sabato, giugno 30, 2007

musica musicanti! 3



Nella "eroica" scena finale del film "Alatriste- Il destino di un guerriero", ascoltando i primi rintocchi della celebre "La Madrugà", tipica marcia processionale della Semana Santa sevigliana, ho sobbalzato sulla poltrona del cinema.
Ma devo altresì confessare che nella mia pochezza non l'ho riconosciuta immediatamente confondendola con la marcia "Amargura" e con la marcia "Caridad del Guadalquivir".

Ho trovato quanto mai azzeccata la scelta del sottofondo per il massacro finale della battaglia di Rocroi (rispetto all'altra opzione del brano originale appositamente composto per il film dal compositore Roque Baños: una specie di bolero in cui un coro canta un inopportuno "gloria in excelsis"), battaglia che segnò il tracollo militare della Spagna del Siglo de Oro.
Una musica solenne ma pur sempre musica penitenziale -e funebre- che opportunamente -col senno del poi- sottolinea la fine di un'era irripetibile della potenza spagnola.
Ovviamente lo spettatore spagnolo (della pellicola spagnola più costoso nella storia della cinematografia iberica) sa benissimo cosa voglia dire "Rocroi", così come sa benissimo cosa siano le funebremente allegre processioni della Settimana Santa in quell'Andalusia di cui era originario il romanzesco personaggio del capitano Diego Alatriste. Quell'Andalusia in cui tradizionalmente sono stati i direttori di bande militaria a comporre le musiche che accompagnano le barocche processioni dei simulacri della Vergine dolorosa e del Cristo appassionato.
Tra i più celebri e prolifici contemporanei è il colonnello Abel Moreno Gonzales autore appunto della, moderna (1987) ma considerata già classica, marcia "La Madrugà" e membro del reggimento conoscito come il "Soria 9" cioè corpo militare della fanteria spagnola diretto discendente della compagnia militare dei reduci delle Fiandre (cui apparteneva Alatriste) che parteciò alla sventurata battaglia di Rorcoi.

Santa anche subito /9



In previsione dell'apertura del processo per l'omicidio di Hina Saleem; la ragazza pachistana accoltellata dai familiari (dal padre, due suoi cognati e uno zio che l’hanno seppellita nell’orto di casa dopo averla uccisa l’11 agosto 2006) a Saluzzo nel bresciano la cui colpa era d'aver assunto uno stile di vita all'occidentale; l'onorevole Daniela Santanchè decise di rappesentare davanti al giudice del tribunale di Brescia l'associazione l’Acmid-donna, l’associazione delle donne marocchine in Italia presieduta da Souad Sbai.

Una battaglia, quella della Santanchè, per la libertà della donna mussulmana in Italia ma ancor di più per l'integrazione della donna islamica spesso impedita dagli uomini della famiglia ad accostarsi ai valori e alla cultura occidentale.
Infatti nella vicenda di Hina ciò che colpisce, e rende tutto ancor più tragico, è che non si tratta solo della risoluzione tutta maschilista del "padre padrone" poichè anche la madre di Hina pensava che fosse giusto che la figlia dovesse morire come giusta punizione per non aver voluo sposare un cugino pachistano che neppure conosceva (andando invece a convivere con un ragazzo italiano).
E' stata la madre ad attirarla con l'inganno nella casa paterna da cui tempo prima era fuggita: anziché trovare in casa la madre ha trovato i suoi assassini.
Ecco perché al processo che l’associazione Acmid si è costituita parte civile come ha dichiarato Souad Sbai (presidente dell’Acmid e membro della consulta islamica del ministero dell’Interno): “Hina è divenuta un simbolo per tutte le donne musulmane immigrate in Italia per trovare la libertà, che spesso si ritrovano a vivere in condizioni peggiori di quelle lasciate nel proprio paese".

Daniela Santanchè è stata una dei pochi -e soprattutto delle poche- rappresentanti delle istituzioni che fattivamente si è presa a cuore la dignità delle donne immigrate. Assieme a Souad Sbai, infatti, Daniela Santanchè ha creato un centro di accoglienza per donne immigrate vittime di minacce, violenze o soprusi. Inoltre da quest'opera nel 2006 è nato un libro “La donna negata” a seguito della pubblicazione del quale è stata minacciata di morte e da allora, per decisione del Viminale, Daniela Santanchè vive sotto scorta.

Ha dichiarato la Santanchè: “In Parlamento si fatica a far passare il messaggio che anche in Italia esistono dei mini-califfati islamici dove la donna viene considerata merce, e la dignità della persona è continuamente calpestata”.
L’onorevole Santanchè, ricorda che al funerale di Hina c’era soltanto lei a rappresentare le istituzioni, anzi era l'unica tra gli italiani oltre al fidanzato, “assiemea i pochi familiari pachistani che dopo averla uccisa si sono presentati a piangere sulla sua tomba”.


Il processo si è aperto a Brescia giovedì 28 giugno 2007.
Già dal mattino presto fuori dal tribunale -dove dall'aula delle udienze preliminari il giudice Silvia Milesi stava decidendo se accogliere la costituzione in parte civile del fidanzato italiano di Hina e delle donne musulmane dell’Acmid- duecento donne mussulmani molte delle quali assieme ai propri mariti ( ma anche donne italiane e di associazioni ebraiche) manifestavano mostrando lo striscione su cui era scritto “Hina sono io”.
Spiegava ai giornalisti Souad Sbai: “In Marocco o in Tunisia, c’è molta più libertà per noi donne, qui invece è stato commesso un omicidio rituale, è questo che dovrebbe spaventare, e non si può permettere che ciò accada in Italia”.

C’era anche un l'imam Abdellah Mechnoune di Torino che (in abiti occidentali) ha affrontato le domande dei giornalisti (e le provocazioni di un gruppo di leghisti) per spiegare che il caso di Hina è un“problema di cultura” e non di fede: “Sono qui per dare una mano a tutte le donne musulmane che hanno genitori che cercano di imporre con la violenza certi stili culturali. Quel padre non aveva il diritto di uccidere”.

Daniela Santanchè ha fatto notare di essere, ancora una volta, l'unico esponente della classe politica ad interessarsi del problema (dato che a parte la parlamentare di An mancano totalmente i rappresentanti della politica italiana di ogni livello e di qualsivoglia parte politica). La Santanchè, infatti, ha avuto gioco facile nel denunciare alla stampa l'assenza delle "femministe" cioè delle la donne di sinistra e sbugiardando la ministra Barbara Pollastrini che aveva pubblicamente dichiarato: “C’è la volontà mia affinché il ministero dei Diritti e delle Pari opportunità si costituisca parte civile contro il padre che verrà processato per omicidio”.


La manifestazione è terminata poco dopo le ore tredici quando il giudice Silvia Milesi ha comunicato di aver accolto la richiesta di costituzione in parte civile del convivente di Hina Saleeem ma ha bocciato la richiesta dell'associazione delle donne musulmane con la motivazione che “il diritto all’integrazione delle donne musulmane non rientra nell’oggetto sociale dell’Acmid”. Prevedibile la delusione delle donne manifestanti che urlano “vergogna”.

I quattro imputati – padre e zio (gli unici presenti ieri) e due cognati di Hina Saleem (la madre no, è in aula ma solo come parte offesa)- hanno chiesto di essere giudicati con il rito abbreviato.
La data è fissata al 24 ottobre, la sentenza dovrebbe arrivare entro novembre.

“Ha vinto chi ha sgozzato Hina. E’ un pessimo segnale alle donne, una brutta pagina della giustizia italiana”, ha dichiarato molto amareggiata la deputata di Alleanza Nazionale uscendo dal tribunale in cui il padre-assassino fissandola, e ridendo, ha puntato minaccioso il dito contro l'onorevole Santanchè.

venerdì, giugno 29, 2007

Accipe Thiaram tribus Coronis ornatam!


In solemnitate Sanctorum Petri et Pauli, anno bismillesimo septimo sono andato a consultare Wikipedia alla voce "Tiara papale" dove si afferma che:
"In occasione della festività di San Pietro e Paolo, il 29 giugno di ogni anno, si usava rivestire della tiara e dei paramenti pontificali la famosa statua bronzea di San Pietro nella Basilica di San Pietro per onorare l'Apostolo di cui i papi si dichiarano successori. Questa usanza è stata abbandonata nel 2006."
Probabilmente quando tornerò sul sito dell'enciclopedia telematica qualche zelante avrà già apportato le dovute correzioni poiche in data 29 giugno 2007 la bronzea statua di san Pietro -universalmente nota per aver i piedi consumati dai baci dei fedeli- indossa come consuetudine il grosso e prezioso triregno solitamente esposto nel "Museo del Tesoro" della Sagrestia della Basilica Vaticana.

L'usanza è stata ripresa quindi? Noi ci domandiamo.
Il problema non ha facile risoluzione poichè mai nessuno aveva dichiarato "papale-papale" l'intenzione di non più coronare il simulacro dell'Apostolo Pietro attribuito ad Arnolfo di Cambio nella solennità liturgica di San Pietro, anzi sarebbe meglio dire nelle solennità liturgiche di San Pietro: il 29 giugno data della commemorazione del martirio ed il 22 febbraio nella commemorazione della "Cattedra di san Pietro".
Tradizionalmente, infatti, in tali date la bronzea statua raffigurante San Pietro in trono, benedice mentre nella sinistra stringe saldamenti al petto le chiavi del Regno dei Cieli, viene vestita con un bianco camice ricamato sul quale è una stola rossa damascata in oro, della medesima preziosa stoffa è l'ampio piviale chiuso sul petto da un spilla "il razionale" di foggia esuberantemente barocca.
In questo preziosissimo guardaroba pontificale non può mancare al collo della bronzea statua una catena d'oro da cui pende una croce pettorale tempestata di diamanti ed un vistoso anello all'indice della negra mano benedicente. Sul capo viene posto un triregno di argento massiccio decorato con perle e pietre preziose.
Or bene, nella festa dei Santi Apostoli patroni dell'Urbe del 2006 la statua venne rivestita come descritto eccetto che per il triregno.
Il fatto, assai marginale in vero, ha fatto ipotezzare che si trattasse del segnale -seppur folkloristico- del più profondo e generale ripensamento del ruolo "più evangelico" del papato romano seguito del Concilio Vaticano II ed alla fine della cosiddetta "era costantiniana". Siccome il cerimoniale pontificio non contempla più l'uso del triregno nemmeno nella cerimonia di inizio del pontificato e dato che Benedetto XVI ha financo tolto la tiara dal suo stemma sostituendolo con la mitra parebbe la conseguenza di una ferrea logica teutonica che: poichè il Romano pontefice, successore di san Pietro e sua vivente immagine nella Storia, non indossa più il triregno devesi concludere che anche tra i simboli pontificali con cui viene per devozione addobbata l'immagini di San Pietro venga abolito il Triregno.

Però ecco che nuovamente in data 22 febbraio 2007 festa della Cattedra di San Pietro la statua opera di Arnolfo di Cambio risultava rivestita di tutto punto (compreso il triregno!) mentre il 22 febbraio dell'anno precedente essa si mostrava nuda di ogni superfluo vestimento nella sua bronzea ieraticità.
Che cosa -o meglio chi- ha provocato la linea di "austerità" nelle manifestazioni di devozione verso l'effige del Pescatore di Galilea nell'anno 2006? E chi invece ha voluto che nel 2007 non solo in giugno ma persino in febbraio si tornasse alla "tradizione"? Infatti il papa è il medesimo Benedetto così come l'arciprete è il medesimo monsignor Angelo Comastri.

