sabato, gennaio 31, 2009

Pro Missa bene cantata [8]

Ovvero: Il Cappellone degli Spagnoli


La "reale" chiesa sevigliana di San'Antonio Abate è la sede della più antica delle confratenite penitenziali di Siviglia (fondata nel 1340) ovvero della "muy illustre" reale e pontificia ArciConfraternita di "Nuestro Padre Jesús Nazareno, Santa Cruz en Jerusalén y Maria Santisima Virgen de la Concepcion" (nota popolarmente come "El Silencio" poichè la confraternita sfila processionalmente per le calli sevigliane ogni anno nel cuore della notte tra il Giovedì Santo ed il Venerdì Santo priva del ferale accompagnamento musicale).
Gli statuti confraternali stabiliscono che la prima domenica di febbraio sia particolarmente dedicata al culto del ligneo Cristo seicentesco titolare della confraternita e che, inoltre, la solenne celebrazione sia preceduta da un altreattanto solennissimo "Quinario".

Al vespro di venerdì 30 gennaio 2009 -quarto giorno del quinario- don José Antonio Parrilla, padre spirituale della confraternita, ha celebrato davanti al Nazareno del Silencio una messa votiva secondo il rito di San Pio V con il plauso dei confratelli "nazareni".
L'evento è degno di nota poichè per la prima volta dopo la riforma del messale approvata da Paolo VI nel 1969 -e dopo la liberazione del rito tridentino voluto da Benedetto XVI col motu proprio del 7 Luglio 2007- una confraternita della "Semana Santa" sivigliana ha celebrato un solenne e pubblico atto di culto nella "forma straordinaria" del Messale Romano.

venerdì, gennaio 30, 2009

DEVOTIO MODERNA [13]


Ovvero: la PREGHIERA dell'orrido Camillo Langone
sul Foglio di venerdì 30 gennaio 2009.
I profanatori di montagne iscritti alla Sat, Società Alpinisti Tridentini (non nel senso di pre-conciliari), protestano per le troppe croci presenti sulle cime. Hanno trovato un prete confuso che invece di rammentare il Salmo 94 (“Sono sue le vette dei monti”) ha dato loro maldestramente ragione: “Ci sono eccessi, ostentazione un po' talebana”. Aspettando che monsignor Grosselli mi spedisca immagini delle montagne dell’Afghanistan cariche di crocifissi, mi sono domandato come mai la Sat ce l’abbia con i segni cristiani. Risposta: l’alpinismo moderno sta diventando sinonimo di suicidio e i suoi cultori non vogliono incrociare lo sguardo di colui che ha comandato di amare non solo gli altri, anche se stessi. E pure questo è scritto: “Sono un popolo dal cuore traviato”.

giovedì, gennaio 29, 2009

Gran Rabbi nato /8

Ovvero: "Poi udii il numero di coloro che furon segnati con il sigillo: centoquarantaquattromila, segnati da ogni tribù dei figli d'Israele: dalla tribù di Giuda dodicimila; dalla tribù di Ruben dodicimila; dalla tribù di Gad dodicimila; dalla tribù di Aser dodicimila; dalla tribù di Nèftali dodicimila; dalla tribù di Manàsse dodicimila; dalla tribù di Simeone dodicimila; dalla tribù di Levi dodicimila; dalla tribù di I'ssacar dodicimila; dalla tribù di Zàbulon dodicimila; dalla tribù di Giuseppe dodicimila; dalla tribù di Beniamino dodicimila."
(Apocalisse VII,4-8)

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Il rabbino Giuseppe Laras, presidente dell'assembea rabbinica italiana (già Rabbino Capo di Milano) ha esternato tutto il proprio dolore e rincrescimento per le parole pronunziate dal Papa all'Angelus di domenica 18 gennaio 2009 nelle quali Benedetto XVI manifestava tutta la propria "trepidazione" per le vittime civili (e quindi innazitutto palestinesi) dello scontro militare tra Israele ed Hamas nella Striscia di Gaza: "Ricordiamo anche oggi al Signore le centinaia di bambini, anziani, donne, caduti vittime innocenti dell’inaudita violenza, i feriti, quanti piangono i loro cari e coloro che hanno perduto i loro beni".
Per il rabbino Laras invece un tale atteggiamento contabilistico sarà ancora più di ostacolo al dialogo ed alla comprensione ebrei e cattolici.
Alla giornalista Alessia Gallione del quotidiano "La Repubblica" che gli contestava il dato inoppugnabile che le vittime palestinesi erano almeno mille e duecento mentre quelle israeliane soltanto tredici, Laras rispondeva: "Non possiamo fare questione di numeri. Ogni morte è una tragedia infinita".
Rimarcava il concetto il rabbino capo di Venezia Elia Enrico Richetti: "Il problema non è il numero delle vittime."

Il trevigiano e lefebvriano Don Floriano Abrahamowicz in un'intervista pubblicata sulla Tribuna di Treviso del 29 gennaio 2009 con l'eloquente titolo "Le camere a gas? Per disinfettare", rispondendo alle domande della giornalista Laura Canzian -dopo aver rimarcato di essere anch'egli d'origine ebraica- cercava di difendere l'indifendibile vescovo lefebvriano Richard Williamson dalle polemiche suscitate dalle sue dichiarazioni dubitative intorno alla funzione delle camere a gas nei campi di sterminio nazisti.
La giornalista, perciò, incalza don Abrahamowicz: "Lei mette in dubbio il numero delle vittime dell’Olocausto?
Lo sventurato rispose: "No, non metto in dubbio i numeri. Le vittime potevano essere anche più di 6 milioni. Anche nel mondo ebraico le cifre hanno un valore simbolico. Papa Ratzinger dice che anche una sola persona uccisa ingiustamente è troppo, è come dire che uno è uguale a 6 milioni. Andare a parlare di cifre non cambia niente rispetto all’essenza del genocidio, che è sempre un’esagerazione."

mercoledì, gennaio 28, 2009

In Festo Divi Thomae Aquinatis [2]


"San Francesco viene definito umano perchè ha tentato di convertire i saraceni senza riuscirci.
San Domenico viene definito fanatico e invasato perchè ha tentato di convertire gli albigesi e c'è riuscito."


Ovvero, il Tomismo secondo Gilbert Keith Chesterton:

“Questo movimento medievale non è mai sceso a compromessi con il mondo, ne si è mai arreso al paganesimo o all’eresia, e nemmeno si è semplicemente avvalso di aiuti esterni, nemmeno quando ha effettivamente preso a prestito qualcosa. Se vogliamo limitarci al fatto che tendeva alla conoscenza, possiamo paragonarle a un albero che con tutte le sue forze protende il fogliame verso il sole, piuttosto che di un sole che si limita a lasciar trapelare la luce del giorno in una prigione.
In breve, era quello che con un linguaggio paludato si chiama “sviluppo dottrinale”.
A quanto pare, però, c’è una singolare ignoranza del significato del termine “sviluppo”, non solo nella sua accezione aulica ma anche in quella corrente.

Secondo i critici della teologia cattolica non ci sarebbe stato un’evoluzione quanto una diversione cioè, a dir tanto, un adattamento. Nella loro interpretazione, il suo successo sarebbe stato il successo di una capitolazione. Ma questo non è il significato corretto del termine “sviluppo”.
Quando diciamo che un bambino è ben sviluppato, intendiamo dire che è cresciuto e si è si è fatto più robusto con le sue sole forze e non che gli hanno messo delle imbottiture e che lo fanno camminare con i trampoli per farlo sembrare più alto.
Quando diciamo che un cucciolo si sviluppa in un cane, non vogliamo dire che la sua crescita è un graduale compromesso con un gatto; vogliamo dire che diventa più “cane” non meno.

Per “sviluppo” si intende l’accrescimento di tutte le possibilità e le implicazioni di una dottrina, compreso il tempo per distinguerle ed estrapolarle; e qui sta il punto: l’ampliamento della teologia medievale consisteva semplicemente nella sua comprensione totale. […]
È sotto questo aspetto che la poesia popolare di san Francesco è la prosa quasi naturalistica di san Tommaso si rivelano più palesemente come parti del medesimo movimento. Sono entrambe prodotti dello sviluppo del cattolicesimo, che dipendono da fattori esterni come qualsiasi cosa che vive e cresce, nel senso che li assimila e li trasforma, conservando le proprie connotazioni senza assumere le loro. Un buddhista o un comunista possono fantasticare di due cose che si divorano simultaneamente a vicenda, pensando che quella sia una perfetta forma di unificazione. Ma non è il caso degli esseri viventi.

