sabato, aprile 03, 2010

Sabato Santo [4]


Adoriamo Gesù Cristo, deposto dalla croce dopo la sua morte ed avvolto nel lenzuolo, che gli comperò Giuseppe d'Arimatea. Veneriamo il suo sacro corpo sempre unito alla persona del Verbo,
e perciò sempre degno del culto supremo di latrìa.
Uniamoci all'adorazione che gli rese allora la Santissima Vergine.

I. Quanto è giusta la divozione alla sacra Sindone.
- Questa divozione risale all'aurora medesima del Cristianesimo.
Il Vangelo in effetti ci mostra verii lenzuoli piegati con diligenza dall'angelo nella tomba. [...]
Questa divozione della Chiesa e de' Santi non ci deve affatto meravigliare: perché, come memoria della Passione del Salvatore, se un crocifisso dipinto da un'abile mano, eccita la nostra divozione, tanto più deve eccitare la vista delle piaghe e del sangue del Salvatore, dipinte in quel lenzuolo non già dalla mano dell'uomo, ma dal contatto del corpo medesimo di Gesù Cristo!

II. Quanto e santificante la divozione alla sacra Sindone.
— Non e infatti possibile rappresentarci tutto ciò che la Sindone offre agli sguardi di chi la contempla; quel corpo tutto insanguinato, quella testa coronata di spine, quei piedi e quelle mani traforate da chiodi, quel costato aperto dalla lancia, tutte quelle piaghe che lacerarono la sacra carne del Salvatore dal capo ai piedi, senza dire a se stessi: Poiché il mio Salvatore tanto soffrì per salvarmi, io non voglio già perdere il frutto di tanti dolori; poiché la mia salute costò, si cara a Gesù Cristo, non voglio già perderla, col non sopportare con rassegnazione e pazienza le mie pene, infinitamente minori di quelle che sentì il mio Signore in tutto il suo corpo.
Voglio essere un santo. Alla vista di questa sacra Sindone detesto il peccato, per il quale il mio Salvatore versò tanto sangue ed abbraccio la penitenza, che lo espia.
Potrei io rimanere delicato e sensuale, vedendo l'imagine di questo corpo tutto ferito? Posso chiudere il mio cuore a quel grido che esce dalle piaghe impresse su quel lenzuolo: Ecco come Iddio ha amato il mondo!, e non esclamare ancor io dal fondo delle mie viscere: Amiamo Dio perchè Egli per primo ci ha amati!
Oh bisognerebbe avere un cuore indurito per non lasciarsi intenerire alla memoria di tanti dolori sofferti per nostro amore!


COLLOQUIO EUCARISTICO.
— La Sindone: ecco, o Gesù, il simbolo piu bello e piu eloquente della vostra santa Eucaristia.
Nella Sindone monda di Giuseppe d'Arimatea, venne allora nascosto il vostro adorabile corpo, e solo il profumo degli unguenti preziosi poteva tradire la vostra presenza.
Sotto le specie d'un po' di pane e di un po' di vino, come dentro una Sindone nuova, Voi tutto intiero, in Corpo, Sangue, Anima e Divinità riposate ora in Sacramento: ma da questi veli eucaristici quali onde d'un profumo divino non esalano e tutto inondano il sepolcro — non sempre nuovo pur troppo! — del cuore umano!
Profumi di virtu, di umiltà, di pazienza, di carita, di sacrifizio; profumi che soli possono preservare dalla corruzione del vizio e dall'infezione di morte un'anima la cui sola ambizione sia quella di gustarne la penetrante e benefica influenza.
Ebbene, o Gesù, per quella Sindone antica che al mondo voleste lasciare, improntata della vostra umanità adorabile, in memoria del vostro amore, fate che siamo veramente devoti della Sindone nuova, vero memoriale della vostra passione.
Fate, o Signore, che venendovi a ricevere nella SS. comunione, sia sempre il nostro cuore un sepolcro vergine da ogni colpa, scavato nel vivo sasso delle nostre passioni, chiuso con sigilli ad ogni altra creatura, e così, dopo di aver gustati i profumi deliziosi della Sindone eucaristica, possiamo meritare un giorno di inebriarci dei profumi della Sindone celeste.

venerdì, aprile 02, 2010

Venerdì Santo [6]


Prostriamoci davanti alla Croce di Nostro Signore, e rendiamo i nostri omaggi di adorazione, di riconoscenza e di amore alle piaghe de' suoi piedi, delle sue mini, e sopratutto a quella del costato.
0 quanto sono venerabili queste piaghe, e come a ben giusto che i nostri cuori si struggano di amore nel contemplarle!
0 piaghe adorabili del mio Dio, non posso onorarvi quanto vorrei, ma vi offro i sentimenti co' quali vi onorarono Maria e S. Giovanni, quando, deposto Gesù dalla Croce, vi bagnarono delle loro lacrime. E ne ho ben diritto di farlo, poichè Maria essendo mia madre e S. Giovanni mio fratello, i loro meriti sono un bene di famiglia, di cui posso liberamente disporre in mio favore.


I. Niuna cosa a più giusta della divozione alle cinque piaghe.
— Non sarebbe uomo, ma un mostro senza cuore quel figlio, che guardasse con indifferenza e senza sentimento alcuno di compassione, di riconoscenza e d'amore, le piaghe di suo padre, ricevute forse per salvargli la vita, e procurargli nello stesso tempo i piu grandi beni. Assai peggiore di questo figliuolo ingrato e senza cuore sarebbe quel cristiano, che non avesse che indifferenza per le piaghe del Salvatore: perche queste piaghe adorabili Gesu Cristo le ha ricevute per salvarci dall'inferno e per aprirci ii cielo, e per offrirci in esse tante sorgenti di salute, ove noi possiamo attingere grazia, forza e consolazione.
0 anima cristiana, esclama S. Bonaventura, come mai al ricordo di queste piaghe puoi tu contenere i tuoi trasporti? L'amabile Gesu si fa ai piedi, alle mani, una larga ferita per riceverti, e tu non hai fretta di entrare? si è aperto il costato per darti ii suo cuore, e tu non vai ad unirti con lui? Ah! per me, continua il Santo Dottore, io amo di abitare in queue piaghe; ed e in loro che voglio farmi una triplice dimora. La prima nei piedi del mio Gesu, la seconda in quella delle sue mani, la terza nella piaga del suo sacro costato. In loro voglio prendere il mio riposo, ivi voglio vegliare, leggere, conversare.
0 piaghe amabilissime, sempre gli occhi del mio cuore saranno fissi sopra di voi; il giorno dal levar del sole fino al tramonto, e la notte ogni volta che il sonno si ritirera dalle mie stanche palpebre. Ma sopratutto mi ritirero nell'apertura del sacro costato per parlare al cuore del mio Signore ed ottenere cio chevorre.
O Gesu, dice nel medesimo senso S. Bernardo, il vostro costato e traforato per darci ingresso al vostro cuore, e rivelarci per mezzo di questa piaga visibile la piaga in¬visibile del vostro amore. Vi applichero le mie labbra, e vi succhiero il miele dell'amore e l'unzione delle consolazioni divine. Saremmo noi i figli dei santi, se dopo tali esempi, non avessimo una tenera divozione alle cinque piaghe?

II. Grazie annesse alla divozione delle cinque piaghe.
— L'anima trova in queste piaghe tutto quello ch'e necessario ed utile all'eterna salute. In nessuna cosa ho trovato, dice Sant'Agostino, rimedio piu efficace a guarire tutti i mali dell'anima. Quali che siano le malattie spirituali, aggiunge S. Bernardo, la meditazione assidua delle piaghe del Salvatore, ne a la guarigione. Chi mirera le mie piaghe, dice lo stesso Gesu per bocca del suo Profeta, si convertira. Il cuore di Gesu è un oceano, e le piaghe sono i canali per dove scorrono le acque della grazia e della misericordia, dice sempre S. Bernardo. Infatti a in queste piaghe che si forma la fede viva, che si dilata la confidenza in Dio; e sopratutto in esse che la carita si accende e riluce la Speranza della gloria infinita.
A forza di considerare l'eccesso di amore, che apri queste piaghe per noi, vili creature e miserabili peccatori, il cuore diviene tutto fiamma, e non si puo vivere che di amore. Cosi Sant'Agostino chiama queste piaghe sacratissime il suo rifugio nelle pene, il sun asilo nelle tribolazioni, il sun rimedio nell'infermita dell'anima; ivi S. Tommaso d'Aquino attinse tutta la sua scienza; ivi S. Francesco d'Assisi a forza di meditazione attinse gli ardori serafici della sua carita, e divenne un miracolo di somiglianza con Gesu Crocifisso; da essa San Bonaventura attinse quello spirito di pieta che imbalsama tutti i suoi scritti. Questo degno discepolo di S. Francesco, consumò i piedi del suo crocifisso a forza di baciarli, e non cessò di esortare tutti i fedeli a gustare essi stessi le gioie ineffabili e l'unzione di pieta deliziosa, attaccate alla devozione di queste sacre piaghe.
Se non potete, dice l'Imitazione di G. C., innalzarvi alle alte contemplazioni, guardate umilmente nelle piaghe del Salvatore, e vi troverete consolazioni e forza. Son queste le nostre disposizioni?


COLLOQUIO EUCARISTICO.

