, il Patriarca Ecumenico Athenagora I con una enciclica rivolta a tutte le Chiese ortodosse riaffermava solennemente che criterio e discrimine per valutare e definire l’ortodossia di una Chiesa autocefala fosse la sua concordia ed unità con la Sede costantinopolitana, e per meglio significare il proprio ruolo primaziale cominciò con l’andare a far visita agli altri patriarchi mediterranei ed ai leader delle altre Chiese.
L’inatteso disgelo ecumenico di Giovanni XXIII sposterà le schermaglie tra Costantinopoli e Mosca anche sul campo del dialogo con Cattolicesimo romano.
Indirizzata ufficialmente dal buon Papa Giovanni la richiesta alle Chiese Ortodosse di inviare degli osservatori all’incipiente Concilio Vaticano, il Patriarca Ecumenico pensò che fosse opportuno rispondere univocamente e, dopo aver sentito il parere negativo di tutti i leaders ortodossi compreso quello di Mosca, con personale rammarico rendeva noto il rifiuto. Immediatamente dopo il Governo Sovietico annunciava che ecclesiastici del Patriarcato di Mosca avrebbero invece presenziato ai lavori del concilio papista: lo schiaffo al prestigio di Athenagora non poteva essere meglio assestato.
Il Patriarcato di Mosca aderisce al Consiglio ecumenico delle Chiese e partecipa a tutte quelle iniziative internazionali religiose e pacifiste che possando darle visibilità, anche perché gli anni della “distenzione” di Krusciov (uomo personalmente ignoranisimo in materia religiosa) sono anni di ripresa della persecuzione sistematica verso la Chiesa ortodossa la quale considererà la notorietà internazionale dei propri vescovi come l’unica garanzia di salvarsi dal pericolo di improvvisi arresti e sparizioni di cui furono invece vittime gli ecclesiastici degli anni Trenta.
Ultanovantenne Alessio I spira nel 1970.
Nel 1972 muore anche Atenagora.
I nuovi patriarchi Pimen di Mosca e Demetrio di Costantinopoli -che pontificheranno entrambi fino al 1990- pontificano in un'era che si apre assai grigia ed avranno personalità meno estroverse dei loro due predecessori (nonché dei loro due successori).
E mentre la Chiesa di Roma constata il raffreddamento delle ansie ecumeniche bizantine considererà assai più strategico intrattenere cordiali rapporti ufficiali col Patriarcato di Mosca mediante il -sempre calorosamente accolto in Vaticano- Metropolita Nikodim di Leningrado, responsabile patriarcale per i “rapporti esterni”.
La fine repentina ed imprevista della Ostpolitik montiniana è quasi simboleggiata dalla altrettanto repentina morte del metropolita Nikodim fra le braccia di Giovanni Paolo I.
Giovanni Paolo II conosce personalmente la sofferenza dei cattolici sudditi della dittatura sovietica e che i greco-cattolici ucraini sono stati la vittima sacrificale per ottenere cordiali rapporti tra il Vaticano e Mosca.
Papa Wojtyla con una sua lettera pontificia del 1979 indirizzata al cardinale ucraino Josyf Slipy vuole invece rendere pubblico omaggio alla chiesa martire dell’Ucraina nata con l’Unione di Brest nel 1591 ma le cui origini risalgono a quel battesimo del principe Vladimir di cui nell’ormai non lontano 1988 si sarebbe festeggiato il millenario.
Il patriarcato di Mosca rispondenva prontamente annullando l’incontro teologico bilaterale che doveva celebrarsi ad Odessa e tramite il nuovo responsabile per i rapporti esterni metropolita Juvenaly, si domandò al Pontificio segretariato per l’unità dei cristiani di spiegare “il significato esatto” delle parole del papa.