San Francesco amava definirsi il Giullare di Dio, ma non gli sarebbe piaciuto essere il dio dei giullari. San Tommaso non aveva riconciliato Cristo con Aristotele, aveva riconciliato Aristotele con Cristo.
[…]
Non apportavano innovazioni al cristianesimo, nel senso di introdurvi elementi pagani o eretici; al contrario, portavano il cristianesimo nel cristianesimo.
Il loro compito era di riportarlo indietro contro la pressione di certe tendenze storiche che si erano consolidate come abitudini in molte scuole e correnti autorevoli della Chiesa cristiana; e usavano strumenti ed armi che a molti sembrarono di derivazione eretica e pagana. San Francesco usava la Natura così come san Tommaso usava Aristotele e parve ad alcuni che avessero usato l’uno una dea pagana e l’altro un filosofo pagano.

Ciò che fecero in realtà, e soprattutto ciò che in realtà fece san Tommaso, sarà il principale argomento di queste pagine. Ma è opportuno riuscire sin dall’inizio a metterlo a confronto con un santo più famoso, perché in tal modo potremo ricapitolare l’essenza di tale confronto in un modo più comprensibile da chiunque.

Forse dire che questi due santi ci hanno salvato dalla spiritualità, che è una sorta di maledizione, può suonare paradossale. Forse verrò frainteso se dico che con il suo amore per gli animali san Francesco ci ha salvati dal buddismo, e che con la sua passione per la filosofia greca san Tommaso ci ha salvati dal platonismo. Ma è meglio dire la verità nuda e cruda: sono entrambi la riconferma dell’Incarnazione perché hanno riportato Dio in terra. […]

Non sarà possibile tener celato molto più a lungo che il fatto che Tommaso d’Aquino è stato uno dei maggiori artefici dell’emancipazione dell’intelletto umano.
I settari del XVII e XVIII secolo erano essenzialmente degli oscurantisti che sostenevano a spada tratta la diceria secondo cui il grande scolastico fosse un oscurantista. Questa teoria cominciava già a mostrare le corde fin dal XIX secolo e sarebbe stata insostenibile nel XX. Il che non ha nulla a che vedere con l’attendibilità delle loro o della sua dottrina teologica, ma solo con l’attendibilità storica che comincia a riaffiorare solo ora che le dispute cominciano a scemare.

Si può affermare senza tema di essere smentiti, in quanto si tratta di un fatto storico, che Tommaso è stato un grand’uomo che ha riconciliato la religione con la ragione, estendendola al campo della scienza sperimentale, che ha affermato che i sensi sono le finestre dell’anima e che l’intelletto aveva il diritto divino di alimentarsi di fatti concreti, e che era compito della fede assimilare quanto c’era di assimilabile delle più indigeste e materialistiche filosofie pagane.
È un fatto come la strategia militare di Napoleone, che l’Aquinate si sia battuto per tutto quanto c’era di liberale e di illuminato, a differenza dei suoi rivali o, per quel che vale, di quelli che gli sono succeduti o lo hanno soppiantato.

Coloro i quali, per altri motivi, accettano il risultato finale della Riforma, dovranno comunque ammettere che la si deve al grande scolastico e che, al suo confronto i riformatori venuti in seguito erano dei reazionari. Uso questo termine non come un rimprovero dovuto al mio punto di vista, ma come un dato di fatto secondo il punto di vista progressista attuale. Ad esempio, rimanevano inchiodati alla verità testuali delle sacra scritture, quando san Tommaso aveva già parlato della fonte di ispirazione rappresentata dalle filosofie greche. Mentre lui sosteneva la funzione sociale delle opere, loro soltanto la funzione spirituale della fede.
L’essenza della dottrina tomistica è che la ragione è degna di fede; l’essenza della dottrina luterana è che la ragione non è degna di fede.
Quindi, nel momento stesso in cui questo fatto viene riconosciuto per vero, c’è il rischio che tutti gli indecisi di parere contrastante passino improvvisamente all’estremo opposto. Coloro che fino a quel momento avevano accusato lo scolastico di essere un dogmatico, cominceranno ad ammirarlo come il modernista che ha stemperato il dogma. Si diranno subito da fare per adornare la sua effige con tutte le ghirlande appassite del progressismo, per presentarlo come un pensatore in anticipo rispetto ai suoi tempi, il che significa che è sempre d’accordo con il nostro tempo, e gli attribuiamo il merito di essere il padre del pensiero moderno. Scopriranno il suo carisma e arriveranno all’affettata conclusione che era come loro perché era carismatico.
Fino a un certo punto questo è abbastanza perdonabile; fino a un certo punto era già successo nel caso di san Francesco. Ma nel caso di san Francesco non supererebbe un certo limite.

Nessuno, neppure un libero pensatore come Renan o Matthew Arnold, si azzarderebbe a dire che san Francesco fosse qualcosa di più di un buon cristiano o che avesse qualunque altro singolare movente al di la dell’imitazione di Cristo. Eppure anche san Francesco ha prodotto sulla religione un effetto liberatorio rendendola più umana, per quanto più a livello della fantasia che dell’intelletto. Ma nessuno può dire che san Francesco abbia allentato la regola cristiana, dal momento che era anzi evidente che la stringesse, così come stringeva il cordone del suo saio. Nessuno può dire che abbia aperto le porte allo scetticismo, o che abbia dato il via all’Umanesimo paganeggiante, o che abbia guardato avanti al Rinascimento, o che si sia incontrato a metà strada con i razionalisti.
Nessun biografo oserebbe dire che san Francesco, di cui si dice che abbia aperto il Vangelo a caso e abbia letto il grandioso brano sulla Povertà, avesse in realtà aperto l’Eneide e applicato la Sors Virgiliana in segno di rispetto verso la letteratura e la cultura pagane. Nessuno storico oserebbe dire che san Francesco scrisse il Cantico delle Creature a imitazione di un inno omerico dedicato ad Apollo o che amava gli uccelli perché aveva imparato tutti i trucchi degli àuguri romani.
In breve, quasi tutti noi sia cristiani sia pagani, oggi ci troveremmo d’accordo sul fatto che l’idea francescana era innanzitutto un sentimento cristiano, che scaturiva da una fede innocente (o, se preferite, ignorante) nella religione cristiana.

Come ho detto, nessuno direbbe mai che san Francesco trasse ispirazione da Ovidio. E sarebbe altrettanto falso dire che san Tommaso traesse ispirazione da Aristotele.
Tutta la sua vita, specialmente l’inizio, la storia della sua infanzia, la strada che ha scelto, ci dicono senz’ombra di dubbio che era profondamente devoto e che amava incondizionatamente la religione cattolica, molto prima di trovarsi a dover combattere per difenderla.
A riguardo c’è un esempio che collega ancora una volta molto strettamente san Tommaso a san Francesco. È strano, ma pare sia stato dimenticato che nel santificare i sensi o i semplici fatti naturali, entrambi questi santi imitavano un maestro che non era Aristotele e tanto meno Ovidio, quando san Francesco si muoveva con umiltà tra gli animali o san Tommaso disputava cortesemente con i gentili.

Chi non capisce questo, non capisce il punto essenziale della religione, quand’anche si trattasse di una superstizione; peggio ancora, a sfuggirgli è la parte che considererebbero più superstiziosa. Mi riferisco alla sconcertante storia del Dio-uomo del Vangelo.
Alcuni non la capiscono neppure quando conoscono san Francesco e il suo modo genuino e privo di fondamento culturale di essere attratto dal Vangelo. Parlano della disponibilità di san Francesco a imparare dai fiori e dagli uccelli come del segno premonitore di un rinascimento pagano, mentre i fatti dicono chiaramente due cose. La prima è che si tratta di una reminiscenza del Nuovo Testamento; la seconda è che se proprio la si vuol vedere come segno premonitore, lo sarebbe casomai del realismo aristotelico contenuto nella Summa di san Tommaso d’Aquino.
Hanno la vaga sensazione che rendere più umana la divinità significhi renderla pagana, senza accorgersi che l’umanizzazione della divinità è proprio il dogma più forte, più rigoroso e più incredibile del Credo.

San Francesco diventava più simile a Cristo, e non soltanto a Buddha, quando contemplava i gigli del campo o gli uccelli del cielo; e san Tommaso diventava più cristiano, e non soltanto più aristotelico, quando asseriva che Dio e l’immagine di Dio erano venuti in contato con il mondo sensibile attraverso la materia.
Questi santi erano degli umanisti nella più corretta accezione del termine, in quanto affermavano l’enorme importanza dell’essere umano nello schema teologico delle cose. Ma non erano umanisti avviati sulla via del progresso che conduce al modernismo e al totale scetticismo in quanto proprio nel loro umanesimo erano assertori di un dogma che oggi viene spesso considerato come la più vana credenza del superumanesimo. Rafforzavano il vacillante dogma dell’Incarnazione, che gli scettici considerano il più difficile cui prestare fede.
La divinità di Cristo è l’osso più duro di tutta la teologia cristiana.”