Fare illazioni su chi fra papa Benedetto e monsignor Comastri fu nel 2006 più austeramente motivato da ardore per una spiritualità tutta interiore, ed aliena da incrostazioni mondane, non ha molto senso dato che di contro, alla luce di ciò che è avvenuto nel 2007, al medesimo personaggio dovremmo rimproverare una sconfessione del proprio operato e -quel che è peggio!- dei proprii ideali!

Per amor di verità, spetterebbe all'Arciprete prendersi cura dei cimeli spirituali della basilica vaticana; quindi dovremmo imputare a monsignor Comastri la decisione di non addobbare baroccamente il simulacro di San Pietro.
C'è da chiedersi come mai, seppur uomo ascetico che fu amico personale e confidente di Madre Teresa di Calcutta, da arcivescovo di Loreto non ebbe nulla da ridire sulla "dalmatica" della Vergine Lauretana cioè l'abito su cui sono cucite gemme e pietre preziose che riveste la statua della Madonna -pur sapendo benissimo che la Santa Vergine nella casa di Nazaret vestiva assai modestamente-, il medesimo Comastri una volta diventato amministratore della basilica vaticana ha cominciato ad avere simili scrupoli pauperistici?
O forse che, essendo quel 22 febbraio 2006, la prima "cattedra di San Pietro" sotto il "regno" di Ratzinger (e giorno in cui il papa annunciò la sua prima infornata cardinalizia) si sia voluto, non adornando baroccamente l'effige del Principe degli Apostoli, indicare attraverso una politica dell'immagine l'ideale non di monarchia assoluta ma di servizio alla collegialità che Joseph Ratzinger ha del papato (e del proprio pontificato in particolare)? Proseguendo nel medesimo programma didattico il successivo 29 giugno decretando di non opprimene il capo bronzeo di San Pietro sotto il peso dell'argenteo triregno ma lasciando la sua testa circondata solo dal'aurea aureola simbolo della santità?
Però staremmo parlando dello stesso Benedetto XVI che poi indossa sbarazzino il medievale camauro come Giovanni XXIII e si siede con nonchalance sul barocco trono di Leone XIII!
E allora?
Forse da un lato la volontà (del papa o dell'arciprete poco importa) di innovare la simbologia petrina alla luce della sensibilità contemporanea, o forse la convinzione che dell'eliminazione di un superfluo apparato barocco nessuno si sarebbe dato pena; salvo poi, quando ci si è resi conto che in troppi se ne erano accorti e lamentati, di "soprassedere".
A me piace pensare che lo stesso sedici volte Benedetto abbia pensato bene di "soprassedere" poichè anche se una tal manifestazione di devozione barocca non è più in accordo con la sensibilità del XXI secolo essa non è nemmeno dannosa per cui bisognerà pur concordare con l'Apostolo che: "tutto concorre al bene di coloro che amano Dio".

Alla fine mi convinco che (in questa presunta occulta battaglia dei simboli) non c'è nessun retropensiero teologico ma soltanto una certa dose di sciatteria nella gestione della "Reverenda Fabbrica di San Pietro" poichè, se per la gioia dei cattolici conservatori che anelano al ritorno della messa in latino, il ritorno del folklotistico triregno in capo al simulacro di San Pietro sarebbe un buon auspicio, dall'altro lato non saprei che auspici verranno tratti dalla "abolizione" di un'altra inveterata tradizione: nell'anno di grazia 2007 non penzola sotto la loggia centrale di San Pietro la cosiddetta "rete del pescatore" cioè la decorazione floreale a forma di nassa che veniva appesa sul portale principale della facciata della basilica vaticana.
La trama s'infittisce?

mercoledì, giugno 27, 2007

LASCIA CH'IO PIANGA [4]


"Le lacrimazioni di sangue erano iniziate il 2 febbraio 1995, alle 16.30, nel giardino della famiglia Gregori. Si sono poi ripetute, nei giorni successivi, per altre 12 volte, davanti a un totale di 40 persone, diverse in ogni episodio, che “hanno visto le lacrime formarsi e scendere”. Le analisi hanno accertato che si tratta di sangue appartenente ad un unico individuo e che la statuetta di gesso pieno non ha cavità al suo interno, né marchingegni o trucchi.

Tutti ricordano il forte scetticismo iniziale del vescovo, monsignor Grillo. Il quale, nelle pagine di Diario che ha pubblicato, riferisce che il giorno 13 marzo ricevette una telefonata dal famoso esorcista della diocesi di Roma, padre Gabriele Amorth (una vera autorità, che fu peraltro amico di padre Pio). Padre Amorth pregò il vescovo di aver fede, “perché egli era venuto a conoscenza fin dalla scorsa estate, da un’anima da lui diretta spiritualmente, che una Madonnina avrebbe pianto a Civitavecchia e che questo segno sarebbe stato di non buon auspicio per l’Italia, ragion per cui sarebbe stato opportuno far penitenza e pregare molto”.

Il vescovo annota di non avergli creduto e di averne parlato poi con la sorella, Grazia, con accenti ironici. La sorella però restò turbata e l’indomani, il 15 marzo 1995, alle 8.15 del mattino, dopo la messa, ricordando le parole di padre Amorth, manifestò il desiderio di pregare davanti alla statuetta che era custodita da giorni in un armadio del vescovado. Monsignor Grillo acconsentì e insieme ad altri iniziarono a recitare il “Salve Regina”: al versetto “rivolgi a noi gli occhi tuoi misericordiosi” la statuetta iniziò a piangere ancora sangue, per la quattordicesima volta, ma ora fra le mani del vescovo scettico. Per il prelato fu un duro choc, tanto che dovette essere soccorso urgentemente dal cardiologo.
Dopo quell’evento sconvolgente ovviamente si convinse.


Ma cosa gli aveva detto padre Amorth poche ore prima? Perché lo aveva invitato a credere che lì c’era davvero il dito di Dio? E a quali eventi tragici per l’Italia alludeva? L’ho chiesto allo stesso padre Amorth. L’anziano sacerdote è il più famoso esorcista incaricato dalla Chiesa, quindi si occupa di liberare nel nome di Cristo persone che sono vessate o possedute da entità diaboliche: ogni settimana, in una chiesa del centro di Roma, svolge questo compito drammatico e lì si assiste a scene sconvolgenti, analoghe a quelle narrate nei Vangeli (mi dice che quelle “entità” urlano e inveiscono molto, per esempio, quando lui invoca l’intercessione di Giovanni Paolo II).

Ma, per il suo profondo discernimento, padre Amorth fa anche da guida spirituale a persone che hanno carismi soprannaturali. Si deve sapere infatti che ci sono nella Chiesa persone che vivono, con umiltà, nel nascondimento e nella preghiera, dei doni particolari (come locuzioni interiori o apparizioni e altro ancora). Una di queste, da lui guidata, una signora che viveva in una città toscana, aveva saputo per vie “soprannaturali”, nell’estate del 1994, che una statuetta della Madonna avrebbe pianto alle porte di Roma, a Civitavecchia, perché eventi tragici potevano verificarsi in Italia se non si fosse pregato molto e fatto penitenza: sconvolgimenti sociali, guerra civile, tanto sangue e pure l’uccisione da parte delle Brigate rosse di “un certo Prodi, eletto al governo”.

Va detto che nell’estate del 1994 nessuno parlava di Prodi (non faceva politica) e nessuno più parlava di Br (che solo negli anni successivi tornano fuori e uccidono). Di quella donna sono riuscito a sapere solo questo: che “si offrì come vittima” per risparmiare al suo Paese questa tragedia e che di lì a poco in effetti si è ammalata di una patologia strana e grave. Dopo la lacrimazione del 15 marzo anche il vescovo di Civitavecchia chiese a tutti i monasteri di clausura d’Italia di pregare ardentemente per il nostro Paese..."
[Antonio Socci]

martedì, giugno 26, 2007

Ratzinger in Vacanza (della Sede Apostolica)



Ovvero: La maggioranza silenziosa

Quando il 22 febbraio 1996 Giovanni Paolo II emanò le nuove regole per il conclave ormai da anni i profeti di sventure davano per imminente la morte del papa polacco e facevano mille illazioni sui possibili papabili successori della maggioranza dei quali inopinatamente, negli anni a venire, Papa Wojtyla ebbe la ventura di presiederne i funerali.

La costituzione "Universi Dominici gregis", non si discosta di molto dalla precedente legislazione di Paolo VI, anzi in molti punti cita ampiamente la montiniana costituzione "Romani Pontifici eligendo".

I pochi punti in cui i documenti differiscono son quelli in cui si stabilisce che: non solo il Palazzo Apostolico vaticano è la sede abituale del conclave (lasciando la possibilità di convocare il conclave in altro luogo in base all'opportunità del frangente storico-politico) mentre, invece, Giovanni Paolo II canonizza una consuetudine storica decretando che solo e soltanto la Cappella Sistina sia il luogo deputato all'elezione papale. Inoltre non solo il Palazzo Papale ma l'intero Stato della Città del Vaticano dovrà sottostare al regime della clausura conclaviaria poichè non più i cardinali dovranno accamparsi alla meglio nelle sale del Palazzo Apostolico, ma risiederanno nella apposita e confortevole Residenza di Santa Marta.

Per quanto riguarda lo scrutinio, mentre Paolo VI stabiliva che iniziando il conclave di pomeriggio, gli eminentissimi cardinali dovesse solo adempiere ai giuramenti di rito e dedicardi al ripasso delle norme dello scrutinio rimandando lo scrutinio stesso alla mattina del giorno appresso, Giovanni Paolo II, invece, lasciò al Sacro Collegio la discrezionalità di procedere la sera stessa alla prima fumata o di aspettare il mattino seguente.

Ma la grande novità risulta dall'abolizione dell'elezione per acclamazione detta anche "per ispirazione" (cioè quando un cardinale proclama ad alta voce che ritiene il più degno del papato la tal eminenza e tutti gli altri porporati si uniscono unanimemente al coro) e dell'elezione per compromesso (cioè quando nella situazione di stallo viene demandata ad una ristretta commissione cardinalizia il compito di decidere a nome di tutti i porporati)-procedure in vero non più in uso da secoli-, lasciando quale unico metodo valido per l'elezione pontificia, nonchè il più confacente alla mentalità ( e all'etica) contemporanea, l'elezione per scruninio segreto.

Il numero 76 della Costituzione apostolica "Romani Pontifici eligendo " di Paolo VI recitava:

"Nel caso che i Cardinali elettori avessero difficoltà nell'accordarsi sulla persona da eleggere, allora, compiuti per tre giorni senza esito gli scrutini secondo la forma descritta (cfr. nn. 65 SS.), questi vengono sospesi al massimo per un giorno per una pausa di preghiera, di libero colloquio tra i votanti e di una breve esortazione spirituale, fatta dal Cardinale primo dell'ordine dei Diaconi. Quindi riprendono le votazioni secondo la medesima forma e dopo sette scrutini, se non è avvenuta l'elezione, si fa un'altra pausa di preghiera, di colloquio e di esortazione, tenuta dal Cardinale primo dell'ordine dei Preti. Si procede poi ad un'altra eventuale serie di sette scrutini, seguita, se ancora non s'è raggiunto l'esito, da una nuova pausa di preghiera, di colloquio e di esortazione, tenuta dal Cardinale primo dell'ordine dei Vescovi.
A questo punto il Cardinale Camerlengo di Santa Romana Chiesa consulterà gli elettori circa il modo di procedere. Non dovrà essere abbandonato il criterio di esigere, per una votazione efficace, i due terzi dei voti più uno; salvo che tutti i Cardinali elettori, all'unanimità, cioè nessuno eccettuato, si pronuncino per un diverso criterio, che può consistere nel compromesso (cfr. n. 64) o nella maggioranza assoluta dei voti, più uno, o nel ballottaggio fra i due, che nello scrutinio immediatamente precedente hanno riportato il maggior numero di suffragi."


