sabato, dicembre 29, 2007

Pro Missa Bene Cantata [5]

Sive: Non nobis! non nobis Domine! sed Nomini Tuum da gloriam!

Monsignor Piero Marini (presidente del pontificio comitato per i Congressi Eucaristici Internazionali) che dal 1987 al 2007 è stato il "Maestro delle Cerimonie pontificie" cioè l'organizzatore ed il regista per vent'anni di tutte le cerimonie religiose presiedute da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI, da "principe dei liturgisti", quale egli si considera, ha messo per iscritto le proprie riflessione sullo "spirito della liturgia".

Dato alle stampe (curiosamente) solo in lingua inglese per i tipi della Liturgical Press, "A challenging Reform" cioè "Una riforma che pone sfide", in data 14 dicembre 2007 in quel di Londra, del tomo è stata fatta solenne presentazione presso la residenza ufficiale del cardinale arcivescovo di Westminster, alla presenza dell'autore e dello stesso padrone di casa cardinal Murphy O’Connor e di una pletora di eccellentissimi ecclesiastici.

Nel suo intervento Monsignor Piero Marini ha sostenuto "la temeraria dottrina" secondo la quale: i padri conciliari del Vaticano II approvando prima di ogni altro documento la costituzione liturgica "Sacrosantum Concilium" lo fecero perchè per loro «la riforma liturgica non era intesa o applicata solo come riforma di alcuni riti» ma «la base e l’ispirazione degli obiettivi per cui il Concilio era stato convocato».


Joseph Ratzinger, che al Concilio Vaticano II partecipò come teologo personale del cardinale Joseph Frings, arcivescovo di Colonia, descrive in modo molto diverso il perchè si decise di iniziare i dibattiti conciliari con lo schema sulla liturgia. Il "rinnovamento liturgico" era considerato -in primis dalla Curia Romana- l'argomento in assoluto che avrebbe creato meno scontro e polemiche tra i padri conciliari:

"Il Papa aveva indicato solo in termini molto generali la sua intenzione riguardo al Concilio lasciando ai Padri uno spazio quasi illimitato per la concreta configurazione: la fede doveva tornare a parlare a questo tempo in modo nuovo, mantenendo pienamente l’identità dei suoi contenuti, e, dopo un periodo in cui ci si era preoccupati di fare definizioni restando su posizioni difensive, non si doveva più condannare, ma “usare la medicina della misericordia”. C’era, certo, un tacito consenso circa il fatto che la Chiesa sarebbe stato il tema principale dell’adunanza conciliare, che in tal modo avrebbe ripreso e portato a termine il cammino del concilio Vaticano I, precocemente interrotto a causa della guerra franco-prussiana del 1870. I cardinali Montini e Suenens predisposero dei piani per un impianto teologico di vasto respiro dei lavori conciliari, in cui il tema “Chiesa” doveva essere articolato nelle questioni “Chiesa ad intra” e “Chiesa ad extra”.
La seconda articolazione tematica doveva permettere di affrontare le grandi questioni del presente dal punto di vista del rapporto Chiesa-mondo.

Per la maggioranza dei padri conciliari la riforma proposta dal movimento liturgico non costituiva una priorità, anzi per molti di loro essa non era nemmeno un tema da trattare. Per esempio, il cardinale Montini, che poi come Paolo VI sarebbe divenuto il vero papa del Concilio, presentando una sua sintesi tematica all’inizio dei lavori conciliari aveva detto con chiarezza di non riuscire a trovare qui alcun compito essenziale per il Concilio. La liturgia e la sua riforma erano divenute, dalla fine della prima guerra mondiale, una questione pressante solo in Francia e in Germania, e più precisamente nella prospettiva di una restaurazione la più pura possibile dell’antica liturgia romana; a ciò si aggiungeva anche l’esigenza di una partecipazione attiva del popolo all’evento liturgico. Questi due paesi, allora teologicamente in primo piano (a cui bisognava ovviamente associare il Belgio e l’Olanda), nella fase preparatoria erano riusciti a ottenere che venisse elaborato uno schema sulla sacra liturgia, che si inseriva piuttosto naturalmente nella tematica generale della Chiesa. Che, poi, questo testo sia stato il primo a essere esaminato dal Concilio non dipese per nulla da un accresciuto interesse per la questione liturgica da parte della maggioranza dei Padri, ma dal fatto che qui non si prevedevano grosse polemiche e che il tutto veniva in qualche modo considerato come oggetto di un’esercitazione, in cui si potevano apprendere e sperimentare i metodi di lavoro del Concilio.