(Gilbert K. Chesterton; San Tommaso d'Aquino, 1933)

LA DIVINA PASTORA [12]

Ovvero: Benedetto Diciassettesimo?


Stralcio dell'intervista di Juan Manuel de Prada al "Piccolo Razinger" Cardinal Antonio Cañizares Llovera, neo-Prefetto della Congregazione del Culto Divino e della Disciplina dei Sacramenti, pubblicata sull' Osservatore Romano di mercoledì 28 gennaio 2009:

"Lei, prima di occupare la sede primaziale di Toledo, è stato vescovo di due sedi emblematiche, Avila e Granada.
Come ricorda quell'esperienza?

Quando mi hanno nominato vescovo di Avila, sono rimasto paralizzato dallo stupore. Quando il nunzio me lo ha comunicato, sono restato un po' in silenzio, e poi ho detto: Fiat voluntas tua, che sarebbe diventato il mio motto episcopale.
Pochi giorni dopo la pubblicazione della mia nomina, ci fu una persona che volle dedicarmi un'ora del suo tempo a Roma. Mi spiegò cosa significava essere vescovo, e in particolare vescovo di Avila: mi ha detto che santa Teresa di Gesù e san Giovanni della Croce videro sempre in Dio la chiave e il fondamento di tutto. È questa la scelta che viene offerta all'uomo contemporaneo: vivere in Dio o non vivere in Lui; comprendere tutto a partire da Dio stesso, o vedere tutto come se fosse opera nostra.
Santa Teresa ci ha insegnato a vedere un Dio molto "umanato", ci ha insegnato a vedere il volto umano di Dio nella persona di suo Figlio, concetto sul quale sta insistendo il nostro attuale Papa.
La spiritualità teresiana ha fatto sì che si radicasse ancor di più nella mia vita il significato cristocentrico di tutto: è Gesù Cristo che ci rivela e ci dona Dio.

Poi è venuta Granada, che, se ho ben capito, l'ha aiutata a conoscere meglio un'altra donna fondamentale.
È vero. A Granada si è concluso il mio avvicinamento alla figura di quella gran donna che è stata Isabella la Cattolica, che avevo studiato durante la mia permanenza ad Avila.
Santa Teresa e la regina Isabella sono indubbiamente le due donne più importanti della storia di Spagna.
Granada, come è noto, fu l'ultima sede del dominio islamico in Spagna; e quando arrivo a Granada scopro che vi sta avendo luogo una penetrazione organizzata dell'Islam, che non è spontanea e neppure semplicemente frutto dei movimenti migratori. A tutto ciò dovevo dare una risposta, che non è stata quella di oppormi, bensì di rafforzare e consolidare l'identità cristiana promuovendo la religiosità popolare che - al di là di quegli aspetti che possono aver bisogno di una purificazione - è espressione profonda delle radici spirituali di un popolo.
Lì ho scoperto che la regina Isabella portò a termine l'evangelizzazione di Granada istituendo vari monasteri di clausura nel quartiere di Albaicín. In effetti non vi può essere evangelizzazione senza preghiera, senza contemplazione, senza una testimonianza vera del Dio vivo, rivelato e manifestato in Gesù Cristo.


E poi viene Toledo.
Quando mi nominano arcivescovo di Toledo, mi ricordo provvidenzialmente di una conferenza del cardinale Ratzinger a cui avevo assistito. In essa aveva affermato che l'unità nella fede fra i popoli germanici e quelli latini, superando l'arianesimo, era stata raggiunta nel terzo concilio di Toledo. E quell'unità - sosteneva Ratzinger - fu il seme di unità per la Spagna e, ancor di più, di unità per l'Europa. Dall'unione dei popoli germanici e latini nella fede sorge una cultura nuova che non era stata possibile fino ad allora; e anche una morale nuova che si sarebbe delineata nei successivi concili toledani.
Poi, con l'invasione musulmana, i mozarabi rimarranno a Toledo conservando il proprio rito, nonostante la persecuzione e la discriminazione sociale che subirono. Ciò fu possibile perché il lavoro svolto dai concili toledani aveva favorito un radicamento profondo della fede.
A Toledo si vede come tutta la storia successiva della Spagna è, come dice Julián Marías, un tentativo di recuperare la Spagna perduta. La Spagna si costruisce proprio a partire dalla fede cattolica; poiché, sebbene vi abbiano coesistito strutture politiche diverse, l'identità spagnola era segnata dall'ecclesialità, dal vincolo con la sede di Pietro.
Giungiamo così al xv secolo, con l'imponente figura della regina Isabella, che quando si recava a Toledo non risiedeva in un palazzo, bensì nella cattedrale; e dalle sue stanze assisteva alla messa. Inoltre ogni volta che dalla Castiglia si recava in Andalusia passava per Guadalupe, un santuario dell'arcidiocesi di Toledo. È lì dove autorizza il viaggio di Colombo, a condizione che le terre scoperte siano evangelizzate. Ha così inizio la più grande impresa di tutta la storia spagnola, cioè l'evangelizzazione dell'America e, di conseguenza, la creazione di una nuova umanità che, senza rinnegare quanto di buono e di grande vi era in quelle civiltà indigene, avrebbe loro aperto l'orizzonte della redenzione.
Da Toledo si capisce benissimo che, se la Spagna smettesse di essere cattolica, smetterebbe di essere Spagna."

Ecclesia Dei afflicta

Sive: In cauda Venenum


Amplissimo stralcio dall'articolo a firma di Chris Bonface sul quotidiano "Italia Oggi" di mercoledì 28 gennaio 2008 sulle "rivelazioni" sul procedimento di stresura del decreto di revoca della scomunica ai quattro vescovi lefebvriani, e sulle lamentazioni al riguardo avvenute su uno dei pullman che -al vespro di domenica 25 gennaio- dal Vaticano hanno trasportato gli Eminentissimi menbri della "Famiglia Pontificia" alla celebrazione ecumenica "per l'unità dei cristiani" nella Basilica San Paolo fuori le mura:
"...da uno dei primi sedili stava esplodendo il vocione del cardinale Giovanni Battista Re, prefetto della congregazione dei vescovi.
Quasi un urlo, «Quel Pasticcion!», il modo di storpiare il nome di un collega porporato, il cardinale Dario Castrillòn Hoyos. Sì, tutta colpa secondo Re del Castrillòn-Pasticciòn, che secondo il collega cardinale avrebbe istruito la pratica in fretta e furia per non farsi sfuggire l'occasione storica della chiusura dello scisma lefebriano.
«Anche a me», avrebbe tuonato il cardinale Re secondo gli altri viaggiatori del pullman (altri prelati e vescovi), «non ha dato che qualche ora di tempo per mettere la controfirma necessaria. Tutto perché tra poco Castrillòn (il «Pasticciòn») compie 80 anni e se ne va in pensione. Se non si chiudeva subito il dossier, non sarebbe toccato a lui...».

Secondo lo sfogo del cardinale Re «quel testo faceva acqua da tutte le parti! D'altra parte l'ha scritto Francesco Coccopalmerio (presidente del Pontificio consiglio per i testi legislativi) che già bisticcia di suo con la lingua italiana... Insomma, se si fosse aspettato un mesetto e magari dare la notizia quando si era messo a punto anche il nuovo stato giuridico dei lefebriani, sarebbe stata tutt'altra cosa e non ci si sarebbe esposti a questa gaffe!».

Furente- ed è dire poco- il cardinale Re mentre si recava alla funzione celebrativa della conversione di San Paolo. E prodigo di particolari anche di fronte alle domande degli ospiti.
Ma allora tutta colpa dell' improvvisazione? Nessuno sapeva del caso dell'arcivescovo Richard Williamson e della sua intervista-choc alla tv svedese in cui si negava lo sterminio degli ebrei durante la seconda guerra mondiale?
Macchè, ha spiegato Re agli altri viaggiatori. Tutto noto a Castrillòn-Pasticciòn. Che sapeva, probabilmente non ha detto nulla al Papa, e certo ha sottovalutato le conseguenze.
Secondo quanto riferisce uno degli ospiti del pullman Castrillon avrebbe contattato il superiore generale dei lefebriani, monsignore Bernard Fellay, che gli avrebbe assicurato che «non bisognava stare dietro a Williamson. Lui per altro veniva dalla chiesa anglicana, e dice di non volere entrare in quella cattolica. Ma è malato da tempo, forse ha poche settimane di vita, e non ragiona più. Sbarella tutti i giorni, e chissà quante ne dirà ancora...». Un caso clinico quindi, a cui non dare troppa importanza.
Certo, secondo Re, montato ad arte dai mass media il giorno successivo, ma «bisognava metterlo in conto, e non ci fosse stata questa terribile e immotivata fretta di Castrillòn, evitabile, evitabilissimo»..."

domenica, gennaio 18, 2009

Dialogo ebraico-cristiano /4

Sive: Scena ex pellicula italice "Il marchese del Grillo", anno MCMLXXXI a Mario Monicelli facta
GIUDICE: "Christi nomine invocato pro tribunalis sedentes hanc nostram definitivam sentenziam emanamus.
Addi' 18 febbraio 1809,
accertato dai periti che il lavoro in discussione non e' stato eseguito dal Piperno Aronne a regola d'arte, che etiam, un antico portale e' stato rovinato e diminuito sensibilmente nel suo valore originario, che etiam, provato che il Piperno, di religione ebraica, per portare a termine quel lavoro e' rimasto fuori del ghetto oltre la chiusura serale dei cancelli:
il tribunale respinge le richieste di Piperno Aronne ebanista, nei confronti dell'eccellentissimo marchese Onofrio Del Grillo, e lo condanna alle spese di questo giudizio.