Giovanni Paolo II non solo a parole ma fattivamente si preoccupò della sopravvivenza di quella Chiesa ucraina fedele a Roma il cui Arcivescovo maggiore cardinal Slipy ormai ottantacinquenne viveva in esilio dal lontano 1963. Al fine di dare una chiara continuità storica e canonica alla Chiesa ucraina unita a Roma, nel 1980 convocava in Vaticano la gerarchia greco-cattolica nella diaspora per eleggere colui che alla morte di Slypy gli sarebbe dovuto succedere nella carica di Arcivescovo di Leopoli. Per non aggravare ulteriormente i rapporti con Mosca però Giovanni Paolo II rifiutò di assecondare la richiesta del Sinodo ucraino che insisteva affinchè la propria Chiesa –e il proprio capo- venisse elevata al rango patriarcale.
Ma, d'altro canto, l’insistere pubblico e reiterato di Giovanni Paolo II nel voler pubblicizzare il millenario del battesimo della Russia costrinse il governo sovietico -dopo il 1985 retto nelle mani di Gorbaciov- a consentire ufficiali cerimonie commemorative (in cui ci sarebbe stato quel che più si voleva evitare: l’affluenza popolare) dove al Patriarca di Mosca sarebbe spettato il ruolo di padrone di casa. Epperò il Santo Sinodo ebbe il sospetto (più o meno fondato), nonché il vivo terrore, che Gorbaciov tra gli ospiti internazionali da invitare ai festeggiamenti del 1988 includesse anche il Papa polacco. Il Patriarca Pimen dichiarò preventivamente che il Papa di Roma era assolutamente ospite non gradito poiché non si voleva in alcun modo consentire che si sollevasse nuovamente e pubblicamente la questione degli “uniati” ucraini che per il Patriarcato di Mosca dopo il 1946 esistevano soltanto nei libri di storia.
Se la caduta del muro di Berlino, e l’accelerazione della svolta democratica della poltica di Gorbaciov diede ai russi anche una autentica libertà di culto di cui il Patriarcato sul momento non seppe che farsene -e che prima ancora di consentire agli occidentali sia cattolici sia protestanti di esercitare sgradito “proselitismo”- che diede, invece, la libertà a milioni di ucraini di professarsi cattolici e a migliaia di preti e monaci di uscire in massa dall’obbedienza al Patriarca di Mosca per tornare all’obbedienza al Papa di Roma (mentre l’altra mezza ucraina ortodossa chiedeva anch’essa l’indipendenza ecclesiastica da Mosca).
Nell’anno 1990, mentre stava per crollare l’Unione sovietica ed al contempo minacciava di sgretolarsi l’unità del Patriarcato a causa delle rivendicazioni separatiste dei vari popoli ed etnie presenti nell’impero sovietico quasi a significare la fine di un'era moriva il Patriarca Pimen cui succedeva, quale quindicesimo Patriarca “di tutte le Russie” il giovane metropolita di Leningrado Alexij Ridiger.
A questo punto comincia un’altra storia: comincia la dolorosa e gloriosa storia dei diciotto anni di pontificato di Sua Santità Alessio II. Una nuova storia che è fatalmente la continuazione di una vecchia storia.
Per valutare il raggio d’azione in cui si è mosso Alessio II bisogna pertanto superare a ritroso non solo il muro di Berlino ma altri muri di separazione assai più duraturi che si sono sedimentati tra le pieghe della cultura russa, almeno negli ultimi cinquecento anni:
1) il presupposto implicito del carattere imperiale della Chiesa russa fatalmente ereditato dall’Impero romano d’Oriente;
2) la gelosa rivendicazione dell’eredità religiosa, culturale e civile del principato di Kiev;
3)l’invincibile diffidenza per l’atavico avversario polacco (nonché cattolico).
Sarebbe davvero opera di sciocchi e di sprovveduti –come del resto si è fatto ampliamente!- voler tracciare un seppur abbozzato profilo del “governo” di Alessio II limitandosi a contare gli abbracci che ha dato o che si è rifiutato di dare, o che non ha fatto in tempo a dare.
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