A nessuno dei Padri sarebbe venuto in mente di vedere in questo testo una “rivoluzione”, che avrebbe significato “la fine del medioevo”, come nel frattempo alcuni teologi hanno ritenuto di dover interpretare. Il tutto, poi, era visto come una continuazione delle riforme avviate da Pio X e portate avanti, con prudenza, ma anche con risolutezza, da Pio XII. Le norme generali come “i libri liturgici siano riveduti quanto prima” (n. 25) intendevano appunto dire: in piena continuità con quello sviluppo che vi è sempre stato e che con i pontefici Pio X e Pio XII si è configurato come riscoperta delle classiche tradizioni romane. Ciò comportava naturalmente anche il superamento di alcune tendenze della liturgia barocca e della pietà devozionale del secolo XIX, promuovendo una sobria sottolineatura della centralità del mistero della presenza di Cristo nella sua Chiesa.
In questo contesto non sorprende che la “messa normativa”, che doveva subentrare all’Ordo missae precedente, e di fatto poi vi subentrò – venne respinta dalla maggioranza dei Padri convocati in un sinodo speciale nel 1967.


Che poi, alcuni (o molti?) liturgisti, che erano presenti come consulenti, avessero fin dal principio intenzioni che andavano molto più in là, oggi lo si può dedurre da certe loro pubblicazioni; sicuramente, essi però non avrebbero avuto il consenso dei Padri conciliari a questi loro desideri. In ogni caso di essi non si parla nel testo del Concilio, anche se in seguito si è cercato di trovarne a posteriori le tracce in alcune delle norme generali.

Il dibattito sulla liturgia fu tranquillo e procedette senza vere tensioni. Vi fu, invece, uno scontro drammatico quando venne presentato per la discussione il documento sulle fonti della rivelazione."

giovedì, dicembre 27, 2007

CASTRUM DOLORIS XII



Entrando nella (già "patriarcale") Basilica romana di Santa Maria Maggiore, definita molto suggestivamente quale "il più antico santuario dela Madre di Dio in Occidente", si è presi dalla profonda impressione di star respirando un'arcaico profumo di cristiana devozione che quasi trasuda dai marmi secolari impregnati dall'incenso delle liturgie che, nell'augusta e più solenne Aula Regia edificata in onore della Madre di Dio nell'Urbe, quotidianamente si susseguono da quando, intorno all'anno 440, la basilica fu donata "al popolo di Dio" per opera della devozione mariana di papa Sisto III (come si legge al vertice del mosaico dell'arco trionfale).

La motivazione prossima dell'erigenda basilica fu quella di rimarcare da parte della Chiesa di Roma la dichiarazioni dogmatiche del Concilio di Efeso del 431, cioè che essendo la persona umana di Gesù di Nazaret, che fu partorito a Betlemme dalla Vergina Maria, la stessa e medesima eterna Seconda Persona della Santissima Trinità ciò significa che veramente (e non solo metaforicamente o per analogia) la madre di Gesù è realmente "Madre-di-Dio".

La basilica sorse sulle rovine di una più piccola chiesa edificata dal Papa Liberio, secondo la nota tradizione nel luogo di una miracolosa nevicata avvenuta sulla cima del colle Esquilino il 5 agosto dell'anno 351 : da qui l'origine della devozione e del culto per la "Madonna della neve".
Il nuovo tempio cristiano fu adornato con le colonne ioniche di marmo pario che originariamente formavano il peristilio del vicino tempio di Giunone Lucina: ovvero la dea romana protrettrice delle partorienti.

Ben presto nella devozione popolare così come del cerimoniale pontificio la chiesa "maggiore" della Vergine Maria in Roma divenne la Betlemme dell'Urbe in cui solennemente si recavano i pontefici il 24 dicembre per presiedere la solenne messa della vigilia di Natale.

Il Liber Pontificalis narra che a causa dell' invasione persiana della Palestina i monaci della Basilica della Natività di Betlemme, per salvare la reliquia della magiatoia in cui era nato Gesù Cristo da sicura distruzione, pensarono bene di mandarla al papa Teodoro I (642-649) già monaco "greco" che prima di giungere a Roma era vissuto presso la comunità cenobitica di Betlemme.
Quei monaci non potevano certo sospettare che dalle distruzione capillare di tutti i santuari cristiani di Terra Santa i persiani avrebbero risparmiato solo la loro Basilica della Natività poichè profondamente impressionati dal mosaico, all'ora presente sulla facciata, che raffigurava i Magi venuti da Oriente abbigliati alla maniera dei sacerdoti persiani del culto di Zoroastro.


Giunta che fu a Roma papa Teodoro ritenne conveniente destinare la reliquia della mangiatoia (per essere archeologicamente più esatti trattasi di parte di una antichissima culla di legno d'acero!) alla chiesa della "Madre di Dio". Perciò nel medioevo la basilica romana fu universalmente nota come Sancta Maria "ad praesepe" cioè Santa Maria presso la mangiatoia.