E per lite temeraria del reato contro disposizioni del coprifuoco, ad essere etiam esposto alla pubblica gogna."

ARONNE PIPERNO: "Pure!"

GIUDICE: "In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen."

martedì, gennaio 13, 2009

De Obitu Theodosii /2

Dal saggio "IMPERI PARALLELI" (Mondadori, 2005) del giornalista Massimo Franco:

Il primo degli hollywoodiani
La processone delle autorità si snodava, come un elegante e festoso millepiedi, per salutare il nuovo re della repubblica americana. Prima gli ambasciatori accreditati presso il governo degli Stati Uniti; poi, in coda, il mondo variopinto degli amici celebri di Ronald Reagan: quelli che a Hollywoood , nel mondo del cinema, avevano avuto più successo, più gloria, più soldi di lui; almeno fino a quel momento. Spiccavano il volto levigato dal lifting di Frank Sinatra “the Voice”. La silhouette elegante e austera di Gregory Peck , che in gioventù aveva fatto il chierichetto in Austria. E il fascino di una Louren Bacall e di una Katherie Hepburn dalla bellezza un po’ sfiorita, ma sempre luminosa.
Era il gennaio del 1981, e Washington salutava l’inizio dei favolosi anni Ottanta con un presidente che avrebbe fatto dell’ottimismo una sorta di stella polare vincente, degna della stagione selvaggiamente “felice” che sarebbe arrivata. E quegli attori, quei registi quei produttori dell’industria californiana del cinema erano la corte del miracolo conservatore visto dal suo lato più scintillante.
Ma c’era una piccola terra di nessuno, in quella sfilata, che non si riusciva facilmente a catalogare.
A capeggiare la brigata delle troupe cinematografiche si notava un signore col cappotto scuro, sulla sessantina, quasi pelato, l’aria rilassata di chi fa sport e un’eleganza discreta, non proprio hollywoodiana.Certo, non si poteva dire che avesse un volto conosciuto, che fosse una celebrità.
Chiudeva la parata degli ambasciatori, ma si intuiva che non era uno di loro; e in parallelo apriva quello del mondo della celluloide, ma si avvertiva qualcosa che lo rendeva poco omogeneo anche al secondo gruppo.
Era l’ultimo dei diplomatici ed il primo degli amici? Bella domanda. Qualcuno che avesse conosciuto un po’ a fondo i circoli del potere washingtoniano avrebbe detto che in un certo senso era entrambe le cose.
Quel signore dal naso affilato e lo sguardo ironico, sotto indossava il clergyman d’ordinanza, e aveva apprezzato segretamente la bellezza della Hepburn. Si trattava del delegato apostolico presso i vescovi degli Stati Uniti, Pio Laghi. Era anche uno degli interlocutori più assidui di Reagan, come lo sarebbe stato in seguito di George Bush padre, prima vicepresidente e poi successore di Reagan alla Casa Bianca, diventando amico di tutto il clan dei Bush.

Laghi era diplomatico ma non Nunzio Apostolico: per questo sfilava in coda a tutti i Paesi del mondo riconosciuti come tali dal cosiddetto “Impero del Bene”. Non si trovava lì nemmeno in quanto rappresentante della Santa Sede presso i vescovi Usa, ma nella veste di osservatore permanente presso l’Organizzazione degli Stati americani: con un francese, uno spagnolo e un portoghese. La sua presenza e la sua posizione in quel corteo protocollare riflettevano il limbo nel quale rimanevano i rapporti tra Stati Uniti e Città del Vaticano. Ma anche il paradosso creato da un’incomprensione lunga, a quel tempo, ormai quasi due secoli.
Eppure Laghi, nato a Faenza, veterano della diplomazia vaticana e conoscitore profondo degli Stati Uniti, dove era già vissuto dal 1954 al 1961 e dove aveva conosciuto madre Teresa di Calcutta, alla quale avrebbe dedicato un libro, intuiva che qualcosa si stava muovendo. Non tanto in un’opinione pubblica americana ancorata ai vecchi stereotipi, ma in un’Amministrazione che aveva salutato come un miracolo geopolitico se non un regalo della Provvidenza, l’arrivo del papa polacco Karol Wojtyla: un uomo uscito dalla “Chiesa del silenzio” e un nemico acerrimo del comunismo, come tutto l’episcopato polacco.

Mentre Laghi era ancora nunzio in Argentina, chiacchierato e criticato da alcuni perché giocava a tennis con i dittatori sudamericani o comunque si riteneva che avesse troppa consuetudine con loro, ricevette da Roma l’annuncio che era destinato a Washington. Era la fine del 1980. E qualche giorno dopo, con sua grande sorpresa, gli fu anche recapitato un telegramma personale di Reagan, nominato presidente ma non ancora insediato. Con una certa dose di autoironia e understatement poco aderente al clichè che si ha degli americani, il neopresidente gli scriveva: “Pare che entrambi siamo destinati ad un incarico a Washington. Benvenuto”. Non era, non poteva essere considerato soltanto un saluto rituale: conteneva qualcosa di più. Forse una promessa, o una speranza di dialogo più ravvicinato.
3339, Massachusetts Avenue
Nell’Amministrazione repubblicana che prendeva il posto di quella di Jimmy Carter, travolta insieme al partito democratico dalla vicenda degli ostaggi Usa in Iran, si faceva strada la convinzione che i “papisti” fossero non solo interlocutori, ma alleati naturali e indispensabili nella spallata finale all’Unione Sovietica. Ma non solo. Gli uomini di Reagan ritenevano che anche nei rapporti col Centro e col Sud America, segnati dal sandinismo, dalla teologia della liberazione e dagli squadroni della morte paramilitari collegati con la destra, e a volte manovrati in accordo coi servizi segreti Usa, la Chiesa Cattolica era un elemento di equilibrio e di mediazione. Era uno dei casi nei quali riemergeva l’immagine di un Vaticano “emporio dell’intelligence”, ma non europea quanto latino-americana. La Santa Sede sapeva molto, e poteva farlo sapere e soprattutto farlo capire agli americani. Laghi ebbe la fortuna i trovarsi Washington nel momento di massima popolarità e profilo strategico del papa polacco. Si stava giungendo ad uno snodo cruciale. E quel diplomatico che era già stato lì sette anni ci sarebbe rimasto altri nove aveva l’esperienza perfetta per il ruolo assegnatogli e per quello che avrebbe rivestito da li a quattro anni. Missioni a Gerusalemme, Cipro, Nicaragua, India; poi nunzio in Argentina. Era l’uomo giusto al quale Reagan poteva trasmettere l’ammirazione degli americani per Giovanni Paolo II. E saldare un tandem strategico.
[…] E Laghi era lì per facilitare, sviluppare e portare a nuove conseguenze questa comprensione.

Era stato nominato delegato apostolico in Usa il 10 dicembre 1980: il decimo in novant’anni; il primo era stato Satolli. Risiedeva in un palazzo in stile rinascimentale-fiorentino, acquistato negli anni trenta dal primate cattolico americano, l’arcivescovo di Baltimora. Era lì, all’angolo con la 34° strada, che era stato scelto il terreno. Il primo ad abitarci fu il delegato Filippo Cicognani. La sede al 3339 di Massachusetts Avenue, aveva ed ha una caratteristica: si trova proprio di fronte a quella del Naval Observatory, l’Osservatorio navale che funge da residenza del vicepresidente degli Stati Uniti.