Il numero 74 della "Universi Dominici gregis " di Giovanni Paolo II cita pedissequamente la prima parte dell'articolo 76 del documento di Papa Montini:

"Nel caso che i Cardinali elettori avessero difficoltà nell'accordarsi sulla persona da eleggere, allora, compiuti per tre giorni senza esito gli scrutini secondo la forma descritta al n. 62 e seguenti, questi vengono sospesi al massimo per un giorno al fine di avere una pausa di preghiera, di libero colloquio tra i votanti e di una breve esortazione spirituale, fatta dal Cardinale primo dell'Ordine dei Diaconi. Quindi riprendono le votazioni secondo la medesima forma e dopo sette scrutini, se non è avvenuta l'elezione, si fa un'altra pausa di preghiera, di colloquio e di esortazione, tenuta dal Cardinale primo dell'Ordine dei Presbiteri. Si procede poi ad un'altra eventuale serie di sette scrutini, seguita, se ancora non si è raggiunto l'esito, da una nuova pausa di preghiera, di colloquio e di esortazione, tenuta dal Cardinale primo dell'Ordine dei Vescovi. Quindi riprendono le votazioni secondo la medesima forma, le quali, se non è avvenuta l'elezione, saranno sette."

Tuttavia, sul come uscire dall'empasse se ne occupa all'articolo seguente che, data l'abolizione dell' elezione "per compromesso" e "per acclamazione" (che avevano avuto nel passato appunto lo scopo di aggirare la farragginosità dello scrutinio segreto e dell'ardua soglia dei due terzi) tratta solo della possibilità di procedere allo scrutinio a maggioranza "assoluta" (ovvero a maggioranza "semplice") cioè all'elezione del papa con il cinquanta per cento più uno dei suffragi:
"75. Se le votazioni non avranno esito, pur dopo aver proceduto secondo quanto stabilito nel numero precedente, i Cardinali elettori saranno invitati dal Camerlengo ad esprimere parere sul modo di procedere, e si procederà secondo quanto la maggioranza assoluta di loro avrà stabilito.
Tuttavia non si potrà recedere dall'esigere che si abbia una valida elezione o con la maggioranza assoluta dei suffragi o con il votare soltanto sui due nomi, i quali nello scrutinio immediatamente precedente hanno ottenuto la maggior parte dei voti, esigendo anche in questa seconda ipotesi la sola maggioranza assoluta."


Anche Paolo VI, tra un'acclamazione ed un compromesso, aveva ammesso la possibilità di una elezione con la maggioranza semplice ma sotto l'ardua condizione che all'unanimità il Sacro Colleggio approvase il suggerimento del Camerlengo (che avrebbe però potuto anche suggerire il compromesso o il ballottaggio).

Per quanto riguarda il ballottaggio, si evince che per Paolo VI anche nell'elezione di uno dei due candidati più votati (nello scrutinio precedente) non si deve però derogare dal tradizionale quorum dei due terzi limitandosi a facilitare il raggiungimento del quorum col restringere al minimo la possibilità di scelta.

La norma emanata da Giovanni Paolo II invece dice che dopo la trentatreesima (o trentaquattresima) votazione, e cioè dopo tredici giorni dall'inizio del conclave, i cardinali a maggioranza semplice possono decidere (ma possono anche non decidere!) di abbassare il quorum ed inoltre procedere a ballottaggio sempre a maggioranza semplice.

Si è detto che all'elaborazione di questa norma abbia influito il "drammatico" ricordo che Giovanni Paolo II conservò del testa a testa tra Siri e Benelli nel secondo conclave del 1978 (da cui poi Wojtyla uscì eletto). A parte che quel lungo testa a testa non durò certo due settimane ma meno di quarantott'ore visto che il conclave iniziato il pomeriggio del 14 ottobre si concluse all'ottava votazione del pomeriggio del 16 ottobre. Quindi il cardinal Woytjla e i suoi colleghi cardinali nell'ottobre '78 non vissero nessuno stress supplementere dovuto al trascinarsi del conclave. Inoltre se sicuramente non fu estenuante lo scontro dei candidati Siri e Benelli c'è da chiedersi se nel segreto del Conclave quello scontro ci fu veramente e non ebbe luogo unicamente sulle pagine dei vaticanisti.
E poi, come avrebbe potuto Papa Wojtyla reputare sconveniente quelle gara tra candidature di bandira (protrattosi non più che per sei scruitini) se quello fu lo strumento che la Provvidenza utilizzò affinchè i Purpurati Patres, resi docili all'ispirazione dello Spirito Santo, volgessero lo sguardo verso un papabile d'oltre cortina?


In realtà è da tutti ritenuto la mente di quelle innovazioni il fine canonista Mario Francesco Pompedda, poi cardinale e prefetto del supremo tribunale della Segnatura Apostolica.
Ecclesiastico e giurista dotato di grande realismo; dote indispensabile per chi deve applicare la ferrea e siderea norma astratta ancorchè ecclesiastica nel vissuto prosaico del singolo cattolico peccatore; non stupisce affatto che il cardinal Pompedda abbia, su richiesta di Giovanni Paolo II, trovato nell'abbassamento del quorum (sull'esempio di come avviene nei Parlamenti che hanno il compito costituzionale di procedere all'elezioni dei Presidenti della Repubblica)la soluzione "onorevole" in caso di imperterrita e reiterata assenza di illuminazione dello Spirito Santo.

Se i Presidenti della Repubblica eletti a maggioranza semplice svolgono degnissimamente il loro ruolo istituzionale, perchè mai un Papa (il quale nel suo operare è in concreto oberato da vincoli e limitazioni assai maggiore di qualsivoglia Capo di Stato di un regime parlamentare) non potrebbe essere un degnissimo successore di Pietro e Vicario di Cristo anche se eletto con il cinquanta per cento più uno dei suffragi?

Ma già da subito l'innovazione tutta wojtiliana volta a redimere un ipotetico stallo nell'elezione papale ( stallo che nella realtà dalla prima metà dell'Ottocento in poi non s'è più registrata) ha suscitato le critiche di chi ha invece paventato proprio il pericolo che la possibilità di un'elezione a maggioranza semplice possa invece portare acchè un gruppo di "grandi elettori" in grado di controllare la metà dei suffragi si possa incaponire su una candidatura per 34 votazioni di seguito, non sentendo ragione di spostare i propri voti su un candidato di più amplia convergenza, al fine di ottenere lo scrutinio a maggioranza semplice e quindi imporre l'elezione a papa del proprio candidato di bandiera.

Papa Wojtyla (e il cardinal Pompedda) probabilmente ha ritenuto che simili ipotesi di manifestazioni plateali di cinismo cardinalizio non siano nemmeno degne di essere prese in considerazione dato che, lontani i tempi dei veleni dei Borgia e delle militari inprese di Giulio II, spoglio da qualunque bramosia mondana finalmente nel XXI secolo il potere del trono di Pietro si mostra nella sua adamantina essenza spirituale.

Probabilmente il cardinal Ratzinger - nel suo ruolo di "difensore della fede cattolica"- non aveva altrettanta fiducia nelle "magnifiche sorti e progressive" della moralità dei gerarchi cattolici se per ben due volte una richiesta di modifica di quella singola norma della Universi Dominici Gregis fu inviata dalla Congregazione della dottrina della fede alla Segretaria di Stato guidata dal cardinal Sodano.

Morto nel 2005 Giovanni Paolo II ed eletto papa proprio Ratzinger ( e morto il cardinal Pompedda nel 2006) ecco che Benedetto XVI in data 11 giugno 2007 ha potuto accogliere e sottoscrivere il parere del Cardinale Ratzinger dando ordine alla Segreteria di Stato (non più diretta da Sodano) di emanare la Lettera Apostolica in forma di Motu Proprio "DE ALIQUIBUS MUTATIONIBUS IN NORMIS DE ELECTIONE ROMANI PONTIFICIS" che modifica solo e soltanto l'articolo 75 della "Universali Dominici Gregis" e quindi "ripristina la norma tradizionale circa la maggioranza richiesta nell’elezione del Sommo Pontefice. Secondo tale norma, perché il Papa possa considerarsi validamente eletto, è sempre necessaria la maggioranza dei due terzi dei Cardinali presenti".

Giunti pertanto al temuto momento di stallo dopo quattro cicli di scruini, il Papa sedici volte Benedetto ha decretato che si procedano a un ballottaggio tra i due candidati usciti in testa nel precedente voto: l’eletto sarà colui che ottiene almeno i due terzi dei voti.
I due candidati in lizza non partecipano al ballottaggio pur rimanendo presenti in "Sacellum Sixtinum".

Il Motu Proprio è entrato in vigore "contrariis quibusvis non obstantibus" con la pubblicazione sull'Osservatore Romano in data 26 giuno 2007.

sabato, giugno 23, 2007

vite parallele /11

Sive: Historia Ecclesiastica Anglorum


Morta nel 1901 la Regina Vittoria l'ormai attempato Principe di Galles diventato Re Edoardo VII , dopo aver atteso il tempo tradizionalmente stabilito per il lutto e assolte le farraginose cerimonie per l'incoronazione in Westminster (1902), iniziò una lunga serie di viaggi internazionali che lo condussero presso tutte le capitali europee, aiutato dal fatto che di tutti i monarchi europei egli era parente stretto.
Nel primo viaggio del 1903, dopo essere passato da Parigi, arrivò a Roma ove, dopo esser stato omaggiato dai Savoia al Quirinale, si recò ad omaggiate il "prigioniero in Vaticano": evento di portata storica poichè era la prima volta dopo lo scisma di Enrico VIII che un Re d'Inghilterra incontrava un Papa. Edoardo ben consapevole dell'etichetta (e dei principi del diritto feudale) si inginocchiò e baciò la mano di Leone XIII.
Il bianco vegliardo, quale segno di favore, donò al monarca britannico una propria fotografia con dedica autografa.

Scriveva il seminarista Angelo Roncalli (futuro papa Giovanni XXIII) nel suo "Giornale dell'Anima" in data 29 aprile 1903:

"In questi giorni la Roma ufficiale è in festa per la venuta di Edoardo VII, re d'Inghilterra .[...]
Quest'uomo è rivestito di una grande autorità, egli è un re di una delle più grandi nazioni e perciò merita che gli si faccia onore, lo si rispetti. Ma è sempre un povero uomo questo re d'In­ghilterra, questo imperatore dell'Indie, e, per somma umiliazione, questo protestante, capo di una religione che non è la vera ed al quale un mondo ufficiale che si dice cattolico, per combattere la propria Chiesa, presenta le sue corone, il suo tributo di applausi.

Il mondo fa baccano intorno a questo uomo, che piace per­ché è ben vestito e sfarzosamente accompagnato, e crede che tutto finisca qui quanto vi ha di bello e di grande, non si pensa che sulla cima di monte Mario non si sente, non si distingue più nulla di quanto avviene in città; e tanto meno si pensa che al di sopra di monte Mario, e di tutti i monti della terra dove non si sa nulla delle bagatelle di quaggiù, vi ha un Dio che vede ed ascolta tutto, e dinnanzi al quale tutti questi gaudenti d'oggi, ed anche lui, que­st'uomo, sono come atomi di polvere; un Dio che un giorno li giu­dicherà, e staranno umiliati, annichiliti, schiacciati.
Ah, come è stolto il mondo nei suoi apprezzamenti, come è cieco nei suoi giu­dizi! Lo scintillare di una livrea, un ondeggiare di pennacchio lo commuove, lo mette in visibilio, e nessuno intanto pensa a Dio, se non per offenderlo e per bestemmiarlo, e anche le persone serie si lasciano trascinare, distrarre come gli uomini del secolo.