— 0 piaghe divine di Gesù, scuola vera di sapienza, sorgente di carita e di vita, i con tutta l'anima che vi adoriamo, sempre vive ed aperte nel Sacramento adorabile dell'Eucaristia, e, baciandovi con trasporto, da Voi imploriamo un orrore grande al peccato, un'innocenza vera e perfetta, lute alla mente, fermezza alla volonta, ardore all'anima!
SI, o Gesu, imprimete nel nostro cuore il segno santo di queste adorabili piaghe, purificate col loro sangue l'anima nostra, infiammandola di un amore profondo che la consumi ed abbelli.
Anzi, o Gesu, permettete che sempre noi abitiamo in questo divino rifugio, dove solo possiamo trovare un po' di pace, di conforto, di coraggio; dove solo siamo sicuri di trovare la forza per vincere il demonio, la carne ed il mondo; dove solo, inabissati in un oceano d'amore, in una fornace di carità, possiamo suscitare nell'anima nostra quell'incendio che, consumandoci continuamente, olocausti di espiazione, ci renderà degni di venir un giorno a possedervi in Cielo.

giovedì, aprile 01, 2010

Giovedì Santo [6]


Adoriamo Gesu Cristo che ci fa il dono di tutto il suo sangue sino all'ultima goccia, ringraziamolo di questo dono prezioso che produce frutti di vita eterna, e chiediamogli la grazia di poter corrispondere a tanto amore.

I. Riconoscenza dovuta a Gesu Cristo pel dono che ci ha fatto del suo sangue.
— Se un uomo donasse ad un altro tutta la sua fortuna, sarebbe molto certamente, tanto piu se si trattasse di una fortuna considerevole; ma che dire se gli donasse lo stesso suo sangue, versandolo per lui completamente? Sarebbe questo certamente l'amore portato all'ultimo limite! E questo appunto che ha fatto Gesu Cristo per noi, e notiamo:
1° Il valore di questo sangue: Esso supera infinitamente il valore di ogni altro sangue umano; perche è il sangue di un Dio in virtu dell'unione ipostatica, e quindi di un valore infinito.
— Questo sangue; Dio medesimo I'offre in ogni sacrifizio alla divina giustizia, per convertirla in misericordia verso di noi; e la dignità di un Dio Sacerdote, offrendo il sangue di un Dio vittima, gli comunica un nuovo valore infinito.

— 2° I meravigliosi effetti di questo sangue.
Estingue il fuoco della collera divina eccitata dai nostri delitti. E' l'ostia di espiazione pei nostri peccati; è il prezzo del nostro riscatto; è il bagno che purifica la nostra coscienza; è il sigillo della pace tra il cielo e la terra. Ci apre il cielo e chiude la terra sotto i nostri piedi, e lungi dal gridare vendetta come il sangue di Abele, ogni goccia di esso grida misericordia.
Dobbiamo in terzo luogo notare che questo sangue di sì alto prezzo ci e stato dato non già da una mano avara, ma con una generositi incomparabile. Mentre infatti una sola goccia sarebbe bastata a scancellare i peccati di mille mondi, Gesu Cristo lo dà tutto intiero, e lo dà per la salvezza di quei medesimi, che egli prevedeva se ne sarebbero dimostrati tanto indegni, e lo dà non una, ma milioni di volte.
Comincia a versarlo otto giorni dopo la sua nascita sotto il coltello della circoncisione; lo sparge nel Giardino degni Olivi, ove in un sudore ne innonda la terra, lo sparge nella flagellazione, nella coronazione di spine, nella crocifissione, nell'apertura del sacro costato; tutti i giorni l'offre nel santo sacrifizio su tutta la superficie del globo, e ce lo dà a bere per mezzo della Comunione; lo conserva in tutti i Tabernacoli del mondo, donde questo sangue dimanda continuamente al Padre grazia per noi e finalmente ce ne applica i meriti nei Sacramenti, che sono come tanti canali pei quali questo sangue adorabile si comunica alle anime.
Ora quale riconoscenza non dobbiamo al Salvatore per questa prodigalità del suo sangue a pro di noi poveri peccatori?


II. Conseguenze pratiche che derivano per noi da queste considerazioni.
— 1° Bisogna innanzi tutto avere una grande generosità nel servizio di Gesu Cristo. Mentre un Dio ci dà il suo sangue, saremo noi cosi ingrati da negargli il sacrifizio della nostra volontà, de' nostri atti, del nostro piacere?
Quando si ha nel petto il sangue di Gesu Cristo, quando si appartiene ad un cosi grande, nobile, divino sangue, bisogna averne altresì lo spirito generoso ed i sentimenti elevati e nobili che sorgono dal sacrifizio.
— 2° Bisogna onorare questo sangue con l'assistenza devota e frequente al santo Sacrifizio, con la frequenza de' Sacramenti, con la corrispondenza alle grazie interiori ed esteriori, che sono il frutto di questo sangue, con l'offerta spesso reiterata delle nostre azioni, del nostro cuore, in segno di riconoscenza.
— 3° Dobbiamo avere una confidenza senza limiti nei meriti di questo sangue divino. Che manchino di questa confidenza quelli che non conoscono il prezzo del sangue del Salvatore, è cosa fino ad un certo punto scusabile; ma quando si sa per fede che Gesu Cristo ha lasciato a nostra disposizione tutti i meriti del suo sangue, che ci ha dato facoltà di farli nostri mediante la preghiera, i Sacramenti e il sacrifizio, il non avere confidenza in essi, a mancanza inescusabile. Col crocifisso in mano giammai il coraggio ci dovrebbe mancare.

E' vero, o Gesu, io non posso dire: Sono innocente del Sangue di questo giusto, poiche il mio peccato ha tradito questo sangue innocente, ma diro con altro spirito che non sia quello de' Giudei: "Che il tuo sangue ricada su di me": si ricada su di me questo sangue divino per lavare le mie iniquità e preservarmi dall'angelo esterminatore, come il sangue dell'agnello pasquale cosparso sulle porte delle case del popolo antico.
Ma intanto sono io zelante a raccogliere questi frutti dalla passione del Salvatore?

mercoledì, marzo 31, 2010

Mercoledì Santo [6]


Prosterniamoci ai piedi di Gesù in croce; baciamo con amore i suoi sacrati piedi. E' così che l'anima cristiana trova in abbondanza, e la salute dell'eternità e la consolazione della vita presente, vale a dire la felicità del cielo e la felicità della terra. A Gesù crocifisso adorazione, amore, rendimento di grazie e benedizione.

I. Dobbiamo ononare la Croce, perchè a la nostra salvezza.
— Vi sono due specie di croci: la croce sulla quale Gesi Cristo morì e le nostre croci personali, che sono le nostre pene quotidiane. Ora queste due specie di croci meritano tutto il nostro amore perchè sono l'una e l'altra la causa e lo strumento della nostra salvezza.
1° La croce di Gesù Cristo; senza di essa noi, figli della collera e schiavi del demonio fin dalla nascita, saremmo stati per sempre perduti; ma per essa Gesù ha vinto le potenze infernali, ha strappato loro dalle mani, dice San Paolo, la sentenza che ci condannava, l'ha cancellata col suo sangue, e l'ha inchiodata alla croce, affinche veruna mano possa riprenderla.
Alla croce di Gesù Cristo, come al carro del suo trionfo, sono incatenate tutte le potenze nemiche, in modo che ora può salvarsi chi vuole.
La croce fa scorrere in tutta la Chiesa per mezzo dei Sacramenti e del santo sacrifizio, i santi pensieri, i pii sentimenti e tutte le grazie alle quali abbiamo bisogno per acquistare la eterna salute; essa ottiene a tutti il perdono delle colpe passate, dà coraggio pel presente, confidenza per l'avvenire.
E tutto ciò non basta per meritare tutto il nostro amore?

2° Dobbiamo amare le nostre croci personali, perche la Croce di Gesù Cristo le ha innalzate a questo insigne onore, di essere il mezzo più efficace al conseguimento della nostra morale perfezione, ed il pegno delle nostre eterne speranze.
La pazienza, nel sopportare la croce, dice S. Giacomo, e perfezione, ed una perfezione solida perche provata nel crogiuolo dei dolori. Essa è secondo S. Paolo il coronamento della fede: il pegno e la gioia della speranza. Per un momento di sofferenze leggiere un premio immenso di gloria: dopo la prova la corona della vita. E' una delle beatitudini proclamate da Gesù Cristo: Beati quelli che soffrono. E' una grazia privilegiata che Dio concede ai suoi migliori amici, perchè li indirizza per la via regia del cielo. Basta un po' di fede alle parole del Salvatore per stimare una croce più di tutte le ricchezze, un'offesa cristianamente sopportata, pia che tutti gli onori, le umiliazioni anche più vergognose, più che tutte le corone, la ignominia, più che tutti gli applausi, la confusione più che tutte le lodi.
Il Vangelo ci dice altresì: Ricevete le croci non solamente con pazienza, ma con allegrezza. E San Giacomo aggiunge: Ricevetele con ogni sorta di gioia, vale a dire con la gioia del povero che riceve immense ricchezze, con la gioia dell'uomo del popolo che riceve una corona, con la gioia del contadino che raccoglie una ricca messe, con la gioia di un mercante che fa gran guadagno, con la gioia del generale d'armata che riporta una gran vittoria. Cosi han pensato tutti i Santi; cosi S. Paolo che diceva: Sovrabbondò di gioia in tutte le mie tribolazioni: e Sant'Andrea che alla vista della Croce diede questo grido di amore: 0 buona croce, da cosi lungo tempo desiderata, siate la ben venuta!
Son questi i nostri sentimenti?

martedì, marzo 30, 2010

Martedì Santo [6]


Adoriamo Gesù Cristo, il quale col suo esempio, prima di lasciare la vita, c'insegnò a strappare dal nostro cuore le due passioni, che conducono all'eterna dannazione la maggior parte degli uomini, cioè: la passione del piacere e la passione dell'orgoglio.
Alla passione del piacere Egli oppone le sofferenze più atroci; alla passione dell'orgoglio le umiliazioni più ignominiose. Dimandiamo a questo divin Salvatore perdono della nostra corruzione la cui espiazione gli costò cosi cara e ringraziamolo di aver voluto subire, per guarircene, tanti supplizi e tante ignominie.
I. Supplizi che i nemici di Gesù Cristo gli fecero soffrire.
- Questi uomini disumani e crudeli fino alla ferocia non lasciarono nel corpo di Gesù veruna parte senza dolore.
La notte, che precedette la sua morte, tempestarono di schiaffi la sua faccia adorabile; il giorno stesso della sua morte, sotto i colpi de' flagelli fecero volare la sua carne in brandelli, scorse a rivi il suo sangue, tutto il suo corpo non divenne che una sola piaga, le sue ossa furono messe a nudo e la sua testa fu coronata di spine. Dopo tali supplizi gli fanno portare sulle spalle la croce fino al Calvario, dove gli conficcano i chiodi ne' piedi e nelle mani, lo abbeverano di fiele e di aceto.