“Con Bush padre ci salutavamo dalla finestra” è solito dire Laghi; ma non solo dalla finestra. Con discrezione, e tuttavia con assiduità crescente, i due cominciarono a incontrasi e discutere di quello che poteva accadere. Bush era più accessibile di Reagan , in quella fase. E il dialogo con il presidente e il vicepresidente procedevano paralleli.
Il delegato vedeva in quell’Amministrazione un’America affamata di informazioni; decisa ad usare al massimo il ruolo di cuneo del pontificato nell’impero sovietico; e intenzionata a chiudere i conti con il comunismo e col proprio passato anticattolico, sebbene dal punto di vista culturale restasse una profonda difficoltà a capire cosa fosse esattamente il Vaticano.Non era chiaro nemmeno il mestiere che faceva un personaggio come Laghi.

Molti anni dopo la sua esperienza a Washington, il cardinale ricevette la visita di Bush padre a Roma, nel suo appartamento in Piazza della Città Leonina, in un palazzo in cui abitava anche Joseph Ratzinger.
L’ex presidente osservò i presepi in miniatura di terracotta bianca, posò lo sguardo sul ritratto a olio di Laghi. Scorse la collezione di icone d’argento e un piccolo vassoio di caramelle candite. E poi gli chiese candidamente: “Eminenza, ma esattamente che cosa ha fatto nei suoi quasi dieci anni da noi?”.

mercoledì, gennaio 07, 2009

Rintrono Papale /3

Ovvero: "Cari fratelli e sorelle, quest’anno si chiude con la consapevolezza di una crescente crisi sociale ed economica, che ormai interessa il mondo intero; una crisi che chiede a tutti più sobrietà." (Benedictus PP XVI)

1) NOTA EXPLICATIVA PREVIA:
Un trono barocco in legno intagliato e dorato (e con i due sgabelli per i cardinali assistenti al soglio) commissionato al Bernini da Papa Innocenzo X Panphilj, e del quale a memoria d’uomo non si ricorda un suo uso nelle cerimonie pontificie, si trova esposto -quale laica reliquia dell’estro berniniano- in una sala di rappresentanza della villa pontificia di Castelgandolfo.
Più recente è il trono ligneo commissionato da Pio IX per presiedere il Concilio Vaticano I detto “degli apostoli” o "della consegna delle chiavi"a causa del bassorilievo intagliato e dorato nella lunetta che corona lo schienale. Questo trono è noto per essere stato utilizzato per le foto ufficiali di inizio pontificato dei papi novecenteschi fino a Giovanni Paolo I compreso.
Stabilmente alloggiato in Vaticano nella “Sala del Concistoro”, Paolo VI –assieme ad altre anticaglie della dimessa corte pontificia- lo destinò al Museo Storico Lateranense dove per quarant’anni ha atteso la propria rivincita consumata fredda il giorno dell’Epifania del 2009 quando Benedetto XVI vi si è assiso per pontificare nella Basilica Vaticana.
Assai più grande ed esuberante del trono di Pio IX è quello “di Leone XIII” detto anche “dello Spirito Santo” per la colomba raffigurata nella lunetta in cima all’alto schienale. Destinato alla “Sala del trono” dell’appartamento pontificio servì anche per l’incoronazione di Pio XII e di Giovanni XXIII; fu utilizzato da papa Roncalli per presiedere l’apertura del Concilio Vaticano II così come da Paolo VI nella cerimonia di chiusura.
L’aggiornamento dell’arredamento voluto da Papa Montini decentrerà l’ex trono -declassato a pregiata chincaglieria antiquaria- in un angolo di una sala dell’imborghesito “appartamento nobile pontificio”.
Contro ogni possibile previsione, nel dicembre 2006 ricompariva timidamente nella Sala Clementina per essere usato da Benedetto XVI per il discorso natalizio alla Curia romana, poi nella Sala Regia per gli auguri di buon anno al corpo diplomatico nel gennaio 2007.

Una volta sostituito il Maestro delle celebrazioni pontificie, il trono di Leone XIII pote’ tornare trionfalmente in san Pietro per il concistoro del 24 novembre 2007, poi per i solenni vespri di inizio anno liturgico e di fine anno civile e per le benedizioni Urbi et Orbi.

2) SUMMORUM PONTIFICUM CURA:

In ossequio alla volontà conciliare di una revisione dei libri liturgici che rendesse i riti splendenti “per nobile semplicità”, il 21 giugno 1968 l’allora Sacra Congregazione dei Riti emanava l’istruzione “Pontificales ritus” con cui venivano riformate o abrogate norme e consuetudini contenute nel “Coerimoniale episcoporum”, al decimo punto si decretava che da quel momento in poi il trono episcopale tornasse ad assumere il paleocristiano appellativo di cattedra episcopale: “Sedes Episcopi venerabili et tradito nomine « cathedra » vocatur.” Il vescovo non doveva affatto essere considerato alla stregua d'un "governatore" che dal suo trono amministra una lontana provincia dell’impero romano dei papi cattolici, ma è l’icona vivente di Cristo buon pastore che siede sulla "cattedra della verità" per istruire i fedeli nella dottrina di Gesù divino maestro.
Facciamo attenzione: l’istruzione vaticana ordinava la sostituzione del nome non la sostituzione del manufatto dato che il seggio episcopale che “troneggiava” in ogni cattedrale non aveva affatto le sembianze di un trono regale: il “trono liturgico” da cui il vescovo pontificava in cattedrale era difforme dal trono o “tronetto” su cui il medesimo vescovo sedeva nella immancabile “sala del trono” del suo palazzo vescovile.
Allo stesso modo, il Romano Pontefice, più che il trono quando davea concedere udienza utilizzava soventemente il “tronetto”, che è esattamente quel tipo di poltrona baroccheggiante che ognuno ha in mente quando ci si immagina un trono regale, ovvero: una grande sedia in legno dorato in stile più o meno rococò, con il sedile, i braccioli e lo schienale imbottiti e foderati di velluto damascato (solitamente) rosso.
Una di queste pesanti poltrone - con lo schienale foderato da un arazzo con l’immagine evangelica della consegna delle chiavi- omaggio di Vittorio Emanuele II a Pio IX troneggiava nella sala dell’appartamento pontificio detta appunto “sala del tronetto” fino a quando Paolo VI, nel generale clima di austerità post conciliare, la sostituirà con una assai più scomoda cattedra marmorea medievale.

Sono rarissime le cattedre marmoree ancora al centro del presbiterio delle chiese più antiche e che non siano state distrutte in obbedienza alla riforma liturgica tridentina.
La cattedra episcopale post-tridentina (ribattezzata “trono”) , posta a lato dell’altar maggiore, lignea e dotata di un alto schienale curvilineo, era priva di orpelli poiché le norme liturgiche prescrivevano che il “trono” fosse completamente rivestito si stoffa del colore corrispondente al tempo liturgico: la “cattedra” si presentava quindi sempre foderata o di bianco, o di rosso, o di verde, o di viola. Quando il vescovo presiedeva il “pontificale al trono” il “trono” era sempre rivestito dello stesso colore dei paramenti con cui era rivestito il vescovo medesimo.
Il vescovo di Roma non faceva eccezioni alle norme generali del “Coerimoniale episcoporum”, tranne che per alcuni privilegi quali: un maggior numero di gradini ai piedi del trono, l’utilizzo della sola seta per il rivestimento del “trono” e dell’utilizzo unicamente dei colori liturgici del bianco e del rosso. Di quest’ultimo privilegio possiamo ben dire che i Romani Pontefici non ne abbiano mai abusato poiché, pontificando pochissime volte l’anno e durante le grandi solennità i cui colori liturgici possono essere solo o il bianco o il rosso, quindi, non si sarebbe mai potuto verificare il caso in cui il pontefice sedesse sul trono bianco vestito con i paramenti verdi o sul trono rosso coi paramenti viola (da folli il solo ipotizzare che un giorno Papa Ratzinger avrebbe celebrasse vestito di bianco su di un seggio rosso e vestito di rosso su di un seggio bianco!).


Il trono liturgico del papa non era affatto più grande o più bello del trono liturgico di qualsiasi altro prelato cattolico, però nella maggior parte delle pubbliche celebrazioni religiose a cui presenziava, il Pontefice non celebrava personalmente la messa ma si limitava ad assistere alla messa (celebrata dal cardinale designato dalle norme del cerimoniale pontificio) stando seduto sul trono “non liturgico”. All’apertura del concilio Vaticano II, ad esempio, rivestito di mitria e piviale Giovanni XXIII assistette assiso sul trono di Leone XIII alla messa celebrata su di un altare mobile dal cardinal decano Tisserant.

La riforma liturgica post-conciliare non ha innovato soltanto le norme liturgiche ma ha innovato ed ampliato il concetto stesso di liturgia poiché fino ad allora “liturgia” era sinonimo di “Santa Messa”. Tutto ciò che non era “la Messa” non era perciò “liturgia” come si evince dalla lettura della medesima costituzione conciliare Sacrosantum Concilium che decretava la riforma della “liturgia” ma anche degli altri “riti” e delle altre “cerimonie”.