Anch'io l'ho veduto, questo uomo; ma tutta questa baldo­ria mi ha annoiato, lasciato il cuore scontento. Il rapido passaggio dei cocchi sfarzosi della gran corte delle maestà reali mi ha ricor­dato più evidente il «sic transit gloria mundi» (IC 2.6) e il «va­nitas vanitatum et omnia vanitas» (Qo 1,2).

Eppure questo uomo, tuttoché protestante, qualche cosa di ve­ramente buono l'ha fatto qui in Roma.
E che cosa ha fatto? Ren­dendosi superiore a certe voglie tendenziose dell'anticlericalismo italiano e straniero, egli nel fastigio della sua grandezza non si ver­gognò, anzi se l'ebbe ad onore, di visitare e di chinarsi davanti ad un altro uomo, ad un povero vecchio perseguitato, ma che egli ha riconosciuto siccome più grande di sé: davanti al Papa, al vicario di Gesù Cristo.

E questo fatto oggi è così solenne da segnare una pagina gloriosa nella storia del pontificato romano; fatto altamente figu­rativo, questo, di un re eretico dell'Inghilterra protestante e da più che tre secoli persecutrice della Chiesa cattolica, che va a presenta­re personalmente i suoi omaggi al povero vecchio Papa, tenuto co­me prigioniero in casa sua.

È un segno dei tempi (Mt 16,4) che dopo una notte burrasco­sa si irradiano di una luce novella sorgente dal Vaticano, un ritor­no lento ma vivo e reale delle nazioni in braccia al Padre comune che da tanto tempo le attende, piangendo la loro stoltezza, un trion­fo di Cristo Re che sollevato sulla croce trae un'altra volta a sé tutte le cose (Gv 12,32). E per questo la visita del re Edoardo mentre mi conferma nella vanità dei rumori mondani, mi eccita a ringraziare il buon Dio che tiene le chiavi del cuore umano e, attraverso a tutti gli intrighi del­la politica, trova modo di far risplendere la gloria del suo nome e della sua Chiesa cattolica."
________________________

A seguito di un accordo all'interno del Partito Laburista, dopo dieci anni, da leader del partito e leader governativo, Tony Blair avrebbe dovuto lasciare le consegne a Gordon Brown, in data 24 giugno cedergli la carica di leader laburista e il seguente 27 giugno la carica di Primo Ministro. Nei due ultimi mesi del suo Governo quindi Blair ha pianificato un vero e proprio "tour" mondiale conclusosi con la visita in Vaticano. Sabato 23 giugno 2007 l'uscente premier britannico Tony Blair è stato ricevuto in udienza ufficiale dal Sommo Pontefice.

L'udienza è stata particolarmente attesa dai media a causa delle voci insistenti di una conversione di Blair al credo cattolico professato dalla consorte Charie (e nel quale sono stati battezzati ed allevati i loro figli). Conversione di cui si sarebbe volutamente dare nunzio solo dopo la fine del mandato politico dell'ufficialmente anglicano primo ministro britannico, per non mettere in crisi il proprio Governo -cioè il Governo di sua Maestà Britannica la quale è anche Capo della Chiesa d'Inghilterra- poichè, seppur godendo di un regime democratico, non di meno, costituzionalmente l'Inghilterra è una teocrazia, al pari del'Iran.

Di fronte al tamtam mediatico proprio sabato mattina a Roma, prima di recarsi dal Papa, per la prima volta Blair ha parlato "papale-papale" della sua presunta conversione ai microfoni della Bbc dichiarando che il suo passaggio al cattolicesimo «non è ancora definito». Nel frattempo il Times usciva con un'intervista al medesimo Blair il quale affermava che il passaggio formale alla Chiesa Cattolica Romana è una questione «in sospeso» e altresì "rassicurava" che non ci sarebbe stato un annuncio formale dopo la visita a San Pietro (rassicurando il puritano uditorio britannico che sabato 23 giugno non ci sarà nessuna fumata bianca è che il cardinale protodiacono potrà starsene tranquillamente a casa sua).


Blair è arrivato in Vaticano poco prima delle undici.
Sedutosi alla scrivania della Bibilioteca dell'appartamento pubblico di fronte al candido pontefice che si congratulava per il successo dell'appena conclusosi vertice europeo di Bruxelles, Tony Blair forse un pò disturbato degli insistenti flash dei fotografi pontifici ha confessato al venerando Pontefice: "A volte mi sembra che passiamo tutta la vita sotto i riflettori".
I commentatori vi hanno letto uno sfogo del cuore del pio Tony addolorato per la continua disamina con cui della sua più intima vita spirituale e religiosa si pascolano cinicamente i media.

Singolare anche la dinamica dell'incontro, infatti dopo circa venticinque minuti di colloquio privato tra Pontefice e Primo ministro inglese, e' stato introdotto nella Biblioteca anche il cardinale Murphy O'Connor arcivescovo di Westmister e primate cattolico d'Inghilterra e il colloquio a tre e' proseguito per altri dieci minuti. Solo dopo e' entrata la moglie di Blair e le altre persone del seguito.

"Emblematico" è stato valutato il dono del'uscente Primo ministro britannico: un quadretto con tre foto d'epoca del cardinale John Henry Newman ovvero il più celebre anglicano convertito al cattolicesimo dell'età vittoriana e "padre spirituale" di tutti i successivi "ritorni a Roma" degli anglicani nell'ultimo secolo e mezzo.
Compiaciuta del fatto che il sedici volte Benedetto abbia assi gradito l'omaggio è intervenuta nel dialogo Cherie "la cattolica": "Questa è la firma di Newman!" ha sottolineato la moglie del premier britannico,indicando una firma apposta sopra una delle tre foto.
Benedetto XVI ha contraccambiato con rosari e medaglie del pontificato.

vite parallele /10

"IL TESORETTO" di Brunetto Latini
e di Tommaso Padoa Schioppa .



Ovvero:Ampli stralci di un gustosissimo articolo di Siegmund Ginzberg sul Foglio di sabato 23 giugno 2007.
ALTRO CHE PRODI. PER UN TESORETTO MESSER LATINI FINI’ ALL’INFERNO
Destra e sinistra, giustizia e mercato, politica ed economia. Il poeta che fu maestro di Dante ha scrritto un’opera sulla quale Padoa-Schioppa avrebbe di che riflettere. Il bestseller della crisi perfetta:


"Siete voi qui ser Brunetto?” gli chiede Dante sorpreso incontrandolo nell’Inferno (Canto XV, 30). Ai giorni nostri l’avrebbe potuto incontrare, inferno per inferno, altrove, in una delle bolgie in cui si fa o si discute della politica italiana, magari nel comitato promotore del partito democratico.
No, no, che avete capito? Non per quello. In questo articolo che vi accingete a leggere non si parla di family day, matrimoni gay e pederastia, anche se da qualche tempo si è avuta quasi l’impressione che questi argomenti avessero, come dire, sequestrato la politica italiana. Del resto, non sono così sicuro che Messer Brunetto si trovi all’inferno perché omosessuale.

Leggendo il suo Tresor, nella curatissima, preziosa (anche per il costo) edizione nei Millenni Einaudi, col testo a fronte nell’originale francese (pagine LIX, 890, euro 85), ho avuto piuttosto l’impressione che soffrisse le pene dell’inferno per altre ragioni: perché, dopo aver passato una vita a considerare la politica come la cosa più seria di cui ci si possa occupare, si era accorto che, come si suol dire, la situazione era “grave, gravissima, ma non seria”; e dopo aver passato la vita a dare buoni consigli ai politici, si era reso conto di aver sprecato il suo talento.

“Sieti raccomandato il mio Tesoro/, nel qual io vivo ancora, e più non cheggio”, è il modo in cui alla fine del Canto XV Ser Brunetto si congeda da Dante che era stato suo allievo. Tresor in francese. Tesoretto nella versione italiana, che non è affatto identica, tanto che a lungo fu attribuita ad un altro autore [...].

Sin dall’esordio ci viene spiegato che il libro si chiama “Tesoro” perché raccoglie sapienza in pillole, esattamente come “il signore che vuole accumulare in poco spazio cose di grandissimo valore, non soltanto per il proprio piacere, ma per accrescere la propria potenza e rendere sicuro il proprio stato in guerra e in pace, raccoglie le cose più care e i gioielli più preziosi”.
Si tratta di un’enciclopedia, come ce n’erano molte nel Medioevo, una raccolta, un compendio di conoscenze in pillole, su quasi ogni ramo del sapere del tempo. Qualcuno ha notato: una sorta di Wikipedia di quei tempi, cui anche Dante aveva abbondantemente attinto. Parla di tutto, di anime e corpi, santi e fanti, asini e cammelli, ma anche di zoologia fantastica, alla Borges. A differenza delle altre compilazioni enciclopediche e bestiari, questa ha però un filo conduttore di un’attualità impressionante.
Ecco come, sin dalle prime righe, ci viene anticipato il contenuto delle tre parti in cui il libro si divide.

“La prima parte di questo tesoro è paragonabile al denaro contante, da spendere sempre in cose necessarie; vale a dire che tratta sommariamente del principio del mondo, dell’antichità delle vecchie storie, della composizione del mondo e della natura di tutte le cose…”. Con l’avvertenza che “come senza denaro non ci sarebbe alcuna mediazione tra le opere degli uomini, che regolasse gli uni nei confronti degli altri, similmente nessuno può conoscere pienamente le altre cose se non conosce questa prima parte…”.

Della seconda parte ci viene detto che “è di pietre preziose”, perché “tratta dei vizi e delle virtù… cioè tratta di quali cose si devono e quali non si devono fare, e mostra per quale ragione…”.
Mentre “la terza parte del tesoro è d’oro puro, vale a dire che insegna a parlare… e come il signore deve governare le genti… in particolare secondo gli usi degli italiani”. Con l’avvertenza che “come l’oro supera tutte le specie di metalli, così la scienza del ben parlare e governare gli uomini è la più nobile di ogni arte del mondo” (Tresor, I,1.1-4).

Sa di politica, e sa di economia Messer Brunetto. Il suo “tesoretto” non è quello di cui leggiamo in questi giorni, ma è sorprendentemente più affine agli argomenti dei tempi di Tommaso Padoa-Schioppa che di Tommaso d’Aquino. Scrive di denaro e di economia, e del loro rapporto con la politica in termini che suonano sconvolgentemente moderni, e insieme sanno di antica saggezza senza tempo. State a sentire:
“Il giusto equilibramento dell’amicizia riequilibria i tipi di amicizia che sono diversi, come avviene nelle città; il calzolaio infatti vende le sue scarpe per quanto valgono, e altrettanto fanno gli altri. Tra tutti loro c’è una cosa in comune amata da tutti, per mezzo della quale essi preparano e confermano la transazione, e cioè l’oro e l’argento” (Libro II, capitolo 44,“Qui parla del governo”, paragrafo 18). Scommetto che il vecchio Karl Marx si roderebbe le dita per non aver trovato questa citazione mentre lavorava sul suo grande romanzo del Capitale.