Meditiamo un istante questi terribili supplizi; entriamo nel pensiero di Dio, che li sopporta, e vuole con ciò ispirarci l'odio alla nostra carne.
Dopo questo chi opera accarezzare il suo corpo, ben trattarlo e procurargli piaceri e godimenti? Chi invece non sentirà il dovere di porre ogni opera per mortificarlo e farlo soffrire? Non si e certo vero cristiano che a questa condizione.
Quante riflessioni su di noi stessi! Quante riforme nei nostri sentimenti e nella nostra condotta! Amiamo tanto il piacere, temiamo tanto l'afflizione e la sofferenza; e come osiamo noi dirci cristiani?


II. Obbrobrii che i nemici di Gesù Cristo gli fecero soffrire.
— Dal giardino degli Olivi Gesù, legato strettamente, venne condotto come un reo in casa di Caifas tra mille grida oltraggiose. La notte, che segui l'arresto, fu dato in potere dei nemici, che dopo di avergli bendati gli occhi, con pugni e schiaffi percuotendolo e sputandagli in faccia, gli dicevano: Indovina chi ti ha percosso. Il giorno che segui quella trista notte, lo traggono per le vie di Gerusalemme vestito da pazzo, lo scherniscono, lo insultano come un folle. Di la ricondotto al Tribunale di Pilato, e uguagliato a Barabba e tutto il popolo che poco prima l'aveva ricevuto in trionfo, proclama che Barabba, ladro ed assassino è men reo di lui, e dimanda con grida di rabbia e di furore la morte di colui che non aveva mai fatto che del bene. Poi lo si corona di spine, gli si getta sulle spalle, per ischerno, quasi mantello reale, uno straccio di porpora, gli si pone in mano una canna a guisa di scettro; e tutti lo beffeggiano come un re da teatro.
Addio la fama della sua sapienza; egli non è piu che uno stolto: addio la nomea della sua potenza; non si vede in lui che debolezza: addio l'areola della sua innocenza e della sua santità; ormai nell'opinione pubblica non è che un reo, un bestemmiatore degno di morte, più che non siano i ladri e gli assassini. Viene crocifisso tra due ladroni, come il più colpevole fra di loro; e tutto il popolo, stretto intorno alla Croce, l'opprime, sino al suo ultimo sospiro, di insulti e di sarcasmi.

Ecco come Gesù Cristo c'insegna l'umiltà, la sottomissione e la dipendenza; ecco come condanna l'orgoglio, che non può soffrire il minimo disprezzo, s'impazientisce per cose da nulla, mormora per la minima contraddizione; l'amor proprio, che si ribella per la preferenza data agli altri; la suscettibilità e la pretensione; ecco come c'insegna a contentarci della stima di Dio solo, ed avere in conto di nulla i giudizi umani, l'opinione pubblica ed i vani discorsi di quelli che scherniscono la pietà.
Qual frutto abbiamo ricavato sinora da questi divini insegnamenti? qual progresso abbiamo fatto nell'umiltà nel sopportare la mancanza di riguardi, le parole offensive, le ferite dell'amor proprio?
O Gesù, così umile, abbiate pietà di noi e convertiteci!

lunedì, marzo 29, 2010

Lunedì Santo [6]


Adoriamo con profondissimo rispetto Gesù coronato di spine, dopo di essere stato crudelmente flagellato e presentato quindi ai Giudei con una canna in mano a guisa di scettro e con indosso un vecchio straccio di porpora a guisa di manto reale.

Oh mio Salvatore, si vuol mettere in burla con ciò la dignità regale; ma sotto questi indumenti ingiuriosi vi riconosco per mio re e per mio Dio: vi onoro, vi lodo, vi benedico sotto questi indegni travestimenti, che per me il vostro amore vi ha fatto accettare.

I. Gesù coronato di spine, mistero di sofferenza e di umiliazione.

1° - E' un mistero di sofferenza. Perché le spine sono forti ed acute; i soldati le configgono a gran colpi nel suo adorabile capo, ch'è la parte Più sensibile del corpo e le fanno penetrare si avanti, che ne fanno spillare il poco sangue che i flagelli vi avevano lasciato.
Da ogni parte il sangue si effonde sul suo viso divino, che ne è tutto sfigurato; la sua santa umanità tutta intiera a cosi immersa nella sofferenza, che la profezia di Isaia si avvera alla lettera: Dalla pianta dei piedi sino alla sommità della testa, non e in Lui una parte senza dolore. Ed Egli riceve con calma e rassegnazione tanti atroci dolori, offrendoli a suo Padre per la salute del mondo.
Quale eroico sacrifizio! Quale amore incomprensibile!
Oh Gesù, come mai comprenderemo noi tanta carita?

2° - E' un mistero di umiliazione.
Si fa di questo gran Dio un re da teatro, che si espone alla pubblica derisione. Gli si mette sul capo la corona di spine per porre a ridicolo la corona reale, cui aveva diritto di portare; in mano una canna per scettro, sulle spalle uno straccio di porpora per manto reale; poi ciascuno s'inginocchia alla sua presenza, dicendogli per ischerno: Ti saluto, re dei Giudei. Dal ridicolo si passa alla crudeltà: Toglietelo, toglietelo da questo mondo, crocifiggetelo, grida la moltitudine; non vogliamo altro re che Cesare.
Oh mio Dio, mio vero Re, perdono di queste grida, perdono di questi scherni sacrileghi.
Per me non voglio avere ne altro re, ne altro Dio che Voi.


II. Insegnamenti che si possono ricavare dal mistero di Gesù coronato di spine.

1° - Questo mistero c'insegna a piangere i nostri peccati.
Inginocchiati innanzi a Gesù coronato di spine, dica ciascuno di noi: Ecco l'opera de' miei peccati, ecco i tanti dolori e le ignominie che costarono al mio Dio. Ed a tale pensiero, è possibile non detestare i nostri peccati? non piangerli e lavarli nelle nostre lagrime, miste col sangue che scorre dal capo adorabile di Gesù Cristo? E possibile non far seguire a questo dolore il fermo proposito di condurre in avvenire una vita migliore e più cristiana?

2° - Questo mistero ci predica la mortificazione; perché, dice S. Bernardo, è una vergogna essere un membro delicato sotto un capo coronato di spine. E' un contrasto ributtante che il Santo de' Santi sia nel dolore, ed io nelle delizie; che Gesù consegni il suo capo alle spine, e che io carpisca ogni occasione di procurarmi del piacere, quando posso senza gran delitto.

3° - Questo mistero ci insegna la umiltà. Perché la corona d'ignominia che porta Gesù e la condanna di quella corona di orgoglio e di ambizione, che forma uno dei nostri più dolci sogni. Gesù nello scegliere per sua parte una corona d'umiliazione, ha voluto dirci quanto riprovi la passione di comparire, di mostrarsi e d'innalzarsi al di sopra degli altri; e quanto al contrasto ami le anime umili, le quali, contente di Dio solo, non ricercano punto lo sguardo della creatura, ma fanno il bene in segreto, senza rumore, senza intenzione di farsi un nome, perché basta loro la virtu.
Raccogliamo nel fondo del nostro cuore questi preziosi insegnamenti e conformiamo ad essi i nostri sentimenti ed i nostri atti.

martedì, marzo 09, 2010

...entre todas las Mujeres! [20]

Sive: ANNO SACERDOTALI


Andando di notte a scaldare i panni per il marito infermo,
Santa Francesca Romana incontrò tre diavoli sotto l’aspetto
di religiosi che, con espressioni di finta umiltà, la sbeffeggiavano

venerdì, marzo 05, 2010

martedì, febbraio 16, 2010

SPES AEDIFICANDI, V




Il 5 settembre 2007, nel decimo anniversario della morte di Madre Teresa di Calcutta, a Pristina la capitale dello stato "albanese" del Kossovo, l'ammisitratore apostolico monsignor Dodë Gjergji ha presieduto la cerimonia di posa della prima pietra della chiesa dedicata alla santa di origine kossovara. La chiesa, che dovrebbe essere completata entro il 2010 nel centenario della nascita della santa, si estenderà su una suoerficie di circa 6.200 metri quadrati; è stata pensata come sede della curia episcopale ed avrà il titolo di concattedrale, essendo la sede titolare del vescovo di tutto il Kossovo l'antica sede episcopale di Prizren.
Per monsignor Gjergji la concattedrale della beata Teresa: "È per molti un simbolo di nuovo slancio e di speranza e questo sia per i cristiani che per i musulmani". Infatti, pur essendo un paese musulmano al 95% fu proprio l'allora presidente della repubblica Ibrahim Rugova (morto nel 2006) a volere fortemente una cattedrale nel centro della capitale dello Stato. Per il musulmano Rugova, onorato dai kossovari come «Padre della Nazione», infatti una capitale europea non può non avere una cattedrale.
Al centro di una città abitata da islamici svetteranno fieramente i due campanili gemelli di una riconoscibilissima chiesa cristiana in stile neo-romanico: "un cantiere in stile tradizionale nel bel mezzo di Pristina, simbolo solenne di una presenza che non si confonde con la banalità quotidiana, che rinnova una spiritualità autentica perché non modellata sulle mode o i conformismi del presente, ma sulla promessa di salvezza che vive al di là del tempo" (Colafemmina).