Quando si sente affermare (correttamente) che il triregno non fu mai considerato un copricapo liturgico, non vuol dire che i Romani Pontefici non indossassero mai la tiara durante i solenni riti, le sacre funzioni, e le cerimonie religiose, significa che il papa non portava il triregno durante la messa.
La medesima indorata ferula appartenuta a Pio IX , che dalla Settimana Santa del 2008 il sedici volte Benedetto Ratzinger impugna ogni qual volta deve presiedere una celebrazione liturgica, mai e poi mai sarebbe stata classificata da Pio IX tra gli oggetto di uso liturgico poiché il cerimoniale dell’epoca non prevedeva che il pontefice impugnasse la croce astile durante la messa.
Ma tornando ai troni extra liturgici del pontefice, bisogna ricordare che anche la sedia gestatoria solenne (la quale in fondo altro non è che un trono modificato per essere trasportato processionalmente) veniva utilizzata alla stregua d’un trono: sulla sedia gestatoria solenne furono incoronati Leone XIII, Pio X, Benedetto XV e Pio XI. Sulla sedia gestatoria solenne si presentavano sovente i pontefici alla loggia centrale di san Pietro per impartire alla folla a benedizione Urbi et Orbi; inoltre, essa veniva usata dai pontefici quando presiedevano quei “riti”, come ad esempio le consacrazioni episcopali, nei quali le rubriche imponevano all’officiante di sedere su di un seggio che non fosse il “trono” episcopale.

3) AD PETRI CATHEDRAM:



“Tutti devono dare la più grande importanza alla vita liturgica della diocesi che si svolge attorno al vescovo, principalmente nella chiesa cattedrale”: il desiderio dei padri conciliari acchè si valorizzasse il ruolo dei vescovi diocesani porterà di riflesso ad una nuova normativa liturgica che insisterà sul ruolo della cattedra episcopale quale simbolo dell’unità della diocesi attorno al proprio pastore.
Bella o brutta, antica o moderna la cattedra episcopale è innanzitutto unica ed inamovibile e perciò non sarà più ammesso che si erigano cattedre posticce; ogni qual volta il vescovo dovrà pontificare in chiese diverse dalla cattedrale potrà sedersi su qualsivoglia sedile ritenuto degno d’un prelato: "Unica semper sit cathedra episcopalis; et in ea Episcopus sedeat qui celebrat aut celebrationi pontificaliter praeest. Ceteris vero Episcopis vel Praelatis forte praesentibus sedes paretur, loco convenienti, quae tamen non sit ad modum cathedrae" (Pontificales ritus n.13).

La cattedra del vescovo di Roma si trova nell’Arcibasilica Lateranense e poiché la Basilica Vaticana non è una cattedrale non c’è, ne c’è mai stata, una cattedra papale fissa.
L’unica “Cattedra” all’ombra del cupolone è quella monumentale e simbolica realizzata dal Bernini a gloria del Principe degli Apostoli: la mastodontica bronzea “Cathedra Petri”, sospesa tra cielo e terra, “vacante” a significare che ogni singolo pontefice regnante è solo un temporaneo depositario di quel carisma e di quell’autorità che Nostro Signore conferì a San Pietro.
Tale plastica immagine del “sic transit gloria mundi”, che riempie l’intera abside della basilica vaticana, non poteva che incoraggiare Paolo VI nel suo maquillage minimalista delle celebrazioni papali e nella decisione di pontificare sedendo su una degnissima e lindissima -quanto antitrionfalistica- poltrona che dopo l’offertorio veniva portata via dai sampietrini per liberare ai fedeli la visione dell’altare papale e, dopo la comunione, veniva riportata davanti all’altare per i riti di conclusione e per i saluti del papa ai gruppi di pellegrini.
Quale vicario in terra di quel “Figlio dell’uomo” che “non ha dove posare il capo”, papa Montini farà della precarietà della presenza del suo bianca poltrona un simbolo di una Chiesa “aggiornata” guidata da un papa “moderno” cui basta una asettica poltrona bianca a New York come a Bombey, come a Bogotà, come ad Hong Kong per apparire sempre a proprio agio, padrone della situazione, come quando si trova a casa sua sotto al baldacchino di San Pietro.
Al Papa non servivano più i troni principeschi, gli era ormai sufficiente una poltrona “presidenziale” per ricontestualizzare la pretesa medievale secondo cui “solo il Pontefice Romano è universale”; Giovanni Paolo II con i suoi continui viaggi apostolici porterà al parossismo l’intuizione di Paolo VI.
I vari maestri delle cerimonie pontificie di papa Wojtyla, più che a studiare possibili adattamenti della basilica di San Pietro alle nuove esigenze della liturgia post-conciliare, hanno avuto davvero il loro bel da fare nell’organizzare le messe papali che senza tregua Giovanni Paolo II presiedeva fuori dal Vaticano: nelle piazze, negli stadi e nei palazzi dello sport dei più disparati angolo del pianeta.

L’avvento di monsignor Guido Marini alla sovrintendenza delle liturgie pontificali del sedici volte “sommo liturgo” Benedetto non ha per nulla fatto ordine e chiarezza intorno alla Cattedra del successore di san Pietro ma ha solo alzato futili polveroni per la smania di rispolverare vecchie tappezzerie.

Il sabato 24 novembre 2007, alla vigilia della solennità di Cristo Re dell’universo (durante la quale si è svolta la consegna della berretta ai nuovi cardinali del suo secondo concistoro), Benedetto XVI coronato della mitria ed ammantato dal piviale ha avuto la “ccioia” di sedere all’ombra del baldacchino del Bernini, in faccia al sacro collegio al completo, nel medesimo luogo e sul medesimo trono da cui Giovanni XXIII (anch’egli ammantato del piviale e coronato della mitria) aveva esordito, in faccia all’episcopato mondiale riunito a concilio, con le memorabili parole: “Gaudet Mater Ecclesia!”
Il giorno appresso, per la solenne concelebrazione eucaristica con i novelli cardinali, al posto del maestoso trono era però ritornata la “tradizionale” bianca poltrona wojtyliana.
Intervistato, monsignor Guido Marini spiegava: "Si tratta della cattedra di Leone XIII che è stata usata altre volte dal Papa, ma non durante celebrazioni liturgiche; è la prima volta dunque, perlomeno in tempi recenti, che viene usata come cattedra del Romano Pontefice".Quindi per Monsignor Guido Marini il trono che Leone XIII aveva voluto per sedersi nella Sala del trono del Palazzo Apostolico Vaticano sarebbe nè più nè meno che una "cattedra", quindi una sede liturgica, e che in continuità con i propri antecessori Benedetto XVI utilizza per presiedere una vera e propria liturgia qual è la "liturgia delle ore" anche se la medesima "cattedra" in passato i pontefici la utilizzavano "non durante celebrazioni liturgiche": davvero illuminante.
“Il succesor del maggior Piero (Marini)”, volendosi attenere alle ataviche consuetudini vaticane -Maestro di cerimonie qual è- voleva dire che “in illo tempore” quel trono non veniva mai utilizzato dai pontefici per celebrare la santa messa ma solo per presiedere celebrazioni “altre” quali appunto poteva essere l'uffizio divino.

Per disvelare tutta l’incongruenza di quelle erudite delucidazioni di monsignor Guido Marini ci sarebbe voluto un anno, un mese e dodici giorni: cioè per vedere Benedetto XVI celebrare la messa "di Paolo VI" su di un trono pontificio che all’epoca in cui si celebrava la "Messa di San Pio V" un sovrano pontefice si sarebbe rifiutato categoricamente di utilizzare per celebrare la messa.
Ecco: ciò che inquieta in queste (come in altre) decisioni di Monsignor “Marini Secondo” è la professione di umile fedeltà ad una imperitura “tradizione” ecclesiastica che però è più immaginata come tale che realmente riscontrabile nei fatti: un Giovanni XXIII come anche un Pio XII sapevano benissimo che il trono di Pio IX, come quello di Leone XIII, non era un trono liturgico (cioè non era una cattedra episcopale) e non avrebbero mai preferito il trono sberluccicante d’oro alla cattedra vestita di stoffa se non fossero state le norme del rituale dell’epoca a comandarlo.