E quest’altra? “Se un uomo canta con la speranza di guadagnare, se gli rendi in cambio del canto non se ne riterrà soddisfatto, perché si aspettava un’altra ricompensa. Non ci sarò dunque concordia nei commerci se questi non sono concordati secondo volontà, e ciò avviene quando ciascuno riceve ciò che desidera in cambio di ciò che dà” (II, 44.21).

Non so se ci sia altro autore pre-moderno tanto convinto che il mercato faccia bene, sia il luogo d’equilibrio per eccellenza.
Sa benissimo che il mercato è un campo di battaglia, in cui ciascuno pensa al proprio interesse, e lo persegue anche a discapito degli altri. E che “essendo un uomo cavaliere, un altro mercante, altri contadini, e recando perciò danno il profitto dell’uno al guadagno dell’altro, nascerebbero odi e guerre, e porterebbero alla rovina l’umanità, se non ci fosse la giustizia a tutelare e difendere la vita in comune ; la giustizia, la cui forza è così grande che quegli stessi che si pascono di fellonia e di torti non possono vivere senza almeno un po’ di giustizia”.
Tutti la vogliono, tutti la chiedono, la giustizia, “anche i ladri che rubano insieme, infatti, vogliono che sia osservata giustizia tra loro e, se il loro capo non spartisce equamente la preda, i suoi compari lo uccideranno o lo abbandoneranno”.
Senza giustizia non funzionerebbe nulla, nemmeno il mercato, ragione per cui, quanto e più ancora che a tutti gli altri, “la giustizia è necessaria a quelli che vendono e comprano, prendono e danno in affitto e si occupano di commercio”.

Ma c’è chi ha osservato che la giustizia di Brunetto Latini non ha la rigidità, la precisione matematica di quella di Aristotele, è una giustizia pragmatica, approssimativa. Una “iustitia mediatrix”, giustizia mediatrice, verrebbe da dire col Kantorowicz. “La giustizia sta a metà tra il guadagnare e il perdere, e non può essere senza un dare, un prendere e uno scambiare”. Ed è così “perché il mercante di stoffe dà stoffa in cambio di un’altra cosa di cui ha bisogno, e il fabbro dà del ferro per un’altra cosa ancora; ed è poiché in quello scambio c’era grande difficoltà che fu inventata una cosa che lo regolasse, cioè il danaro, in modo che l’opera di chi costruisce la casa si possa commisurare in denaro con l’opera del calzolaio” (II, 38.6).
[...]
Nella carretta che trasporta ed espone il tesoro di Ser Brunetto c’è mercanzia per tutti i gusti. Ci sono perle e molta fuffa. C’è il costante invito al “giusto mezzo”, tanto ricorrente e insistente da farlo apparire “cinese”, farmi pensare a Lao Tse e alla sua “via del tao”. “La premiere vertu c’est prudence” si intitola il capitolo 57 del II Libro. “Ancore de prudence”, quello successivo. Poi passa a parlare della “previdenza” (cap. 60) e della “cautela” (cap. 61).
Maestro Brunetto è un “centrista” sfegatato, non un estremista come il suo allievo Dante. E’ un “riformista”, e anche molto cauto e prudente, non un “rivoluzionario”.
Trasuda moderazione da tutti i pori.

“La cautela consiste nel guardarsi dai vizi opposti… seguire in ogni cosa il giusto mezzo; si devono conservare i propri averi in modo tale che, per fuggire l’avarizia, non si diventi poi dissipatori, e ci si deve mantenere tanto lontani dalla stolta temerarietà da non cadere però nella paura, perché è infatti veramente ardito chi intraprende ciò che è da intraprendere, e fugge ciò che è da fuggire, mentre il pauroso non intraprende né l’una né l’altra cosa e lo stolto temerario le intraprende entrambe” (II, 61.1). E’ l’esatto contrario del fanatico, mette in guardia dallo sposare con eccessivo entusiasmo e in modo acritico qualsiasi causa, diffida di tutte, comprese quelle che gli sono care. “Riguardo a ciò che è dubbio non dare giudizi, ma tieni i tuo parere in sospeso, senza definirlo, perché non tutte le cose verosimili sono vere, e non è falsa ogni cosa che sembra incredibile. La verità ha molte volte l’aspetto della menzogna e la menzogna è coperta da una parvenza di verità; perché come l’adulatore copre le sue cattive intenzioni con un atteggiamento accattivante del viso, così la falsità può ricevere il colore e l’aspetto della verità per meglio indurre in errore” (II, 58.3).

Per governare bisogna saper parlare alla gente. Farsi capire è più importante ancora del governare bene.
Sono, dovrebbero essere cose ovvie.
Trovo straordinario però che l’importanza cruciale, per la politica, del saper comunicare l’avesse afferrata già tutta un uomo del 1200.
Ser Brunetto è maestro di retorica, anzi rettorica, con la doppia t, che, come spiega suggestivamente Pietro Beltrami nell’introduzione a questa edizione del Tresor, “non è semplice variante formale di retorica, ma il segno di una sovrapposizione mentale e culturale, che si impone nel Duecento italiano, fra la figura del rètore, di colui che sa pronunciare discorsi persuasivi, e quella del rettore, di colui che ‘regge’, governa il comune”.
[...]
Ser Brunetto è un maestro nell’arte governare e di spiegarsi, della politica come gestione del “bene comune”, e insieme del cimento per “indurre ad unità gli animi molti”; insomma è esperto tutt’uno di politica e scienza della comunicazione, come diremmo oggi.
Allora non c’erano le tv. Non c’erano ancora nemmeno i giornali. Lui conosce due modi per comunicare, per spiegarsi, “due maniere di parlare”: “de boche o par letres”, con la bocca o con le lettere. E li padroneggia entrambi, cavalcando le spalle dei giganti antichi, da Aristotele e Cicerone, ma aggiungendovi anche del suo. Non lo fa gratis. E’ un maestro anche nel vendere i suoi discorsi.
I suoi Tesori e Tesoretti furono innanzitutto anche grandi bestseller della sua epoca, venivano copiati e ricopiati, miniati, trasformati in edizioni di gran lusso, non c’era corte europea degna di rispetto che non sentisse il bisogno di averne almeno una copia, di manoscritti ce ne sono tanti da far perdere la testa agli studiosi, e per giunta diversi tra loro, al punto da dire cose completamente diverse, talvolta opposte, in passaggi cruciali.
[...]
Ser Brunetto non è solo un teorico della politica. E’ un tecnico, un virtuoso, un acrobata. Che da muoversi in una politica che appare per certi versi anche più aggrovigliata di quella cui siamo abituati. Altro che bipartitismo imperfetto: le città di quei tempi sono lacerate da conflitti che si intrecciano tra di loro, in una miriade di sottoconflitti all’interno di quelli che a prima vista potrebbero anche apparire come due schieramenti contrapposti.

Non ci sono solo la destra e la sinistra, il popolo grasso e il popolo minuto, nobili e mercanti, i partigiani del Papa e quelli dell’Imperatore, Guelfi e Ghibellini. Ci si divide a morte anche tra Guelfi bianchi e Guelfi neri, tra le famiglie capeggiate dai Cerchi e quelle capeggiate dai Donati, e all’interno della stessa famiglia. Ci sono guelfi che propugnano l’alleanza con il Papa e l’Angiò, e accusano altri guelfi di tradimento e intelligenza coi ghibellini. Ci sono i poteri forti che si contendono le amicizie politiche, si schierano in base a strategie contrapposte, ci sono cordate di banchieri in concorrenza con altre cordate di banchieri.
Ser Brunetto, notaio, avvocato d’affari, sottile diplomatico, legato a grandi interessi bancari con ambizioni europee, li conosce a menadito, si muove con competenza nella giungla.
[...]
Eppure Li Livres du Tresor è un bestseller datato.
L’originale risale a quando Ser Brunetto, notaio e alto funzionario della repubblica fiorentina, era stato sorpreso, mentre si trovava all’estero, da un improvviso cambio di governo a Firenze. In un momento confuso, in cui si moltiplicavano le candidature al sacro romano impero quasi come sembrano moltiplicarsi le candidature a leader del partito democratico (ma si potrebbe dire lo stesso per l’altro Polo), l’avevano mandato a svolgere una delicata missione diplomatica presso Alfonso X di Castiglia.
[...]
La Siviglia in cui Ser Brunetto fu ricevuto da Alfonso il Saggio nell’Alcazar, da poco riconquistato ai Mori, era uno dei cuori pulsanti dell’Europa, un eccezionale laboratorio dove cristiani, ebrei e musulmani collaboravano strettamente. Brunetto ne fu certamente impressionato. E’ possibile che proprio in quella occasione il notaio fiorentino abbia acquisito stimoli culturali, libri e manoscritti che poi avrebbe trasmesso ai suoi migliori allievi.
Forse anche alcune delle “fonti musulmane” della Divina commedia. Che Dante possa essersi ispirato, nell’immaginare il suo viaggio dall’inferno fino al paradiso a uno e l’altro dei molti testi sui viaggi ultraterreni di Maometto...

...grazie anche a tutto quel che aveva appreso a Siviglia, la New York di allora, Brunetto Latini aveva messo momentaneamente da canto la politica e s’era poi messo a scrivere il suo Tesoro. E’ lui stesso a raccontarlo in un passo scherzoso, deliziosamente carico di humour, del Tesoretto, con versi nei quali qualcuno ha addirittura creduto di vedere il modello per l’incipit della della Commedia di Dante: “E poi sança soggiorno/ Ripresi il mio ritorno,/ Tanto che nel paese/ Di terra navarrese, / Venendo per la valle/ Del piano di Roncisvalle,/ Incontrai uno scolaio/ Sovr’un muletto baio/ Che venia da Bolongnia/… Ed io pur domandai/ Novelle di Toscana/ In dolce lingua e piana;/ Ed e’cortesemente/ Mi disse immantinente/ Che Guelfi di Fiorença/ Per mala Provedença/ E per forza di guerra/ Eran fuori de la terra,/ E il dannagio era forte/ Di pregione e di morte”.

I guelfi fiorentini “vennero cacciati fuori dalla città e le loro cose messe a fuoco e fiamme e distrutte” e “con costoro fu cacciato Maestro Brunetto Latini, e per quella guerra era esiliato in Francia quando compose questo libro per amore del suo amico”, il modo in cui la mette nel Tresor (I, 99.1). Comunque la si voglia mettere, sul comico o sul drammatico, in tragoedia o in comoedia, la sostanza è che Ser Brunetto aveva capito al volo che non tirava più aria. Anche questo è una dote non da poco per un leader politico. Non è forse a caso che diversi dei capitoli finali del Tresor siano dedicati all’argomento dell’uscita di scena del leader, non meno importante della sua entrata in scena, al “come il signore deve comportarsi alla fine della sua signoria”, alle “cose che il signore deve fare al termine della sua funzione”, a “come il signore deve trattenersi a rispondere di sé”, cioè di come ad un certo punto deve rendere conto del suo operato e di quello dei suoi (III, 103-104-105).

Altro tratto particolare, che colpisce per la sua attualità, è che il signore di cui parla e dà consigli Ser Brunetto nel suo Tresor, è un signore democraticamente eletto. A differenza del Principe di Machiavelli, del suo potere deve rendere conto a degli elettori, la sua potestà è a termine.