Pro Missa bene cantata [15]

Sive: Ecclesia Dei afflicta

Carlo Falconi nel suogià citato "Pentagono Vaticano" - l'"istant book" del 1958 che mirava a fotografare la situazione del cattolicesimo alla vigilia della morte di Pio XII - compone un ritratto del Cardinal Lercaro (1891-1977) assai interessante ed illuminante, soprattutto in riferimento al suo futuro ruolo di propugnatore della riforma liturgica in seno al concilio Vaticano II e quale presidente del "Consilium ad exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia".
Che Paolo VI pensasse al cardinal Lercaro quale responsabile della commissione incaricata di attuare l'aggiornamento della liturgia cattolica si spiega, infatti, per la notoria "passione per la liturgia" che contraddistingueva il cardinale di Bologna già in epoca preconciliare tanto che Pio XII lo aveva nominato "protettore" del movimento liturgico. Ma il Lercaro descritto dal Falconi però non è affatto un "liturgista" , ma più che altro di un "catechista".

Dalla penna dell'autore ne esce il ritratto di una Chiesa che, percependo una secolarizzazione inarrestabile, nella paura che il proprio ruolo sociale venga relegato soltanto a quello di distributore automatico di sacramenti, tenta l'azzardo dell'aggiornamento affidandosi alla buona pubblicità derivante da un maquillage liturgico: rituali più malleabili ed elastici allo scopo di poter continuare ad agire ritualmente su una realtà mondana sempre più profana. Ecclesiastici in realtà piissimi ed ortodossi che però scambiano la attiva partecipazione dei fedeli alla liturgia con la emotiva condivisione popolare di fronte ad una sacra drammatizzazione.
L'autore del libello del 1958, con lo sguardo ancora vergine da ogni postuma idealizzazione "conciliarista", involontariamente profetizza l'autentico spirito della smodata attuazione della riforma dei sacri riti:

"I nomi dei maggiori rappresentanti della corrente progressista moderata o anti-Pentagono dell'episcopato italiano, li abbiamo gia fatti: sono quelli di Lercaro, Roncalli e Montini.

L'arcivescovo di Bologna, cardinale Lercaro, è il più anziano dei tre nell'episcopato attivo (Roncalli, sebbene vescovo dal 1925, e solo dal '53 alla testa di una diocesi, e la consacrazione episcopale di mons. Montini risale appena al dicembre del 1954); egli e anche il primo «vescovo progressista» che abbia fatto parlare di se nel paese e al quale si attribuisca persino di aver fatto scuola tra i vescovi più giovani di alcune diocesi minori.
Di lui «intimo», Luigi Santucci, ha detto: «Il cardinale Lercaro e un cardinale, come dire?, da doposcuola, da gita scolastica, fuori porta col tranvai, i panini imbottiti, il triciclo del gelatiere e le fionde».
E il Bedeschi l'ha descritto «con gli universitari a tavola accettare l'imberrettamento appena si accorge che circola questo desiderio tra i presenti; tra i ferrovieri col bicchiere di vino davanti, ascoltare gli stornelli estemporanei; tra i bambini mascherati durante il Carnevale, indovinare i volti dei personaggi favolosi del giornalismo fumettistico; sul sagrato delle chiese, dopo le funzioni, parlare con tutti...». Questi atteggiamenti, si badi, sono assolutamente spontanei e naturali per il Lercaro, espressioni di quell'irrefrenabile bisogno di comunicativita che e tipico del suo temperamento.
Salvo che per la meditazione e per lo studio, egli, infatti, non puo star solo. E' noto che sin da pochi mesi dopo il suo insediamento a Bologna egli incomincio a ospitare in arcivescovado alcuni giovani (studenti universitari, operai, disoccupati), che manteneva a sue spese e intratteneva solitamente alla sua mensa. «Mi pesa meno sulla coscienza questo enorme palazzo — disse alloggiandovi dei bisognosi». Ma un altro giorno, alludendo ai suoi ospiti, precise, meglio l'altro motivo per cui li aveva raccolti: «Come farà il Papa a star da solo a tavola? chiese —. La sera, prima di andarsi a riposare, dovrà mettersi davanti allo specchio, far gesti, gridare, per avere l'illusione di essere con qualunque altro!».
La vocazione del Lercaro, infatti, e sempre stata quella del pedagogo.
Il cardinale Siri, in occasione del decennale di episcopato del suo corregionale, scrisse: «Rivedo i quaderni dettati da lui professore di religione quando io avevo dieci anni. A considerarli, si avverte ch'egli ha preceduto di qualche decennio i migliori metodi di insegnamento del catechismo. Era stato allora, con una sorprendente e genialissima genialita, un innovatore. Tale caratteristica non lo ha abbandonato mai. Fatto nel 1923 professore di Sacra Scrittura e Patrologia, fu ancora il genialissimo e non dimenticato rinnovatore di tali studi nel Seminario di Genova. Quando divenne insegnante di religione al liceo Colombo fu il vero fondatore di un "metodo complessivo di trattamento", che ancor oggi e criterio orientativo del nostro ambiente.
Non smentì tale caratteristica da parroco e da vescovo.»

Il Lercaro ha anche una buona cultura: non solo, dopo la guerra mondiale, a cui partecipò da soldato, integrò i suoi studi a Roma frequentando il Biblico, ma, tornato a Genova, ed incaricato di un insegnamento di filosofia, si guadagnò l'abilitazione accademica filosofica dal famoso filosofo Rensi con uno studio sul Balmes. Della sua eloquenza ha detto il Santucci che sfrutta la malla di una parola meditata e adorna, e dei suoi scritti che hanno uno stile «distillatissimo».
Lodi auliche, tanto più che di alcuni dei suoi discorsi piu impegnati non sono solo gli intimi a conoscere il vero autore [ovvero: Giuseppe Dossetti, ndr].
E quanto ai non molti libri del Lercaro, ascetici, liturgici, ecc., nessuno è eccezionale e capita mai di veder citato. Appunto perchè quel che conta in lui e il maestro, non l'erudito o lo scopritore o il critico.
La sua pedagogia, non si deve dimenticarlo, e essenzialmente quella del prete, non del professore prete, ma del prete tout-court: ieri del parroco, oggi del vescovo.

Del prevosto della Collegiata dell'Immacolata a Genova non si ricorda piu molto, fatta eccezione dell'ospitalità offerta nella sua canonica, dopo l'8 settembre 1943, a una decina di perseguitati politici (per nutrire i quali faceva spesso la spola tra Genova e Diano Marina, riportando sotto la tonaca barattoli d'olio e pacchetti di generi vari), degli undici mesi durante i quali fu costretto a spostarsi di convento in convento, braccato dalle S.S. (parecchi di quei mesi li trascorse al villaggio della Carità di don Orione, in una palazzina riservata ai sacerdoti malati di mente). Ancor meno poi si parla oggi del quinquennio di episcopato trascorso nell'ex-capitale dell'Esarcato, tanto le attivita dell'arcivescovo di Bologna han finito per eclissare le precedenti.

Comunque, sia nelle une che nelle altre, se si vuol cercare un motivo di continuità e di coerenza, si può senz'altro identificarlo nel culto della liturgia (il Lercaro e cosi appassionato della liturgia che il Papa lo ha designato protettore del Centro di azione liturgica). Non altro significa, infatti, la sua passione per la regia. Ormai tutto il mondo conosce l'iniziativa del Carnevale dei bambini di Bologna, giunto quest'anno [1958, ndt]alla sua sesta edizione, giacche vi partecipano persino intere delegazioni estere e personaggi internazionali intonati all'avvenimento (come Pablito Calvo, nel 1956): ma in Italia molti ignorano l'Arrivo dei Magi e la Processions delle Palme, due altre grandi manifestazioni per 1'infanzia volute dal Lercaro, e le cerimonie notturne del Venerdi Santo nella piazza di S.Petronio.