4) RERURUM NOVARUM CUPIDITAS:


Ad un mese esatto dall’ingresso del trono di Leone XIII sulla scena liturgica del pontificato ratzingeriano, ecco che nella messa della notte di Natale del 2007, davanti all’altare papale, appariva (non il Bambin Gesù: la qual cosa avrebbe destato meno sorpresa!) una “poltrona rossa” dal gusto incontestabilmente “passatista”, ovvero: quel “tronetto” rinascimentale che per cinque secoli aveva regnato incontrastato negli appartamenti pontifici. Erede diretta della grande e severa poltrona su cui siedono Giulio II e Leone X nei due celebri ritratti di Raffaello esposti agli Uffizi, e che, ingentilita da stemmi papali innalzati ai due estremi dello schienale, è la medesima poltrona su cui posa Innocenzo X nella celeberrima tela del Velasquez alla Galleria Doria Panphilj, su cui poseranno per i pittori , e poi per i fotografi, i papi a seguire. Tronetto che appositamente modificata diverrà un tipo di sedia gestatoria per le occasioni meno solenni.


Paolo VI, nel suo restyling pseudo-pauperistico del corredo papale, prima farà sostituire la purpurea tappezzeria dei tronetti con tappezzerie color grigio e color panna., poi darà istruzione di creare nuove “poltrone papali” rigorosamente foderate di bianco che, pur ispirandosi pedissequamente alle linee del tronetto rinascimentale, avevano per Papa Montini un ineguagliabile pregio: apparire incontestabilmente “moderne”. Si giungeva così alla studiata incongruenza per cui ad un papa che in un contesto liturgico parla alle folle da una moderna poltrona “presidenziale” da leader di quell’entità etnica sui generis che è la Chiesa Cattolica, invece in un contesto extra liturgico come poteva essere la rimodernata “sala del tronetto”, accordando udienza a personalità “mondane”, avremmo visto un papa che tiene la sua allocuzione diplomatica seduto su di un arcaica cattedra marmorea indubbio simbolo d’autorità spirituale.
Regnante Giovanni Paolo II le ingombranti poltrone di Paolo VI verranno pian piano sostituite da più maneggevoli poltrone, anch’esse impeccabilmente candide, che solo l’affettata piaggeria dei vaticanisti della Rai poteva definire con sprezzo del ridicolo: “trono papale”.

Orbene, poiché la purpurea poltrona di foggia rinascimentale, risuscitata nel Natale 2007 per virtù di monsignor di Guido, è identica nelle dimensioni alla moderna poltrona bianca, ed inoltre, poiché durante il 2008 la poltrona rossa non ha definitivamente sostituito quella bianca ma v’è stata una continua alternanza, si sarebbe dovuto ipotizzare che ci dovesse essere un’ideale bussola a guidare la volontà di monsignor Guido Marini or nel prediligere il tronetto rosso, or nel preferire la poltrona bianca quale sede del Benedetto pontefice “ccioiosamente” regnante.
Istintivamente verrebbe da dire che il discrimine stia nel colore: torna infatti alla mente l’antico privilegio dei colori liturgici riservati al pontefice.
Si sarebbe potuto ipotizzare che un Maestro delle celebrazioni pontificie arresosi, volente o nolente, di fronte all’impossibilità di ricreare nella Basilica Vaticana un vero e proprio presbiterio con una stabile cattedra episcopale abbia convenuto sul fatto che l’ormai consolidata posizione del seggio papale su di una pedana posticcia davanti all’“altare della Confessione” sia la più soddisfacente (e per la visuale dei pellegrini, e per evitare di far camminare molto l’ottuagenario pontefice) ma che però, ad imitazione dell’antica cattedra, il pontefice rivestito dei paramenti bianchi sieda sulla poltrona bianca, e rivestito dei paramenti rossi pontifichi dalla poltrona rossa.
Degna di nota in tal senso nel medesimo San Pietro è la “sede” usata dal cardinale arciprete o dai canonici della basilica per le celebrazioni al cosiddetto “altare della cattedra”: in tale moderno seggio è inserito un “poggia schiena”, rivestito di stoffa damascata, che viene sostituito in base al colore liturgico.
Ma il fatto stesso che la “poltrona rossa” abbia fatto la sua apparizione a Natale, quando cioè il colore liturgico è il bianco, non può che lasciare più che perplessi chiunque sappia di come monsignor Guido si sia opposto a quelle stelle di Natale -proprio perché rosse!- che invece all’epoca di monsignor Piero infestavano il baldacchino di San Pietro da Natale all’Epifania
Nella solennità dei santi apostoli Pietro e Paolo, poi, quando il colore liturgico è il rosso il monsignor maestro faceva pontificare il papa sulla poltrona bianca.
Bastino solo questi due macroscopici exempla per cassare ogni seppur fragile ipotesi che la poltrona rossa sia stata esumata per una motivazione specchiatamene liturgica.
Dire che la poltrona rossa è maggior degna del pontefice perché ha un aspetto “più nobile” non ha senso: il papa non è un nobile. L’unica nobiltà che il Concilio ha raccomandato è quella della semplicità.

Dobbiamo amaramente dedurne che anche le volte in cui il colore liturgico e il colore delle tappezzerie sono combaciati le motivazioni occulte di ciò non le si dovranno cercare nelle rubriche liturgiche ma in particolari esigenze scenografiche.
Tanto è vero che la volta in cui monsignor Guido Marini nella Basilica Ostiense ha avuto a che fare con l’antico trono liturgico dei pontefici, ovvero la cattedra foderata di seta, non ha mancato di utilizzarla decorosamente prescindendo però da qualsiasi valutazione in relazione al colore liturgico.
Or bene: è indubitabile che la cattedra foderata di seta bianca, fatta appositamente per essere posta sul grande trono neoclassico della Basilica di San Paolo, non è stata né voluta né pensata dal maestro delle cerimonie pontificie ma che l'ha semplicemente trovata in qualche sagrestia della medesima basilica.
Epperò: se monsignor Marini fosse veramente il “restauratore” della “tradizione tridentina” -come i suoi accaniti estimatori ed ancor più i suoi accaniti detrattori sostengono a spada tratta- sapendo che il Romano Pontefice alla vigilia della solennità dei santi Apostoli Pietro e Paolo avrebbe dovuto presiedere nella Basilica Ostiense il rito d’apertura del giubileo paolino, un sì tanto declamato cultore delle liturgie tridentine avrebbe dovuto fare il diavolo a quattro per ottenere una copia esatta della cattedra bianca però nella variante versione foderata di seta purpurea!
Se stiamo infatti trattando del medesimo Guido Marini che in previsione dell’apertura dell’anno paolino ha fatto confezionare per Benedetto XVI un “manto” color porpora ricamato in ora copia fedele di un paramento del rinascimentale Leone X de Medici il contemporaneo disinteresse per il colore liturgico del seggio (anzi dell’antico “trono”) papale appare di un’eloquenza disarmante: la bianca cattedra serica meritava, quindi, di essere ostentata in una celebrazione pontificia non perché fosse cattedra o perché fosse bianca (nè perchè fosse serica) ma poiché appariva incontestabilmente “antica” (e quindi "elegante" tout court).







L’unico canone dell’utilizzo di un seggio liturgico dovrebbe essere l’aderenza alle norme liturgiche e poiché il maggior o minor stile arcaicizzante non risulta essere tra i requisiti essenziali, e nemmeno la compatibilità al colore liturgico risulta essere più un criterio decisivo, allora ne consegue che se il criterio che guida monsignor Marini nella scelta delle sedie papali non è un criterio liturgico allora dovrà essere necessariamente un criterio “non liturgico”; a guidarlo, quindi, una sua personale sensibilità “secolare”, ovvero una personalissima "mondana" concezione del buon gusto estetico: un gusto in ultima analisi “profano”.
E dico “profano” senza voler colorire o (scolorire) negativamente il dato di fatto inconfutabile che nel ’68 l’ecclesiastico di gusto alto borghese ritenesse opportuno stingere le tappezzerie e stilizzare i panneggi mentre quarant’anni dopo l’ecclesiastico “uomo di gusto” ritiene che il massimo dell’eleganza stia nella moda “vintage”: ovvero nell’armonioso abbinamento tra antico e moderno.


5)ECCLESIA DEI AFFLICTA:

Nella Festa del Battesimo del Signore domenica 13 gennaio 2008, dovendo Benedetto XVI pontificare nella Cappella Sistina, monsignor Guido Marini ha realizzato il vero capolavoro liturgico del suo primo anno di sevizio alla Cattedra di Pietro localizzando la sede papale esattamente nel medesimo posto in cui l’avrebbe collocata il maestro delle celebrazioni liturgiche di Sisto IV. A lato dell’altare, esattamente di fronte alla Sibilla Libica, Benedetto XVI si è assiso su una vera ed autentica cattedra episcopale, capolavoro di artigianato lombardo già appartenuta a Pio XI.