Brunetto Latini si stacca da altri esponenti del pensiero medievale, e dallo stesso Dante, che come è noto invocava la “monarchia”, la leadership pura, il “Veltro” (no, non il Veltroni) salvatore, perché nella democrazia elettiva sembra crederci davvero, anche quando tutto direbbe che non funziona, o non la lasciano funzionare.
Ci crede al punto di forzare, anzi falsificare Aristotele, pur fingendo di farne una semplice traduzione. “Il governo è di tre tipi: il primo è dei re, il secondo è dei buoni, il terzo è dei comuni, il quale è di gran lunga il migliore tra questi altri”, esordisce il capitolo del Tresor in cui “ci dit de signorie”, cioè, si parla del governo. La tripartizone è fedelmente ripresa da Aristotele. La così netta dichiarazione di preferenza per la democrazia, invece è tutta di Ser Brunetto. Si doveva arrivare a Churchill perché in occidente qualcun altro dicesse chiaro e tondo di ritenere la democrazia una pessima forma di governo, tranne per il fatto che tutte le altre sono peggiori.

Ad ogni modo sapeva come e quando mettersi da parte. E forse aveva fiducia nell’alternanza. [...] Persa la partita in politica, Brunetto Latini era tornato a guadagnarsi la vita “nel settore privato”, facendo il notaio tra Parigi e Arras, per i mercanti e finanzieri fiorentini. Ma quando l’alternanza funziona, c’è speranza anche per gli sconfitti. Ridivenuta Firenze nuovamente guelfa, Ser Brunetto vi era tornato, per candidarsi con successo al priorato nel 1287 e poi morirvi, a tarda età, nel 1293, al colmo di onori e prestigio, e al culmine della carriera.
L’“amico” dei tempi dell’esilio, cui aveva dedicato anni prima il Tresor, era l’allora re di Francia Carlo d’Angiò (Anjou).

Il clou della terza parte del Tresor, un modello di lettera, è niente meno che un invito ufficiale, “col comune assenso della città”, al re di Francia perché assuma la signoria (nel testo si dice Roma, ma è chiaro che ci si riferisce a Firenze), con regolare stipendio, “un salario di 10 lire di tornesi”, portandosi dietro “dieci giudici e dodici notai”, “voi e tutto il vostro seguito”, epperò “a vostro rischio per le persone e le cose”, insomma intervenga con le sue truppe in Italia, contro gli eredi dell’imperatore Federico.
[...]
Il Tresor non è “pacifista”, ma ha buoni consigli per tutti, sulla necessità di avere comunque obiettivi chiari, una exit strategy: “In tempo di guerra, quando è necessario combattere, i signori devono in primo luogo cominciare la guerra con l’intenzione di poter vivere in pace dopo il combattimento, senza fare torti (II, 86).
Il problema è che anche chi aveva approvato, o addirittura invocato l’intervento, tende a cambiare idea quando le cose si mettono male. L’entusiasmo per Carlo si erano rapidamente raffreddato, anche per coloro che l’avevano poco prima invocato ed “eletto” salvatore d’Italia. Persino Papa Clemente VI, che lo aveva nominato re di Sicilia e addirittura proprio vicario, si mise a rampognarlo di malgoverno, e di aver disatteso i suoi consigli.

Sotto accusa erano in particolare le sue politiche fiscali, che avevano scontentato tutti. Scoppiarono rivolte contro l’eccesso di tasse. In particolare, la “decima” per finanziare una crociata contro Costantinopoli ortodossa (anziché per la “liberazione” di Gerusalemme musulmana) aveva rovinato la Sicilia. Anche gli amici di un tempo cominciarono a prendere le distanze.

Una copia della prima edizione italiana del Tesoro già dice che è stata scritta da Ser Brunetto “per amor del suo nimico”, anziché “amico” come diceva il Tresor in francese.
Gli danno ormai del tiranno, del “più Nerone che Nerone”, peggio persino dei saraceni: “Tu vero Nerone Neronior, et crudelior saracenis”. Finché con la rivolta dei Vespri siciliani, per i francesi di Carlo si mette davvero male. C’è persino chi ritiene che nei Vespri ci fosse lo zampino di Ser Brunetto.
Faceva finta di essere dalla parte di Carlo “ma in tutte cose al segreto gli fu contrario… acconsentì e diede aiuto e favore al trattato e rubellazione ch’al re Carlo fu fatto dell’isola di Cicilia”, sostiene il Villani.

Se a questo punto volete sapere perché, pur con tutto l’affetto e il rispetto che gli porta, Dante lo manda all’inferno, a rischio di deludervi, vi confesso che non lo so.
[...]
Anche per gli altri, nominati in sua compagnia, di cui ci viene detto che “saper d’alcuno è buono; de li altri fia laudabile tacerci”, e che “tutti fur cherci e letterati grandi e di gran fama, d’un peccato medesimo al mondo lerci”, può far venire in mente Pasolini o l’argomento preti e pedofilia, ma non è accertato che di questo si tratti. C’è chi ha osservato che i nominati occupavano quasi tutti di finanza, quindi Dante che è un po’ moralista potrebbe avercela con loro perché troppo “furbetti” [...].

lunedì, giugno 18, 2007

dei Sepolcri, XVII



Ovvero: L'urne de' -taglie- forti

Dopo aver sentito e letto dell'unanime cordoglio per la morte dello stilista Gianfranco Ferrè il quale ebbe a dichiarare che: suo ideale era una moda "pudica e ieratica", non posso che pubblicamente dolermene del non aver -a suo tempo- esplicitamente elencato il monumento funerario dello stilista nativo di Legnano nella "ucronica basilica ambrosiana" accanto alla "piramide di Gianni Versace e la Sfinge di Donatella Versace; il grande sarcofago di granito (rosso) di Valentino, e soprattutto la doppia tomba di Dolce e Gabbana..."

[Però la immensa moschea milanese, intitolata al Pascià Mohammed Alì Formigoni: il più celebre dei convertiti lombardi (e italiani!), ebbe sorte diversa perchè l'arcivescovo di Milano, l'ascetico cardinale Pierin Silvietto Berlusconi chiese a gran voce che fosse trasformata in chiesa.
E qui iniziarono le polemiche col Vaticano, tanto più sorprendenti se si pensa che al momento della costruzione della moschea lunga 2O0 metri (e larga 130) il Vaticano non aveva fatto alcuna rimostranza!...

...Bisogna sapere che quel sant'uomo del cardinal Berlusconi, leader indiscusso dell'ala progressista del collegio cardinalizio, aveva la fissazione di portare all'onore degli altari la propria antenata: la serva di Dio Veronica Lario (vergine e martire) della quale, appena nominato arcivescovo, aveva aperto il processo di beatificazione!
Il papa Leone Orso Maria I, intuendo che il cardinale mirava a che l'immenso luogo di culto fosse intitolato al culto della sua ava non appena si giungesse alla (ormai data per iminente) beatificazione, diede immediato ordine che se la moschea più grande d'Europa dovesse essere trasformata in chiesa ciò andava fatto subito, senza aspettare non si sà cosa.
Papa Leone Orso Maria diede ordine che la nuova chiesa fosse intitolata a San Luigi Giussani conosciuto anche come "San Luigi l'Illuminatore e il Taumaturgo" universalmente noto anche ai non cristiani come il fondatore dell'ordine delle "Suore della Carità dell'Assunzione": il più grande ordine religioso femminile diffuso in tutti i Continenti e che da poco aveva inglobato al suo interno la congregazione delle suore di Madre Teresa di Calcutta.

Il cardinale, a denti stretti, accettò l'ordine perentorio del Vaticano ma il nuovo Pontefice: il papa Giovanni Paolo Benedetto II si volle attenere alla tradizione che vietava di costruire chiese più grandi della basilica di S. Pietro per cui diede l'ordine di sospendere qualunque funzione liturgica -pena la scomunica!- finchè la (moschea)Basilica non fosse stata accorciata di almeno 30 metri!
I cattolici lombardi fieri della propria peculiarità ambrosiana e consapevoli di avere a che fare con una delle più belle e armoniose architetture della storia dell'arte si dichiararono contrari a qualsiasi demolizione.

Il nuovo papa Sua Santità Giovanni Paolo Gregorio I, volendo risolvere la faccenda senza sconfessare l'operato del predecessore, chiese che la parte finale dell'imponente edificio non venisse demolita ma solo separata dal resto della chiesa per formare una cappella a se stante da trasformare nel Pantheon dei milanesi illustri]

venerdì, giugno 15, 2007

IN MORTE DI GIUSEPPE ALBERIGO

Sive: Pater Sancte, Sic Transit Gloria Mundi !

giovedì, giugno 14, 2007

Historia Ecclesiastica Anglorum, VI



Il criptocattolicesimo di Tony Blair.
Storia, indizi e tempistica di una conversione annunciata.
Ovvero: come sul Foglio di mercoledì 14 giugno Richard Newbury spiega il perchè mai a Londra molti danno il Primo Ministro uscente Tony Blair per convertito al cattolicesimo:

«In Francia c’è una sola religione e cento salse; in Inghilterra una sola salsa e cento religioni” scrisse Voltaire dal suo esilio londinese.
L’Inghilterra ha un libero mercato delle confessioni cristiane: il cattolicesimo irlandese vi è penetrato con l’immigrazione di operai, minatori e scioperanti circa 150 anni fa, esattamente come fecero gli ebrei dell’Europa orientale cinquant’anni dopo e i musulmani, gli indù e i sikh hanno iniziato a fare a partire dagli anni Sessanta del Novecento.
Tra tutti questi, i cattolici irlandesi sono coloro che hanno impiegato più tempo a diventare membri del mondo professionale, della politica e dell’establishment. Al funerale della Regina Madre, cui parteciparono tutte le confessioni, per la prima volta dal funerale di Maria “la sanguinaria” (1558) prese parte anche un sacerdote cattolico: il cardinale d’origine irlandese Cormac Murphy O’Connor.
Per di più, la bara della Regina Madre fu trasportata dalle guardie (irlandesi repubblicane) del reggimento di cui ella stessa era comandante in capo: le Guardie Irlandesi, un reggimento cattolico reclutato nella Repubblica di Irlanda.

La chiesa scozzese è presbiteriana, ma anche qui vi è una minoranza cattolica (venti per cento), anch’essa in gran parte frutto dell’immigrazione irlandese nel XIX secolo: ecco perché a Glasgow il Celtic è cattolico e i Glasgow Rangers sono protestanti.
In Galles, dove la chiesa anglicana non è chiesa di stato, la maggioranza è non conformista, vale a dire, battista, metodista e presbiteriana.
La conversione al cattolicesimo, quindi, non doveva più sembrare un’opportunità per quei Feniani irlandesi che negli anni Ottanta del XIX secolo spararono alla regina Vittoria, misero una bomba nella nuova metropolitana e fecero saltare in aria uffici postali.

E non è certo la stessa cosa che ammettere, come un “left-footer”, un’imbarazzante preferenza sessuale. Comunque, non è al primo posto in una lista di mosse giuste per fare carriera nel Regno Unito.

Il ruolo di Cherie

Anthony Howard, commentatore politico e biografo del cardinale Basil Hume, ritiene che Tony Blair, “una volta dimessosi da primo ministro entrerà ufficialmente nella chiesa cattolica”. E’ stata Cherie Blair a portare il marito nel Partito laburista. Ora, a quanto sembra, è ancora lei a portarlo dentro la chiesa cattolica romana, per quanto il suo cattolicesimo sembri una miscela tra un adottato nazionalismo irlandese, cristalli New Age e mantelline spagnole – come un iberico che indossasse il kilt.