Nella fantasia del figlio del nostromo di Quinto (il Lercaro e nato a Quinto al Mare il 28 ottobre 1891) tutto tende a trasformarsi in spettacolo coreografico.
Quando si trattò ad es. di propagandare la fondazione, alla periferia di Bologna, di 17 nuove chiese, egli ideò un'occupazione simbolica dell'area dove avrebbero dovuto sorgere. Un lungo carosello automobilistico, come un'interminabile vertebra costituita da centinaia di macchine, avrebbe dovuto attraversare tutta la periferia, per un percorso complessivo di 51 chilometri, immobilizzando il traffico durante un intero pomeriggio domenicale (dalle 13,30 alle 21,30) in modo da far conoscere a tutti quello che stava per avvenire. Su ogni area prescelta 1'arcivescovo avrebbe piantato una croce, a fianco della quale sarebbe poi stato innalzato un cartellone su palafitte munito di una scritta con caratteri fosforescenti: «Qui sorgera, con l'aiuto di Dio e del popolo bolognese, la chiesa dedicata a...». Ciò che fu fatto. E a mezzogiorno, in S.Petronio, prima di dare il via al corteo, l'arcivescovo parlò al popolo, poi deposta la croce pastorale su di un vassoio, percorse lui stesso le navate della Basilica per raccogliere le offerte.
Quando accaddero i fatti d'Ungheria impose il lutto a tutta la Chiesa bolognese e tutte le parrocchie della diocesi vestirono i loro portali di gramaglie.

I bolognesi sanno ormai che la loro citta non avra piu tregua fino a che avra lui per arcivescovo. Essa non fa che passare, quasi senza soste, da una liturgia all'altra. Basta pensare alle missioni. Nel '52, e vi era appena giunto, Lercaro fece tenere la prima predicazione italiana «per un mondo migliore»; poi, dal '53 al '56, in tre tempi, Bologna fu teatro della grande Missione, dapprima nel suo retroterra, poi nelle varie zone cittadine; ora e la volta della diocesi.
Per Lercaro, insomma, il Sacro deve diventare un fatto visivo, auditivo, e soprattutto dev'essere esperimentato insieme, comunitariamente. Questo, e non altro, e il suo vero «andare al popolo» di sagacissimo pedagogo e manovratore di folle.
Egli e per tutti: per la massa e per ogni categoria: per gli intellettuali, che raggiunge all'Universita o alla Lectura Dantis; per gli imprenditori, a cui ricorda i doveri sociali della proprieta; per le famiglie, che convoca per il lunedi di Pasqua e per il Ferragosto nella sua Villa Revedin, appena fuori porta; per i tramvieri, pei quali organizza il lunedi del tramviere; per i barbieri, pei quali ordina una speciale messa domenicale; pei carcerati, che fa assistere da un apposito Comitato di assistenza cittadino, ecc.

In questo suo «andare al popolo», tuttavia, ha finito per infiltrarsi, in parte fatalmente (per il demone demagogo che e l'anima segreta di ogni regìa e liturgia) in parte consapevolmente, quel certo lievito di popolarismo e proletarismo che per qualche anno lo ha fatto chiamare sui rotocalchi il «Papa rosso» o il «Papa socialista». Il calore dell'oratoria e stato colpevole in parte di questo abbaglio. Ma bisogna anche riconoscere che, per qualche tempo almeno, deve effettivamente aver inclinato a un certo progressismo. Nella prolusione al VII Convegno nazionale degli assistenti delle A.C.L.I., svoltosi a Bologna dal 21 al 24 settembre 1954, egli disse, ad esempio, e lascio che fosse stampato: «La classe lavoratrice, per usare un termine comune, sta assumendo nella vita della società un posto che finora non ha avuto. Le leve di comando della vita di domani saranno indubbiamente nelle sue mani».
Oggi questo non avviene. Anzi, dopo la sconfitta del suo pupillo Dossetti alle elezioni comunali del 1956, tanto nelle sue parole che nelle sue decisioni, sono spesso affiorati accenni rivelatori di un integralismo finora abilmente sottaciuto o travestito. Subito dopo le sfortunate elezioni accennate, ad es., in piena festa del Corpus Domini, anzi alla presenza dell'Ostensorio, prima di impartire la benedizione, egli arringo la folla dicendo tra l'altro: «Ci viene fatto di pensare con amarezza questa parola tua vedendo l'apostasia di tanti nostri fratelli che sono corsi follemente a sbattezzarsi».
E recentissimamente, dopo la sentenza del tribunale di Firenze sul caso di Prato, il gesto di imporre nuovamente, ma questa volta per l'intera quaresima, il lutto alla diocesi aggravato dal suono a morto delle campane ogni sera, e stato accolto come la piu amara rivelazione d'un inammissibile stato d'animo."

mercoledì, febbraio 10, 2010

tra Hanna e Caifa /2


Sive: "TRANSIIT IAM ANNUM..."

Nel primo anniversario della morte di Eluana Englaro, il Ministro Maurizio Sacconi si è recato in pellegrinaggio a Lecco presso la Casa di Cura "Beato Luigi Talamoni" dove la donna, in stato vegetativo morta il 9 febbraio 2009, rimase ricoverata per più di un decennio accudita con spirito di cristiana campassione dalle suore Misericordine.
Ricevuto dalla Madre Superiora Suor Aldina Corti, il Ministro del Welfare si è fatto anbasciatore di una divota epistola del Presidente del Consiglio dei Ministri:
"Carissime sorelle,
è trascorso ormai un anno dalla scomparsa di Eluana Englaro.
Vorrei ricordarla con voi e condividere il rammarico e il dolore per non aver potuto evitare la sua morte.
Vorrei soprattutto ringraziare tutte voi per la discreta e tenace testimonianza di bene e di amore che avete dato in questi anni, i gesti di cura che avete avuto per Eluana e per tutte le persone che assistete lontano dai riflettori e dal clamore in cui invece sono immerse le nostre giornate, sono un segno di carità, un esempio da seguire per me e per tutti noi che abbiamo la responsabilità di governare il nostro amato Paese.
Vi prego di pregare per l'Italia perché ritrovi pace e serenità nella vita pubblica e in quella privata di ciascuno di noi,
cordialmente Silvio Berlusconi".

martedì, febbraio 09, 2010

Breve ai Principi, VII

Ovvero: amplissimo estratto dalla parte conclusiva della "lectio" intorno ai fondamenti antropologici della lettera enciclica "Caritas in veritate" che l'Eminentissimo Camillo Ruini ha tenuto, in quella che fu la sua Arcibasilica Lateranense, la sera di lunedì 8 febbraio 2010:

"L’Enciclica Caritas in veritate costituisce [...] un grande appello anzitutto ai credenti in Cristo, ma anche a tutti coloro che condividono la centralità della persona umana e l’assoluta non riducibilità del suo essere e del suo valore a tutto il resto della natura. Un appello che ha alla base, insieme alla centralità del soggetto umano e alla sua dignità inviolabile, il legame inscindibile tra carità e verità, con la conseguenza che un cristianesimo di carità senza verità diventa fatalmente marginale nel divenire concreto della storia. Il contenuto di questo appello è orientare a favore dell’uomo la nuova fase che si sta aprendo per il fatto che l’uomo sta diventando capace di modificare fisicamente se stesso: è questo infatti il cuore della nuova “questione antropologica”.

Vorrei terminare individuando due condizioni essenziali perché un tale appello possa essere accolto e avere una reale efficacia storica.

La prima di esse ha a che fare con il processo di globalizzazione e con i mutamenti in corso nei grandi equilibri geo-economici e geo-politici, ma anche e inevitabilmente geo-culturali.La centralità della persona umana si è però affermata storicamente proprio in quelle culture che hanno la loro matrice nel cristianesimo. Sono dunque i popoli eredi di tali culture quelli che per primi hanno la responsabilità e il compito di mantenere e far fruttificare la centralità dell’uomo nella nuova fase storica che si apre davanti a noi, pur cercando, come è doveroso e necessario, di sollecitare anche le altre nazioni e civiltà ad un impegno convergente.
In particolare l’Italia ha a questo fine un ruolo peculiare tra le stesse nazioni europee, ruolo fortemente sottolineato da Giovanni Paolo II, ad esempio nella Lettera ai Vescovi italiani del 6 gennaio 1994, dove scriveva: “All’Italia, in conformità alla sua storia, è affidato in modo speciale il compito di difendere per tutta l’Europa il patrimonio religioso e culturale innestato a Roma dagli Apostoli Pietro e Paolo”. Con uguale vigore Benedetto XVI, nel discorso alla Chiesa italiana tenuto a Verona il 19 ottobre 2006, sottolineava che, attraverso un atteggiamento dinamico e non rinunciatario, “la Chiesa in Italia renderà un grande servizio non solo a questa nazione, ma anche all’Europa e al mondo, perché è presente ovunque l’insidia del secolarismo e altrettanto universale è la necessità di una fede vissuta in rapporto alle sfide del nostro tempo”. Di questo compito e servizio noi italiani dobbiamo essere assai più convinti e consapevoli.