Per quella cerimonia battesimale monsignor Marini ricevette dai mass media il crisma di “tradizionalista” per aver “osato” far celebrare al papa la messa all’antico altare -cioè all’unico altare- della Cappella Sistina. La colpa imputata dai novatori a monsignor maestro fu quella di aver curato la regia di una celebrazione di “stile” preconciliare nonostante che Benedetto XVI abbia invece celebrato volgarmente attenendosi in tutto e per tutto al “rito” postconciliare. Evidentemente a quarant’anni dalla riforma liturgica di Paolo VI bisognerebbe prendere atto che ormai nella Chiesa cattolica lo scontro tra conservatori e progressisti, da diatriba addirittura teologica e dogmatica che opponeva i paladini del vecchio rito della messa ai sostenitori nuovo rito, si è trasformata in una superficiale quanto imbarazzante polemica intorno al “bello stile”.

Poiché la cattedra lignea lodevolmente rimessa in onore da Guido Marini rifulge nella sua nuda maestosità , ci si sarebbe aspettato che monsignor maestro la trasferisse immantinente nel tempio petriano -ponendola o sotto il pilastro della Veronica o di fronte alla statua di San Pietro- destinandola quale stabile sede (splendente per nobile semplicità) sulla quale il sommo liturgo Benedetto avrebbe presieduto le celebrazioni vaticane. Invece la cattedra lignea veniva trasferita nella “Loggia delle benedizioni” per divenire stabile scranno su cui il pontefice si pone per presiedere alle udienze che si svolgono appunto nel lungo salone che sovrasta il portico della basilica vaticana.
“Marini Secondo” rinverdiva così la post- conciliare costumanza vaticana per cui ad un pontefice che in un contesto liturgico siede su di una poltrona (anche se non più bianca), invece in un contesto non liturgico siede su di una vera e propria cattedra liturgica. L’utilizzo del trono di Pio IX per la messa papale dell’Epifania del 6 gennaio 2009 segna il climax di una tale quarantennale libertà nella sperimentazione liturgica post-conciliare: soltanto che al gusto modernizzante dei pontefici e dei loro cerimonieri d’un tempo si è sostituito il gusto arcaicizzante, e del pontefice, e del suo maestro di cerimonie.


Gli infatuati quanto ingenui fautori di una restaurazione tradizionale del culto divino difficilmente si rendono conto di tutta la spregiudicatezza rivoluzionaria con cui il mite Guido Marini ha infranto ogni antica tradizione liturgica in materia quando ha fatto diventare una sede liturgica quel trono che Pio IX volle per definire infallibilmente il primato pontificio.
Un vero lefebvriano -cioè: un cattolico che ritiene essere l’unica e sola autentica liturgia romana quella precedente alla riforma postconciliare e ritiene il più sacro dei suoi doveri verso Dio quello di difendere le rubriche dei rituali e dei cerimoniali della messa tridentina da ogni riforma e riformulazione (e per cui pure le semplificazioni delle rubriche approvate da Papa Giovanni XXIII puzzano di “modernismo”)- ritengo che alla vista di Benedetto XVI pontificante sul trono extra liturgico non avrebbe affatto gioito per il riapparire delle suppellettili dell’antico fasto pontificio ma è assai più logico che si stracciasse le vesti indignato per tanta subdola mistificazione.
Repetita iuvant: Benedetto XVI ha potuto pontificare dal trono di Pio IX perché celebrava secondo il rito (e quindi secondo le scarse norme liturgiche) del messale di Paolo VI. Se Papa Ratzinger il 6 gennaio ’09 avesse celebrato secondo il rito di san Pio V le severe e puntigliose norme del rituali tridentino avrebbero proibito categoricamente l’utilizzo del trono di Pio IX.
Le innovazioni “reazionarie” di monsignor Marini non sono perciò dettate nella volontà di applicare alla messa post conciliare le rubriche della messa tridentina quanto piuttosto da una decisa interpretazione arcaicizzante dei medesimi “principi e norme” della liturgia postconciliare che consentivano parimenti a monsignor Piero Marini di organizzare intorno all’altare papale di San Pietro danze tribali di aborigeni in perizoma.
La missione che Benedetto XVI ha affidato al proprio maestro delle celebrazioni è quella di antichizzare la messa moderna, farla apparire come un rito venerabile e non un canovaccio da cui partire per svuppare continui adattamenti alle esigenze pastorali.


A differenza della riforma di Pio V che aveva esteso il rito della diocesi di Roma all’universo mondo, la riforma liturgica seguita al Vaticano II è stata invece “un prodotto di erudizione specialistica” con lo scopo di essere rito universale per fedeli cattolici appartenenti a popoli di culture, mentalità e sensibilità diversissime ragion per cui si concedeva alle “Chiese locali” la facoltà di discernere gli adattamenti delle norme liturgiche generali. Quella stessa discrezionalità delle norme liturgiche che consentono al papa, come a qualunque altro vescovo, la libertà di scegliere di indossare o di non indossare la dalmatica sotto la casula, come la liberalità nella scelta della pianeta al posto della casula; di celebrare con sette candelabri sull’altare ma anche con sei; di celebrare con la croce al centro dell’altare ma anche con la croce a lato dell’altare. Norme che consentono a monsignor Guido Marini di ritenere opportuno che nella cappella Sistina il papa celebri all’altare fisso volgendo le spalle al popolo, allo stesso modo in cui le medesime norme consentivano a monsignor Piero Marini di ritenere opportuno far celebrare il papa sull’altare mobile volgendo le spalle al Giudizio Universale.

Scriveva il cardinal Ratzinger: “quel processo iniziale di uniformazione si è tramutato nel suo contrario: nella crescente ed ampia dissoluzione del rito, che dovrebbe essere sostituito dalla «creatività» delle singole comunità”.
Epperò non bisogna affatto credere che Benedetto XVI e “Marini Secondo” per evitare “la dissoluzione del rito” abbiano usato scarsa creatività: ciò che è stato aborrito è piuttosto l’arbitrarietà. L’utilizzo del trono “della consegna delle chiavi” per la messa papale dell’Epifania 2009 in base alle norme liturgiche postconciliari non può affatto configurarsi come un indebito arbitrio: può essere infatti ritenuto arbitrario l'uso del trono solo in base ai canoni propri della messa tridentina.
Le larghe maglie della rubricistica post conciliare hanno consentito a Palo VI di ripudiare il trono proprio perché esso non era una cattedra, e quindi il papa era libero di pontificare da una qualsiasi poltrona; la medesima larghezza di discrezionalità che consentono a Benedetto XVI di pontificare dal trono come da qualsivoglia poltrona perché né il trono né la poltrona hanno le caratteristiche propria della cattedra episcopale.

Nel restaurato trono “della consegna delle chiavi” monsignor Marini ha trovato una risposta alle sua necessità di inventarsi l’antichità delle moderne celebrazioni del pontefice. Il trono di Pio IX coniuga tutta la fastosità del sepolto cerimoniale pontificio con l’essere di piccole dimensioni e maneggevole al pari delle poltrone di Paolo VI: utilizzato, perciò, come una poltrona di Paolo VI.
E non si capisce perché della maestosa cornice della basilica in San Pietro il papa dovrebbe privarsi di quei tronetti dalle esuberanti decorazioni (pudicamente ribattezzate cattedre) di cui invece non si priva quando pontifica lontano dal Vaticano.
Nella gran parte delle celebrazioni papali in giro per le diocesi d’Italia e per l’universo mondo, sia a Giovani Paolo II che poi a Benedetto XVI, i prelati locali hanno messo a disposizione del pontefice regnante ciò che di più sontuoso era riuscito a produrre l’ebanistica locale ovvero le grandi poltrone baroccheggianti che un tempo erano i tronetti dei vescovi degli arcivescovi e dei cardinali. Chi vuole avere contezza delle suddette affermazioni è sufficiente che volga il proprio sguardo al “trono papale”, messo a disposizione dal vescovo-prelato del Santuario di Pompei, nell’ultima visita pastorale effettuata da Benedetto XVI nel trascorso 2008.


Ed anche se le vigenti disposizioni della Santa Sede sottolineano che “la sede del presidente” non deve avere l’aspetto di un trono, presso tante chiese con una lunga storia alle spalle tanti sacerdoti per “presiedere” usano sedersi su grandi poltrone damascate ed indorate che altro non sono che quei tronetti un tempo utilizzati per far accomodare l’alto prelato quando durante la visita pastorale si intratteneva nella casa parrocchiale. Invece nelle chiese “moderne” dalle architetture dissacranti il “prete di periferia che va avanti nonostante il Vaticano” ha ricavato la propria sede liturgica da megalitici monoliti di granito: vere e proprie -e quanto mai eccessive- moderne "cattedre" la possanza delle quali intimorirebbe anche i più venerabili antichi Dottori della Chiesa.