Tony Blair non soltanto ha fatto una scelta cattolica per la propria moglie, ma anche la stessa politica del suo New Labour è stata decisamente “cattolica” nel senso di genericamente universale, ossia una chiesa vasta, la terza via e la concentrazione sui “valori” anziché sull’ideologia. E come il Partito laburista ha fatto fatica a digerire Tony, anche la sua nuova chiesa potrebbe ritenere minaccioso il suo cattolicesimo “inclusivo".

Quando Tony Blair ha iniziato a frequentare la messa cattolica insieme a sua moglie e ai suoi figli, e a ricevere la comunione, il compianto cardinale Basil Hume, arcivescovo di Westminster, gli ha detto che non gli era permesso di farlo. Blair ha risposto accettando il richiamo, ma domandando che cosa avrebbe pensato Nostro Signore o san Paolo di questo divieto.
Una risposta tipicamente protestante. Il concetto chiave della fede protestante è la responsabilità personale diretta nei confronti di Dio. Il concetto fondamentale di quella cattolica è l’obbedienza nei confronti del vicario di Cristo sulla terra.

Nel Consiglio delle chiese di Cambridge, dove vivo, sono rappresentate 22 diverse confessioni ma non i cattolici. Il motivo per cui i cattolici rifiutano di farne parte sta in ciò che fin dall’inizio ha diviso i protestanti dai cattolici: la messa.
Per i cattolici la messa è la ripetizione dei poteri redentori del Cristo sulla croce. Per i protestanti è un agape, una commemorazione del supremo sacrificio compiuto da Cristo per i nostri peccati.

L’uomo che è riuscito a convincere il protestante Paisley e il cattolico McGuinnes a formare un governo insieme in Irlanda del nord può riuscire anche nell’impresa di far quadrare il cerchio nel cuore stesso della Riforma? Oppure sta cercando di ripetere il suo più grande successo politico – la pace in Irlanda – riunificando la cristianità occidentale? O forse, più semplicemente, vuole soltanto andare in chiesa la domenica con sua moglie e i suoi figli, ed è pronto a entrare nel partito/chiesa che gli permette di realizzare questo desiderio?

In Gran Bretagna i partiti non hanno affiliazioni politiche; come disse Alistair Campbell allo stesso Tony Blair che voleva terminare un discorso con la frase “Dio vi benedica tutti”: “Noi non facciamo la parte di Dio!”.
Nelle ultime elezioni i tre candidati alla carica di primo ministro erano un anglicano, un ebreo e un cattolico. Ma la cosa strana era che erano tutti e tre praticanti – fatto piuttosto inconsueto nella storia della Gran Bretagna moderna.

Alla Durham Cathedral School, anglicana, o alla Fettes School (l’Eton scozzese), nella Edimburgo presbiteriana, Blair non mostrò mai alcun interesse per la politica o la religione.
Fu a Oxford, patria dell’anglo-cattolicesimo del XIX secolo o della cosiddetta High Church anglicana, che Blair cadde sotto l’influenza del reverendo Peter Thomson, il quale lo introdusse all’anglicanesimo e anche al socialismo cristiano del filosofo scozzese John MacMurray (autore di “Communitarianism”).
Per qualche tempo, lo studente di legge Blair rimase indeciso se fare il prete o il politico. Quando fece le cresima nella cappella del St. John College, il cristianesimo era per lui come “l’unione tra l’individuo e la comunità”, come la conferma del fatto che “non siamo abbandonati in un impotente isolamento, ma abbiamo un dovere nei confronti di noi stessi e degli altri”. “La santa cena conferma che non cresciamo in completa indipendenza, ma in modo interdipendente”.
L’inclusione di tutti (classi, religioni, generi sessuali) nella comunità, con responsabilità nei confronti degli altri, secondo il principio dei diritti individuali, è il centro vitale che ha spinto verso la politica Tony Blair, definito sarcasticamente come il Vicario di St. Albione.

E’ compito del Converter General della cattedrale cattolica di Westminster verificare queste utili generalizzazioni contro la dottrina cattolica se non si vuole che l’ammissione di Tony sia bocciata dal Catholic Club. Il frate francescano Michael Seed, noto come il prete delle celebrità (ma che sfrutta questi contatti anche per gestire un istituto di carità per i senzatetto, The Passage), ha un passato che piacerebbe a Blair. E’ nato a Manchester nel 1957, figlio di una povera ragazza madre. Ha preso il nome dai suoi genitori adottivi, ma la madre adottiva si è suicidata quando lui aveva appena otto anni. Dopo essere stato sballottato da una famiglia adottiva all’altra, è finito in una scuola per bambini disadattati.
Fu licenziato dal suo primo lavoro in una stazione di servizio autostradale per avere rotto troppe stoviglie, poi da un altro per avere messo a scaldare un bollitore elettrico su una cucina a gas. Il suo viaggio spirituale lo condusse all’Esercito della Salvezza, alla chiesa anglicana e ai battisti. Si accostò al cattolicesimo per la prima volta nel 1974 quando un barbone di un ostello nel quale lavorava gli diede un opuscolo sulle locali organizzazioni cattoliche. Entrò nei frati francescani nel 1979. Dopo un periodo di formazione negli Stati Uniti, nel 1986 divenne cappellano cattolico nell’ospedale di Westminster; poi, nel 1988, fu nominato consigliere ecumenico dell’arcivescovo Hume nella cattedrale di Westminster, proprio quando l’ammissione delle donne al sacerdozio da parte degli anglicani scatenò una corsa del clero anglicano (e spesso sposato) a Roma.

Se davvvero Blair chiederà di entrare nella chiesa cattolica molti si chiederanno il perché di questo “ritardo”. Un ritardo dovuto non soltanto al fatto di non voler mettere alla prova la posizione costituzionale determinata dalla condizione di essere il primo premier cattolico, il quale deve segnalare i candidati per l’episcopato anglicano alla Civil Service Appointments Commission.

La chiesa cattolica e lo stesso Blair ritengono che sarebbe stata un’inutile provocazione.
Ed è vero, se si tiene inoltre conto del fatto che il presbiteriano Gordon Brown ha già detto che vuole rinunciare al compito di raccomandare vescovi alla Regina, mentre il futuro Carlo III ha dichiarato che presterà giuramento a difesa non della chiesa d’Inghilterra ma di tutte le fedi.
Soprattutto, Blair non ha voluto mettere in pericolo la sua più grande eredità: l’accordo di pace in Irlanda del nord. Con una madre irlandese protestante e una moglie cattolica ha un piede su entrambe le sponde.

Ha passato ore a discutere sulla Bibbia con il reverendo Ian Paisley, e altrettante ore a parlare con McGuinnes e Adams per convincerli a fare il miracolo.
Cambiare cappotto improvvisamente avrebbe rischiato di far andare tutta quella faticosa costruzione di fiducia in fumo e sparatorie, anzi, in un terribile inferno.»

mercoledì, giugno 13, 2007

CASTRUM DOLORIS, X

Sive: "Pueri Hebraeorum, portantes ramos olivarum..."



"Padroni in casa altrui" tale è il grido di sdegno che prorompe dall'apocalittico Maurizio Blondet:

«E' successo anche ad un ragazzo ebreo polacco che, di sabato, voleva entrare come al solito nella sua sinagoga di Kazimierz.
Sulla porta, guardie israeliane in borghese ma armate lo hanno respinto senza una parola.
Lui ha chiesto spiegazioni; loro, in silenzio, l'hanno preso a calci.
Accompagnava il ragazzo un amico di famiglia, Mikhail Urbaniak, direttore del «Forum degli ebrei polacchi» e corrispondente dalla Polonia per la European Jewish Press: «Ho visto tutto, il mio amico è stato aggredito brutalmente dagli israeliani, senza alcun motivo. E i turisti israeliani si sono limitati ad assistere alla scena».
Così la notizia di come si comportano le scorte dei turisti della razza eletta è arrivata finalmente sui giornali polacchi.»

«Ilona Dworak-Cousin, che a Gerusalemme dirige l'Associazione di amicizia israelo-polacca, ha scoperto che prima di quei pellegrinaggi (gite scolastiche al costo di 1.400 dollari a persona) gli studenti israeliani vengono forniti di un opuscolo che li istruisce con frasi come: «Dovunque ci troveremo circondati da polacchi. Essi sono complici dell'olocausto».
E ancora: «I polacchi sono i peggiori antisemiti d'Europa».
Gli studenti inoltre girano il Paese, da lager a lager, ermeticamente chiusi nei loro pullman e protetti dalla loro guardie.
Il viaggio non contempla nessuna passeggiata a piedi fra la gente per lo shopping, nessun contatto coi polacchi.
«Essendo le visite così organizzate, gli studenti finiscono per vedere la Polonia solo come una immensa tomba di ebrei, e niente più. Chi organizza questi viaggi ritiene che il contatto con gli abitanti del luogo non abbia senso. Nelle visite ai campi, i ragazzi ascoltano orribili storie familiari sulla persecuzione subìta. Gli studenti vengono indotti a far confusione, a credere che i polacchi siano autori, o complici dello sterminio».
Gli studenti israeliani dunque viaggiano dentro il Muro che il loro regime ha costruito attorno a loro in Terra Santa, portandosi dietro la loro paranoia nazionale.
La Dworak (essa stessa ebrea) racconta che i ragazzi, spesso troppo giovani per visitare un campo di sterminio dopo l'altro, diventano «aggressivi e maleducati» con la popolazione che vedono per lo più da dietro i finestrini dei loro pullman.
E' una politica deliberata di «separazione».
I pullman israeliani che portano i visitatori eletti a vedere la sinagoga di Kazimierz sostano coi motori accesi, per essere sempre pronti alla fuga in caso di attacco.
E benchè la visita alla sinagoga duri una mezz'ora, restano lì a motore acceso per delle ore, perché gli studenti israeliani ricevono la colazione sul pullman, benchè ovviamente Cracovia sia piena di bar e ristoranti.
La giornalista Anna Szulc ha visto le guardie di sicurezza circondare la sinagoga durante le visite, e respingere i passanti, anche gli abitanti del luogo»

«E ben altro ha saputo la giornalista parlando col personale di volo della compagnia di bandiera LOT, che porta molti di questi studenti in visita guidata alla Shoah (30 mila all'anno) in volo da Israele alla Polonia.
Lasciano gli aerei come letamai.
Sono estremamente arroganti, pretenziosi e maleducati.
Una hostess della LOT è stata schiaffeggiata da una ragazzina israeliana perché le aveva fatto aspettare troppo la sua Coca Cola.
Trattano il personale come servi goym, come sono stati evidentemente educati a fare.
Leszek Chorzewski, il capo ufficio stampa della LOT, ammette che i giovani israeliani «sono clienti difficili, esigono molta più attenzione nel servizio, e anche più precauzioni di sicurezza».
A poco a poco, il portavoce ammette che gli agenti di sicurezza sionisti che accompagnano gli insopportabili studenti sono anche più arroganti, gridano secchi ordini, pretendono obbedienza immediata.
Si comportano da padroni.
Anna Szulc ha raccolto la testimonianza di Katarzyna Lazuga, di Poznan, che studia da guida turistica.
Recentemente, mentre seguiva con altre aspiranti un corso pratico in un locale dell'aeroporto e al di là dei vetri sfilava una folla di studenti israeliani appena atterrati, le guardie giudaiche hanno fatto irruzione nella stanza dove si trovava Katarzyna con le altre, e le hanno spinte fuori brutalmente, con ordini secchi e spintoni.
La loro colpa: stavano «fissando» gli studenti della razza eletta, secondo le guardie.
«Non fissateli! Non guardate!».
Negli hotel dove questi eletti alloggiano durante la gita olocaustica, avviene di peggio.
La catena alberghiera polacca System rifiuta ormai ufficialmente gli studenti israeliani.
«Non possiamo permetterci il costo dei danni che provocano i loro soggiorni».
Piccolo elenco dei danni prodotti dai super-uomini: sedie spaccate, pareti sporcate, escrementi umani (super-umani) nei lavabi, negli asciugamani e nei cestini, evidentemente per sfregio dei sub-umani goym.
All'hotel Astoria di Cracovia, anche tappeti bruciati.
Da quando le guardie giudaiche degli «studenti» hanno cominciato ad ordinare ad altri clienti, da loro evidentemente giudicati sospetti, di andarsene dall'albergo, anche l'Astoria ha deciso di rifiutare altri israeliani.»