La seconda condizione per accogliere sul serio l’appello contenuto nella Caritas in veritate riguarda ognuno di noi, all’interno della situazione che ciascuno si trova a vivere.
Siamo infatti tutti corresponsabili perché la centralità del soggetto umano assuma un rilievo forte e concreto, capace di incidere sul crescente potere che l’umanità sta acquistando di modificare fisicamente se stessa, per orientare questo potere a favore dell’uomo, considerato in ogni singola persona e in ogni fase della vita sempre come fine e mai come mezzo. In pratica, responsabilità e impegno sono richiesti agli scienziati, ai medici e agli altri operatori sanitari, ma ugualmente agli uomini della cultura e della comunicazione sociale, anzi, ad ogni persona che pensa e agisce, perché la cultura reale di un popolo è fatta dalle convinzioni e dalle scelte che tutti compiono ogni giorno.
Grandi sono, inoltre, le responsabilità dei politici, legislatori e amministratori, ma di nuovo, in un paese democratico, anche di ogni cittadino chiamato a compiere le proprie scelte politiche. E ancora molto dipende da chi può guidare o condizionare gli enormi interessi economici che spesso stanno dietro al lavoro degli scienziati e dei tecnici: anche qui le scelte quotidiane delle persone e delle famiglie hanno però, in concreto, un peso non trascurabile.
Finalmente, una specifica responsabilità riguarda noi sacerdoti e vescovi, i religiosi e le religiose, ciascun credente che intende essere testimone e missionario della fede nel Dio amico dell’uomo."

venerdì, febbraio 05, 2010

Historia Ecclesiastica Anglorum, XIV


Il quotidiano britannico "The Sun" titolava nell'edizione del primo febbraio 2010: "CATHOLIC CAPELLO IS FURIOUS".
Il cattolicesimo del commissario tecnico della nazionale di calcio inglese Fabio Capello è, infatti, argomento assai esotico per l'anglicana Inghilterra tanto che la decisione di punire il calciatore John Terry, togliendogli la fascia di capitano, a seguito del pubblico scandalo del tradimento della moglie con tal Vanessa Perroncella fidanzata di un compagno di squadra nonchè lo scandalo per quelle 20.000 sterline -sulle quali è l'icona della puritana Elisabetta II- date alla medesima amante per abortire, viene additata all'opinione pubblica britannica non tanto come una decisione dettata dal comune buon senso ma, bensì, viene interpretata come il frutto della morale cattolico-conservatrice del "papista" Capello.
Leggere per credere:
"Devout Italian Roman Catholic Capello, 63, who was already reeling from his captain's fling with model Vanessa Perroncel, is an outspoken anti-abortionist.
He is said to be horrified Terry arranged for Vanessa to have a termination.
In 2007 family man Capello told an Italian magazine he supported conservative Pope Benedict XVI - and opposed Italy's laws allowing terminations.
He said: "I'm very Catholic and I am not all in favour of the current law on abortion".
"I like the Pope, the Church needs a traditionalist turn".
"I am someone who prays twice a day, in the morning and evening, wherever I find myself."

giovedì, febbraio 04, 2010

Sonètos Fùnebres, XX


Regina di Sassonia-Meiningen nacque a Würzburg, nella cattolica Baviera, il 6 gennaio 1925; al fonte battesimale ricevette i nomi: Regina Helene Elizabeth Margarete. Quartogenita della contessa Clara Maria di Korff e del principe Georg von Sachsen-Meiningen: il titolare del ducato di Sassonia-Meiningen, esponente del Casato di Wettin dal quale discendono anche le Real Case ancora regnanti nel Regno Unito, Belgio e Lussemburgo.
A seguito della morte in guerra del fratello primogenito Antonio Ulrico, e con l'ingresso nella Certosa del secondogenito Federico Alfredo (la sorella Maria Elisabetta era morta prematuramente nel 1923), ecco che la ancora adolescente Regina venne a trovarsi al centro delle trame matrimoniali delle dinastie europee, essendo la principessa ereditaria della propria Sassone prosapia. E pertanto, il 10 maggio 1951, nella città francese di Nancy, nella Chiesa di san Francesco d'Assisi detta "des-Cordeliers", nonchè luogo di sepoltura della stirpe dei Duchi di Lorena, Regina sposò la trentanovenne Altezza Imperiale e Reale Franz Josef Otto Robert Maria Anton Karl Max Heinrich Sixtus Xaver Felix Renatus Ludwig Gaetan Pius Ignatius von Habsburg-Lothringen, ovvero: Ottone d'Asburgo-Lorena, capo della dinastia asburgica, figlio ed erede dell'ultimo imperatore austro-ungarico, "il santo" Carlo I e della "Serva di Dio" Zita di Borbone-Parma. Con le nozze la principessa di Sassonia-Meiningen assumerà il titolo di S.A.I.&R. (Sua Altezza Imperiale e Reale) Arciduchessa Regina von Habsburg.
La coppia arciducale, dalla Lorena, nel 1954 stabilì la propria residenza nella "Villa Austria" detta la "Kaiservilla" vicino al lago di Starnberg, presso la città bavarese di Pöcking.
Cattolica madre delle loro altezze imperiali Andrea (nata nel 1953), Monika, Michaela (1954, sorelle gemelle)Gabriela (1956) e Walburga (1958), nonchè dei principi Karl von Habsburg (nato 11 gennaio 1961) e Georg (1964); nel 2001 ebbe la gioia di celebrare le nozze d'oro a Nancy.
Il 2 dicembre 2005, a seguito di una caduta, subì un trauma cranico dal quale riuscì a riprendersi. Le sue ultime apparizioni ufficiali sono state in occasione della traslazione dei feretri, nel 2006 della madre e del fratello Antonio Ulrico e, poi nel 2007, dei resti mortali del padre Giorgio (morto nel 1946 prigioniero in Russia) alla cripta di Veste Heldburg presso il borgo di Heldburg (sede originaria della dinastia paterna).
All'età di ottantacinque anni, dopo aver ricevuto i Santi Sacramenti, è serenamente spirata, nella villa imperiale di Pöcking, circondata dall'affetto del marito e di tutta la imperial-real famiglia nella mattina di mercoledì 3 Febbraio 2010; anno novantaduesimo dal crollo dell'impero asburgico.

martedì, febbraio 02, 2010

LA DIVINA PASTORA [15]


Sive: HISTORIA ECCLESIASTICA ANGLORUM

Sui media britannici è trapelata la novella dell'irritazione della Sua Maestà Britannica per la pubblicazione dela costituzione apostolica "Anglicani cetibus": nel novembre 2009, senza alcuna previa consultazione dell'Arcivescovo di Canterbury, "Queen Elisabeth" ha sovranamente deciso d'inviare il Gran Ciambellano a colloquio con il Primate cattolico d'Inghilterra, monsignor Vincent Nichols.
L'alto funzionario della Real Casa si sarebbe fatto latore presso l'Arcivescovo di Westminster delle ambasce della Regina, seriamente preoccupata per le possibili gravi emorragie dell'ala "ritualista" di quella Chiesa d'Inghilterra di cui Elisabetta II è la papessa.

lunedì, febbraio 01, 2010

De Obitu Theodosii /3

SIVE: IN CAUDA VENENUM

Il vaticanista Carlo Falconi dava alle stampe nell 1958, ovvero: nell'incombenza della morte di Pio XII, il saggio dal titolo divenuto proverbiale:
"Il Pentagono Vaticano".
Il Falconi, nel fare una panoramica sullo "status" del cattolicesimo italico nella stagione dell'estremo autunno pacelliano, delineava, dell'allora "rampante" Cardinale Giuseppe Siri (1906-1989), un impareggiabile ritratto che, nonostante ignori fatalmente il successivo trentennio di storia "siriana", riesce ancora, non di meno, a trasmettere la possanza di un assai gustoso ritratto a tutto tondo:

"IL DELFINO DI GENOVA

Fu sulla fine del 1928, nel giorno della beatificazione del cappuccino ligure fra Francesco da Camporosso, che il cardinal Pizzardo, allora sostituto della Segreteria di Stato di Pio XI, udi per la prima volta il nome del suo futuro collega e collaboratore Siri.
Quel mattino di domenica, il Siri, sacerdote da poche settimane, era partito dal Seminario lombardo, di cui era ospite, per recarsi in un centro della campagna romana a celebrare la messa. Poi, inforcata la bicicletta, s'era messo a pedalare di gran lena per giungere in tempo alla funzione in San Pietro. Ancor fuori Roma, però, una macchina lo investiva ferendolo gravemente. Quando lo portarono al Seminario lombardo, era privo di conoscenza e in preda a una grave commozione cerebrate.
Il cardinal Minoretti, allora ancora semplice arcivescovo di Genova, che ebbe appena il tempo di vederlo, ne resto cosi costernato da non saper quasi dir altro al Papa, non appena fu ammesso alla sua presenza. Il Siri era la miglior speranza del giovane clero genovese. Inviato a Roma due anni prima si era subito rivelato tra le intelligenze piu notevoli della Gregoriana, l'universita dei gesuiti. L'apprensione del Minoretti colpi papa Ratti, che non si accontentò di inviargli subito una sua speciale benedizione, ma continuò per parecchio tempo a chieder di lui al suo sostituto, anch'egli ligure ed ex-alunno dello stesso Collegio lombardo.
Nelle sue visite in piazza Santa Maria Maggiore 5, dove ha sede il Collegio, mons. Pizzardo ebbe presto occasione di conoscere direttamente il beniamino del cardinal Minoretti. Poi la laurea summa cum laude in teologia riportò il giovane Siri alla sua Genova, dove l'attendeva la cattedra di «fondamentale» del Seminario. Invano mons. Pizzardo, che in quello stesso anno (1929) era diventato segretario della Sacra Congregazione per gli affari ecclesiastici straordinari, aveva tentato di convincere il Minoretti ad avviare alla carriera diplomatica il suo protetto. Benchè figlio d'uno scaricatore del porto e d'una portinaia, il Siri aveva la distinzione di tratto e di portamento d'un rampollo della piu genuina e storica aristocrazia; non solo, ma una padronanza di se, un linguaggio cosi controllato e incisivo, e persino, gia allora, un po' aulico, da fargli facilmente prevedere sicuri successi nella via diplomatica.
Ma il cardinal Minoretti non aveva sbagliato a puntare sulla genialità teologica del suo giovane sacerdote e a non privarsene. II Siri fu subito il professore più discusso e seguito del Seminario. Nel 1940 la casa editrice Studium annuncio un suo Corso di teologia per laici, di cui pubblicava intanto il primo volume: La rivelazione. Qualche anno dopo uscì anche La Chiesa. Poi piu nulla. Ma bastano quei due primi volumi a dar la misura del suo eccezionale magistero.
Da quell'epoca ad oggi [1958, ndr] c'e stata persino un'inflazione in materia di testi teologici per laici: ma nessuno e ancora riuscito ad eguagliare quei due. Eppure son tutt'altro che privi di difetti: disturba soprattutto lo stile, per lo piu essenziale e scabro fino alla mania, ma spesso anche ricercato e magniloquente fino all'enfasi. L'impostazione, tuttavia, e spesso originale, il procedimento logico ineccepibile e la ricchezza delle deduzioni e delle applicazioni quasi sempre inesauribile. E facile capire l'effetto di quelle lezioni ascoltate anziche lette. Ben presto penò non fu solo il Seminario a vantarsi del nuovo professore: il cardinal Minoretti volle che accettasse anche l'insegnamento di religione nel liceo Doria. Nominato quasi subito assistente degli universitari, poi dei laureati cattolici, quest'ultimo movimento se ne impadroni, lanciandolo, per cosi dire, su scala nazionale, coll'affidargli le lezioni delle note Settimane di Camaldoli.
In quegli stessi anni, spiccavano nel clero genovese altri nomi: quelli, ad esempio, di Emilio Guano e di Giacomo Lercaro. Sia l'attuale assistente dei Laureati cattolici che l'attuale cardinale arcivescovo di Bologna erano più anziani del Siri. Forse continuarono ad essere piu amati. Siri fu subito il piu ammirato. Amarlo era piu difficile. Anche se mostrava desiderio d'esser circondato dai suoi alunni, era soprattutto la loro intelligenza ch'egli cercava: e questo equivaleva a operare gia una selezione. I meno dotati non potevano far a meno di notare in lui, sia che parlasse dalla cattedra o dal pulpito, e nonostante quel tono pacato di sicurezza con cui porgeva, un'appena dissimulata ironia: come se egli sentisse la sua sconfinata superiorità intellettuale sugli ascoltatori e sapesse di esercitare una specie di magia sulle loro intelligenze.