[Copyright © - EFFEDIEFFE ]

martedì, giugno 12, 2007

Ratione Peccati IV


[dalla relazione del professor Franco Nembrini al Convegno ecclesiale della Diocesi di Roma; Arcibasilica lateranense, lunedì 11 giugno 2007]

«Dante nel Paradiso, interrogato da S. Pietro sulla fede, si sente chiedere: “Quella cara gioia sopra la quale ogni virtù si fonda, dimmi, donde ti venne?”

Perché io potevo desiderare, bambino, di essere come mio papà? Perché presentivo, sapevo che mio papà sapeva le cose che nella via è importante sapere. Sapeva del bene e del male, della verità e della menzogna, della gioia e del dolore, della vita e della morte.
Cioè senza discorsi e senza prediche mi introduceva ad un senso ultimamente positivo dell’esistenza, di tutti gli aspetti della vita. Era la testimonianza vivente di una Verità conosciuta.
Se l’educazione, come dice don Giussani nel Rischio Educativo è “introduzione alla realtà totale, cioè alla realtà fino all’affermazione del suo significato”, bene mio papà faceva esattamente questo.
E questo, mi pare, è proprio ciò che manca ai giovani oggi: sono cresciuti senza che venisse loro offerta questa “ipotesi esplicativa della realtà” e perciò paurosi, trovandosi di fronte a tutto perennemente indecisi, e tristi, e perciò così spesso violenti. Perché, lo sappiamo bene noi adulti: non si può rimanere a lungo tristi senza diventare cattivi.
Ma rendiamoci conto che la tristezza dei figli è figlia della nostra, la loro noia è figlia della nostra.

Ecco, mio padre, lo dico volutamente con un paradosso, ci ha educati perché non aveva il problema di educarci, di convincerci di qualcosa. Lo desiderava, certo, certo pregava per questo, ma era come se ci sfidasse: “io sono felice, vedete la mia vita, vedete se trovate qualcosa di meglio e decidete”. Perseguiva tenacemente la sua santità, non la nostra. Sapeva che santi a nostra volta lo saremmo potuti diventare solo per nostra libera scelta.

Ma questo non è bastato, non è bastato perché si è infilato nel rapporto tra me e loro qualcosa che lo ha incrinato. Avevo 17 anni, e nonostante l’educazione ricevuta in casa si insediò in me il dubbio, lo scetticismo, insomma, andai in crisi, una crisi profonda, di cui soffrivo molto.
La cosa che mi faceva soffrire maggiormente era che il nulla divorava ciò a cui tenevo di più, divorava mio padre e mia madre, i miei fratelli e i miei amici: era un sentimento di inconsistenza della realtà, mi franava tutto addosso.
Guardavo mia madre lavorare in casa e piangevo perché sentivo che qualcosa me la stava portando via, neanche il bene che le volevo reggeva, perdevano di consistenza tutte le cose che mi erano care.

Vissi un anno o due in una crisi molto profonda, abbandonando evidentemente la pratica religiosa, che non mi diceva più niente, anzi, sfidando con cattiveria una mia sorella che nel frattempo aveva incontrato Comunione e Liberazione, dicendole: “Dimmi da che cosa ti avrebbe salvato il Salvatore, da che cosa ti avrebbe redento il Redentore? Siete come gli altri, anzi peggio degli altri, soffrite e morite come gli altri: dove sta la salvezza? Da che cosa ti avrebbe salvato? Quando esci la domenica dalla Messa che cosa puoi dire di te stessa più di quello che posso dire io?”
Non poteva evidentemente dire allora (aveva 19 anni), non poteva rispondermi quello che oggi, risponderemmo insieme: che il di più che Gesù ha portato nella vita è semplicemente l’io, l’io, una persona che prima non c’era, una coscienza di sé e delle cose che prima non c’era, e che era quello che io stavo cercando.»

lunedì, giugno 11, 2007

Pacco, contropacco e contropaccotto /8

Ovvero: Autocefalia canaglia

L'Espresso in edicola venerdì 7 giugno 2007 pubblica un "Colloquio" tra il giornalista Gigi Riva con Sua Beatitudine Crisostomo II Arcivescovo della Chiesa Ortodossa autocefala di Cipro.

Classe 1941, Crisostomo è stato eletto "Arcivescovo di Nuova Giustiniana e di tutta Cipro" il 6 Novembre 2006 dopo aver a lungo ricoperto la carica di Presidente del Santo Sinodo della Chiesa di Cipro in seguito alla grave malattia del predecessore e in tal veste di "locum tenens" nel 2005 ha partecipato ai funerali di Giovanni Paolo II e all’inaugurazione del Pontificato di Benedetto XVI il quale, a sua volta, ha mandato una delegazione ufficiale della Chiesa cattolica alla intronizzazione di Crisostomos II a nuovo capo della Chiesa cipriota.

Arcivescovo Crisostomo II, circola voce che lei sarà il mediatore dell'incontro tra Roma e Mosca. E l'itinerario del suo viaggio del resto è eloquente.

"Una premessa. Ho chiesto io di poter vedere il papa e lo ringrazio per l'opportunità. Noi vogliamo aiutarlo in ogni modo per migliorare la relazione tra le due Chiese perché siamo figli dello stesso Padre. Sarei felice se accettasse l'offerta".

Ci sono, oggi, le condizioni per l'incontro con Alessio II?

"Ogni momento è un buon momento perché lo scopo è quello di fare ciò che è meglio per entrambe le Chiese. È chiaro che si tratta di un incontro che non si organizza in 24 ore. Prima bisogna scambiarsi i delegati, mettere al lavoro i teologi. Insomma, bisogna preparare l'evento perché sia un successo. Io sono pronto a fornire il mio contributo. Farò il possibile per farli incontrare. Loro e le Chiese".

Ha avuto modo di sondare l'opinione di Alessio II al riguardo?

"Gli sono molto vicino e sono suo buon amico. Penso di poter affermare che nemmeno per lui ci sono problemi. Quando si hanno buone intenzioni, gli ostacoli si superano".

Giovanni Paolo II ci provò a superarli, ma si trovò davanti difficoltà insormontabili. Oltretutto passava per essere più favorevole al dialogo interreligioso di papa Ratzinger. Fu lui a promuovere gli incontri di Assisi.

"Durante il pontificato di Giovanni Paolo II l'allora cardinale Ratzinger forse aveva un modo differente di vedere le questioni. Ma nella posizione attuale ha un'altra responsabilità. È il papa. E, non dimentichiamolo, è un papa teologo. Conosce bene la teologia greca e questo aiuta il dialogo tra le Chiese".[...]




Orbene, prendiamo atto e rallegriamoci tutti per l'intraprendenza ecumenica dell'Arcivescovo di Cipro e per la sua costatazione della presente concordia tra tutte le Chiese autocefale.
Nel frattempo Benedetto XVI ha anche nominato un nuovo prefetto della Congregazione delle Chiese orientali in sostituzione di Sua Beatitudine il patriarca siriaco di Antiochia, il siriano Ignace Moussa Daoud.
Recatosi il 9 giugno presso il palazzo della congregazione in via della conciliazione nella festa di sant'Efrem il siro per commemorare il novantesimo della fondazione (per volontà del predecessore Benedetto XV) della congregazione dei cattolici di rito orientale, il sedici volte Benedetto ha dato l' annuncio della nomina del nuovo prefetto nella persona del Sostituto della Segreteria di Stato l'argentino Leonardo Sandri.
Sarebbe malignità pensare che questo sia per Sandri un dorato pensionamento al pari della nomina del Sostituto agli affari esteri Jean-Lous Touran a Cardinale Bibliotecario.
D'altronde non è abituale (vedi Ratzinger e Sodano) che quando un capo dicastero presenti la domanda di dimissioni al compimento dei settantacinque anni, come prevede la legge canonica, queste vengano rapidamente accettate. Forse il cardinale Daoud soffre di problemi di salute, forse preferisce tornarsene in Siria (ma che compito pastorale può avere un Patriarca "emerito"?) o, forse, proprio per la presente accellerzione del dialogo con le Chiese ortodosse, la presenza ai vertici dell Curia Romana di uno di quelli che gli ortodossi chiamano spegiativamente un "uniate" può essere un ostacolo al dialogo, e non solo un ostacolo psicologico: si ricordi che per concedere il placet al viaggio di Giovanni Paolo II ad Atene la Chiesa autocefala ellenica pretese espressamente che il cardinale Ignazio Moussa Daoud non facesse parte del seguito papale!

Probabilmente il sedici volte Benedetto si augura che un monsignore rotto a tutte le sottigliezze della concertazione diplomatiche sia assai più adatto a trattare con le chiese ortodosse e con gli stati ortodossi poichè spesso nei paesi dell'est europeo lo sciovinismo nazionalistico rende i due elementi inseparabili.


A dispetto dell'ottimismo del buon Crisostomo di Cipro, dalla Russia ha cominciato a soffiare un vento gelido "preventivo" per bocca del solito Hilarion Alfeyev Vescovo ortodosso di Vienna e dell’Austria ( nonchè rappresentante del patriarcato di Mosca presso la Comunità Europea).

In un'intervista rilasciata venerdì 8 giugno sua eccellenza Hilarion paventa il "pericolo" di un accordo tra Cattolicesimo ed Ortodossia:

“La nostra affermazione principale è questa: il primato nella Chiesa è necessario, anche a livello universale, ma a livello della Chiesa universale non può essere primato di giurisdizione, ma solo primato d’onore”, ha detto in un’intervista all’agenzia “Interfax”.

“Storicamente, il primato del Vescovo di Roma nella Chiesa cristiana, dal nostro punto di vista, era quello dell’onore, non della giurisdizione – ha spiegato –. Ciò vuol dire che la giurisdizione del Papa di Roma non è mai stata applicata a tutte le Chiese”.

“Nel secondo millennio, il Papa di Roma è diventato de facto ‘il Patriarca d’Occidente’, con questo titolo riservatogli anche de jure fino ai tempi recenti, mentre nell’Est la Chiesa era guidata da quattro Patriarchi di Chiese ortodosse locali – quelli di Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme”.

Dopo la rottura con Roma, il primato nella famiglia delle Chiese ortodosse si è spostato automaticamente a Costantinopoli, anche se i canoni delle origini ascrivono al Vescovo di Costantinopoli il secondo posto dopo il Vescovo di Roma.

A proposito del primato “non possono esserci compromessi di sorta”, ha affermato ancora il Vescovo Alfeyev.

“Lo scopo del dialogo teologico non è affatto raggiungere un compromesso – ha osservato –. Il suo obiettivo per noi è piuttosto identificare la visione originale della Chiesa del primato del Vescovo di Roma”.


Mi chiedo quando il vescovo Hilarion vorrà aprire un serio dibattito teologico per chiarire il ruolo del Patriarcato di Mosca durante il primo millennio dell'era cristiana!