Ma il professor Siri sapeva sostituire la sua mancanza di calore umano col tatto e la raffinatezza dei modi e della parola. Come imponeva ordine nelle sue idee, così sapeva padroneggiare i suoi gesti, dominare le sue reazioni, calcolare l'opportunita delle sue prese di posizione. Alla morte del cardinale Minoretti, nel 1938, divenne pupillo del successore, il gesuita piemontese Pietro Boetto. Piu tardi, all'inizio del 1944, il Boetto ottenne da Roma di farne il suo vescovo ausiliario. La nomina sorprese molti in citta e diocesi, dove si dubitava delle capacita di governo del «professore», proprio in ragione della stima con cui si apprezzavano le sue qualità intellettuali. Il parroco Lercaro, ad esempio, sembrava piu adatto e maturo a un ufficio del genere (il Siri, tra l'altro, aveva appena 42 anni). Ma il Siri, che non volle abbandonare la cattedra in seminario, stupì tutti un'altra volta. Raccolse subito l'alta direzione dell'ONARMO, fondata l'anno prima dal cardinale Boetto per l'assistenza religiosa degli operai; ma si consacrò soprattutto a un'opera nuova, l' «Auxilium », una specie di «Pontificia» genovese, che offriva minestre e generi alimentari a poveri e sinistrati (metà città lo era dopo i micidiali bombardamenti), come pure agli istituti e alle opere pie, inviando ovunque i suoi camion bianchi a strisce gialle per raccogliere i viveri necessari. La rivelazione dell'uomo d'azione non era ancora completa. Presto si sparse per Genova la notizia che mons. Siri aveva dovuto lasciare la città perchè ricercato dai tedeschi e dalle brigate nere pei suoi rapporti coi partigiani. La sua assenza non durò molto, ma aumento enormemente il suo prestigio. Al momento di evitare la resistenza ad oltranza dei tedeschi, che avrebbe finito per distruggere la città (il porto era gia minato), fu mons. Siri, in rappresentanza del cardinale Boetto, a esercitare i suoi uffici di mediatore presso il generale tedesco Meinhold.
Poi, nel gennaio del 1946, il Boetto moriva e, nel maggio, il Siri ne raccoglieva l'eredita. Oltre che arcivescovo, diveniva cosi anche «legato trasmarino», Gran cancelliere del Collegio teologico di san Tommaso d'Aquino, abate di San Siro, ecc. Per il figlio della popolana di piazza dell'Immacolata era un traguardo sbalorditivo e raggiunto a soli 44 anni. Ma questo non l'aiutò a superare il complesso delle sue origini. Molti a Genova sostengono ch'egli, gia dai primi anni del suo sacerdozio, non abbia piu voluto metter piede nella portineria dove aveva visto la luce. E si racconta anche d'una udienza negata all'umile donna del popolo che l'aveva aiutato coi piccoli risparmi a pagare la sua retta di seminario, desiderosa d'incontrare finalmente il suo arcivescovo a tu per tu nella solennita dell'episcopio. Veri o no, questi episodi vogliono probabilmente alludere soprattutto alla fredda aristocraticita che distingue oggi, nonostante le sue molte opere in favore dei diseredati, il vero capo della Superba. Quest'involuzione fu certamente lenta, ma ebbe il primo avvio nell'educazione tipicamente borghese del seminario, accentuandosi specialmente dopo il passaggio da Genova a Roma. Ritornato in citta, gli fu istintivo far di tutto per strappare da se ogni legame col passato, fors'anche per un bisogno di reazione allo squallore dell'infanzia e alle sue dure privazioni.

Una delle citazioni piu frequenti sulle labbra del cardinal Siri e oggi questa: homo sine pecunia imago mortis. E può anche meravigliare la sua frequente difesa del diritto di proprietà: essa s'innesta senza alcun dubbio su motivi psicologici molto personali. Nell'esporla, il cardinale muove sempre dalla rivendicazione dell'autonomia come elemento base della personalità. La persona — egli dice — è autonoma o non è; e per esserlo ha bisogno di avere a sua disposizione beni di consumo e di produzione. Senza di essi, muore o è mortificata: l'uomo non è uomo se non ha l'indipendenza dal bisogno. Per questo motivo la sua difesa dei poveri non è senz'altro demagogica, ma sincera. Difendendoli, egli continua ad abolire parte dei suoi anni d'infanzia e della vita dei suoi genitori. Per questo ha creato l'«Auxilium», ha promosso l'iniziativa delle «case minime», ha fondato la Casa san Giorgio per l'emigrante, dato vita a un'intera organizzazione di spacci alimentari ed ha di mira di rendere autosufficienti dal punto di vista caritativo tutte le parrocchie della sua diocesi, se non altro per assicurare l'eliminazione dei casi di miseria piu disumana. Perciò, appena nominato arcivescovo della sua città, scrisse una pastorale per sollecitare maggiori aiuti economici al clero; e, appena ricevuto la nomina a cardinale, declinò ogni regalo per se, invitando invece a dare a «coloro che mancano ancora di una casa e che son privi di lavoro».
Tutto questo, pero, spiega anche il perchè egli subisca contemporaneamente e soprattutto il fascino della grande potenza finanziaria e dei suoi magnati; non solo ma persino quella degli avventurieri, tutt'altro che rari in un mondo come quello. Solo in questi ultimi anni, le cronache genovesi hanno portato alla ribalta parecchi di costoro, per lo piu assai vicini, per le loro quanta di cattolici praticanti, alla Curia e alla persona stessa del cardinale.
Nel '56 ci fu lo scandalo Nicolay-SFIAR, due società che si erano appropriate circa 700 milioni promettendo interessi spettacolari. Il personaggio dominante in questa ridda di speculazioni risulto essere Antonio Loi, gia segretario, nei primi anni del dopoguerra, della Democrazia cristiana genovese, poi vice segretario amministrativo del partito e infine amministratore di tutti i giornali della DC. Fu arrestato nell'estate di quell'anno, immediatamente dopo il suo rientro dalla Spagna, dove aveva accompagnato il cardinal Siri, legato pontificio per le celebrazioni centenarie di S.Ignazio di Loyola. La recente rincarcerazione di Ebe Roisecco, infine, ha fatto ricordare la voce diffusa e non mai smentita nella primavera del '53: e cioè che, mentre la tentata suicida di allora era piantonata dalla polizia all'ospedale di san Martino per il suo deficit di mezzo miliardo, il cardinale Siri aveva promosso una riunione dei suoi creditori per tentare un accomodamento.
Salvo la più compromettente fiducia nel Loi, i rapporti del cardinale con la Roisecco non vanno certo sopravvalutati. Le vere relazioni del cardinale Siri sono ben altrimenti fondate, basate essenzialmente su famiglie ed enti il cui solo nome basta a dire potenza e solidità: si tratta infatti dei Costa, dei Dufour, dei Piaggio, dei Cameli, ecc., insomma dei grandi armatori e industriali che negli anni critici del dopoguerra hanno trovato nell'arcivescovo Siri il piu sicuro baluardo per la difesa dei loro interessi e della loro politica economica.
Tra il cardinale e loro non si trattava d'una vera e propria alleanza: anche se si sentiva personalmente lusingato di allacciar legami con una aristocrazia dalla quale le sue origini avrebbero dovuto tenerlo per sempre lontano, l'arcivescovo era sicuro di non tradire, avvicinandoli, la causa dei poveri: o perlomeno era certo di esercitare quell'opera di mediazione interclassista che la dottrina sociale cattolica ritiene il dovere d'ogni fedele e tanto più d'ogni vescovo.
Nel suo scritto piu ambizioso sulla questione sociale, destinato al clero della sua diocesi nell'Epifania del 1956 dove sono raccolte idee sostenute da anni, egli ha scritto tra l'altro : «non riconosciamo a nessuno di poterci trarre a fazioni ispirate ai mutevoli venti, a facili opportunità, a peccaminose popolarita: noi siamo solamente di Cristo. Le parole 'destra e sinistra' non ci appartengono, come non ci appartiene qualunque altra che significhi semplicemente 'diverso da destra e da sinistra'».
Ma l'ingenuità della soluzione mediatrice non tarda ad apparire: «Molti dei nostri fratelli hanno ridotto le cose buone e belle al denaro, al dominio, al senso (veramente poco!) e queste tre risorse hanno ristrette a pochissime variazioni. Così accade che i più siano colpevolmente poveri e che i poveri si sentano immensamente più poveri di quello che sono. Tutti hanno il sole, la natura, l'arte, il sentimento, la poesia, l'amicizia e soprattutto la verità e la bontà! Perche non ne godono?... Che bisogno c'è di chiudere il Cielo, di spegnere il sole e di versar veleno in tutte le bevande, per far la giustizia nel mondo?». E ancora: «La questione non e tanto di sapere in quali mani andranno le riserve, ossia il Capitale (che ci deve essere perchè nessuno fa vivere la società senza riserve), ma quella di sapere se chi dirige (e chi dirige ci sarà sempre) sapra rispettare la dignità di chi e diretto e saprà non chiudergli le porte».
Con idee come queste — tutt'altro che originali nella sostanza, ma spesso molto abili nello sviluppo — il cardinal Siri e riuscito a consolidare e a diffondere le sue opere caritative, ma anche ad attenuare — non senza valersi dei suoi larghi appoggi politici — la tensione tra masse operaie e imprenditori, giunta non di rado, specie nei primi anni del suo governo, al limite.
Un altro più vasto strumento di avvicinamento degli ambienti del capitale egli seppe darsi con l'UCID (Unione cattolica imprenditori dirigenti). Nata a Milano nel 1946 in forme ancora assai imprecise, essa assunse una fisionomia adeguatamente organizzata solo a Genova, nel febbraio del 1947, sotto il nome di Gruppo ligure imprenditori dirigenti. Fondatori: coll'arcivescovo Siri, il conte Lo Faro, l'ingegner Pautrier e gli avvocati Sciaccaluga e Borasio. Un forte nucleo di industriali aderì al movimento sotto la presidenza Lo Faro e poi sotto quella del dottor B. Vaccari. Il Siri ne fu il consulente ecclesiastico: carica che ancor oggi [1958] ricopre nell'organizzazione nazionale, nei congressi della quale prende spesso la parola.
Durante la presidenza di Angelo Costa alla Confindustria (un altro fratello Costa, Giacomo, e il suo braccio destro alla testa dell'Azione cattolica diocesana), l'influenza del cardinale Siri si estese sempre in questo settore, da Genova a tutte le altre regioni. Specie dopo il 1950, il Siri non appartiene più soltanto a Genova e alla sua diocesi (appena 750.000 abitanti, distribuiti in 234 parrocchie, 63 delle quali nel solo capoluogo), ma all'Italia. Le tappe del suo crescente prestigio sono segnate soprattutto da queste date: 1951: nomina a presidente delle Settimane sociali dei cattolici italiani; 1953, elevazione al cardinalato; 1955, nomina a presidente della Commissione episcopale per l'alta direzione dell'Azione cattolica italiana.
Quest'ascesa aveva nel valore indiscutibile dell'uomo la sua giustificazione fondamentale, ma, come gia la sua nomina ad arcivescovo nel '46, aveva trovato a Roma dei fautori irresistibili: il Triumvirato cardinalizio Canali-Pizzardo-Micara (per merito soprattutto del secondo) e la Curia generalizia dei gesuiti.
Il successo ottenuto nel reggere e riorganizzare la diocesi dopo il ciclone bellico, le sue aderenze nell'alta classe dirigente e finanziaria settentrionale, le impressioni lasciate nei partecipanti alle Settimane sociali, furono decisivi per ottenergli la promozione al cardinalato a soli 48 anni.
Quando poi Gedda riusci a liberarsi del cardinal Piazza, che gli era divenuto progressivamente ostile, il Triumvirato gli fece assegnare dal Papa la presidenza della Commissione episcopale per l'alta direzione dell'A.C. (e quindi dei Comitati civici), per mantenere sotto il proprio controllo questo delicatissimo settore della vita italiana. Piazza, irritato dall'ingerenza di Gedda, ne aveva richiesto il sacrificio; il Triumvirato lo giocò facendogli credere di affidare il compito dell'eliminazione al Siri, di cui era nota l'antipatia per il dittatore dell'A.C. E cosi il Triumvirato salvò Gedda, non scontentò Piazza (che incaricò di dirigere l'alleanza latina per il prossimo conclave) e consigliò Siri di disarmare con «l'indispensabile» Gedda.
In tal modo, il Triumvirato, divenuto Pentagono nel '53, adottava il proprio Delfino. Nel Pentagono l'elemento più giovane, ma non certo papabile era, ed è, l'Ottaviani (67 anni contro gli 83 di Canali, gli 80 di Pizzardo, i 78 di Micara e i 75 di Mimmi).
Oggi [1958] Siri ne conta appena 52. Anche se non dovesse essere subito eletto (potrebbe esserlo nell'ulteriore conclave), il Pentagono avrà comunque in lui, nel frattempo, il suo migliore alfiere. Chi vuol conoscere il pensiero intransigentista del Pentagono (e il cardinale Siri, in un suo discorso, non ha temuto di richiamarsi al Sillabo, affermando che, se nel secolo scorso lo si fosse meditato, quel documento, non si sarebbe commesso l'errore capitalista!) non ha infatti da far altro che seguire le molte e notevoli affermazioni oratorie del cardinale di Genova. Le parole piu pacate, in apparenza, ma gravi nella sostanza, sono state pronunciate in questi ultimi anni proprio da lui. Come nel recente Convegno nazionale dei Comitati civici a proposito dell'intervento politico dell'Azione cattolica, e come a Trento, nel '55, per la Settimana sociale a proposito della scuola, quando disse che, nel campo dell'educazione, Chiesa e famiglia hanno diritto di priorità sullo Stato, il quale non solo deve tollerarne la concorrenza, ma anche finanziarla.

Nessuno in Italia parla oggi cosi frequentemente e autorevolmente, dopo il Papa, come il cardinal Siri. E, si puo ben dire, niente oggi avviene nell'Italia cattolica (ma anche in quella politica ed economica, per tacere, ma siamo solo agli inizi, di quella cinematografica) di cui non sia al corrente o garante o consigliere il Siri. Con una prontezza e versatilità sorprendenti (tanto piu che egli non dispone certo di schiere di competenti ai suoi ordini per ammannirgli il materiale) e con quella lucidità e originalità che gli sono caratteristiche, egli è sempre presente ovunque. Non forse sempre compreso, almeno dal grosso pubblico, colpiscono se non altro gli slogans coi quali suole punteggiare i suoi discorsi. (Parlando qualche anno fa del cinema, disse ad es.: «A proposito del cinema, la Chiesa non e una suocera irragionevole»; e ancora: «il cinema è il terreno sul quale s'incontra tutto quanto il mondo. Tutto quanto il mondo non lo incontro sul campo di gioco. Il mondo non lo trovo tutto in chiesa, purtroppo. Me ne dispiace, ma devo prendere atto di questo. Il mondo non lo trovo tutto in piazza. Il mondo lo trovo tutto quanto al cinema»; e inoltre: «Una volta il nartece, il protiro era l' ingresso della Chiesa. Ora in certi casi il nartece della Chiesa è il cinematografo»)

Se si guarda alla rapidità della sua ascesa e alla posizione di meritato prestigio ora raggiunta dal Siri, non sembra possibile che il prossimo conclave non debba puntare su di lui con quell'unanimità che ha concentrato nel '39 sull'ex-segretario di Stato Pacelli. II Pentagono, certo, lavora in questa direzione, ed egli lo sa. Negli anni scorsi, ad esempio, ha sostenuto un'alacre fatica linguistica, dedicando metodicamente qualche ora al giorno allo studio delle lingue. Al momento opportuno, non sarà certo inferiore a Pio XII nel parlar pentecostale e nella fecondità oratoria. Secondo alcuni intimi, poi, avrebbe gia scelto il suo futuro nome: «Se dovessi venir eletto Papa — avrebbe detto — prenderei ii nome di Gregorio. E da tempo che i Papi non assumono piu questo nome. Eppure e tutto un programma di energia e di intransigenza. Basterebbe pensare al compito svolto da Gregorio VII alla sua epoca».
Ma qualche mese fa (nel dicembre '57), in una conferenza sui rapporti tra Chiesa e Stato, a Genova, e caduto in un lapsus che farebbe ritenere già sorpassata quella scelta: infatti, piu volte, anziche dire Innocenzo IV, disse Innocenzo XIV."