Difficile districare la storia sacra dalle pie leggende, difficile provare che fu l'arrivo della reliquia a fare di Santa Maria Maggiore un luogo natalizio per antonomasia o fu il contrario come invece sostengono gli antichi agiografi. Il fatto è che nella basilica vi era un precipuo altare su cui i Papi pontificavano la notte di Natale; esso era rivolto ad oriente e racchiuso in un piccolo sacello tutto adorno di sassolini strapati dalla grotta sottostante la basilica di Betlemme e portati a Roma dai pellegrini di ritono dai luoghi santi.
L'altare papale di Santa Maria Maggiore non era nè al centro del presbiterio ne tanto meno "verso il popolo" poichè l'altare era rivolto a quell'Oriente da cui - come dice il vangelo di San Luca- "sorge un sole per illuminare quelli che stanno nelle tenebre e nell'ombra di morte".


Fino alla fine del quattrocento, all'epoca di papa Sisto IV (1471-84) Santa Maria Maggiore non ebbe un altare al centro del presbiterio ma in compenso ne aveva ben due, uno di fronte all'altro ai lati della navata centrale, esattamente dove adesso si aprono i due grandi arconi che, interrompendo il ritmico succedersi delle due file di colonne, immettono alle due grandi cappelle laterali: la Cappella funeraria di Sisto V (del Santissimo Sacramento) e quella di Paolo V Borghese (dedicata alla Madonna "Salus populi romani").

I due altari erano stati in epoca gotica sormontati da due ciborii, certamente simili seppur più piccoli del ciborio che ancora sovrasta l'altare papale di San Giovanni in Laterano (e simili allo scomparso altare della Veronica nell'antica basilica vaticana).
Mentre il ciborio lateranense regge un tabernacolo ogivale che conserva busti reliquiarii dei due apostoli fondatori della Chiesa di Roma, similmente, nella "basilica liberiana" sopra ad un ciborio era conservata l'icona "Salus populi romani" veneratissima nel medioevo e la cui ostenzione al popolo romano era sempre salutato quale un grande evento. Sopra l'altro altare, l'altare del presepe, era il gotico tabernacolo che conteneva la cassa reliquiario della mangiatoia. Questo tabernacolo veniva aperto solo durante le festività natalizie e la cassa veniva solennemente calata per gli atti di venerazione.
La parte inferiore di questo ciborio che inglobava l'altare papale non deve essere immaginato come uno spazio aperto, a differenza degli altri ciborii dell'epoca, ma esso era chiuso quasi a formare una piccola stanza, anzi una grotta per via delle pietruzze che adornavano i muri.

Papa Niccolò IV nel 1288 incaricò ad Arnolfo di Cambio di adornare la parete di fronte dell'altare del presepe in Santa Maria Maggiore proprio con una raffigurazione scultorea della Natività. Essa è nota come "il primo presepe della storia" perchè mai fino ad all'ora la scena del Natale di Gesù era stata raffiguato per mezzo di sculture (cosa che invece per noi moderni parrebbe lapalissiana).
In realtà si trattava non di "statuine" a tutto tondo ma di un altorilievo marmoreo raffigurante l'ingresso dei tre Magi in una stanza in cui si trova San Giuseppe, il bue e l'asinello e Maria col Bambino. La scultura marmorea era dipinta e decorata con intarsi a mosaico.
In un unico monumento erano racchiusi, pertanto, tre venerandi manufatti in perfetto dialogo armonico: in alto il reliquiario della mangiatoia (in cui sarebbe nato il Redentore), perpendicolarmente in basso l'antico altare su cui i pontefici annualmente ne commmeravano solennemente il ricordo avendo di fronte agli occhi una delle più antiche raffigurazioni della Natività stessa.

L'equilibrio artistico devozionale fu rotto da Papa Sisto V (1585-90), papa urbanista che diede ordine al proprio architetto Domenico Fontana di erigere al lato della basilica paleocristiana una vasta cappella a croce greca sormontata da un'alta cupola. La novella cappella "Sistina" doveva soddisfare a tre finalità: essere cappella funeraria del pontefice regnante, essere Cappella per il culto del Santissimo Sacramento (in omaggio ai decreti tridentini), essere nuovo sacrario per la reliquia della Natività.


Ai piedi del nuovo altare venne scavata una piccola cripta che nella mente del pontefice sarebbe dovuto essere il nuovo sacrario per conservare l' altare medievale del presepe.
Domenico Fontana, cui era riuscito di progettare e realizzare lo spostamento dell'obelisco vaticano dal lato della basilica di san Pietro al centro della piazza, progettò un sistema per segare i marmi, staccare e trasportare in un'unico blocco l'antico altare ed il presepe di Arnolfo nella cripta della vicina cappella di Sisto V. Il trasporto si rivelò più difficoltoso e rovinoso del previsto ed il presepe di Arnolfo di Cambio andò in frantumi.


L'antico altare cosmatesco su cui per secoli i papi avevano celebrato e, nei tempi moderni, davanti al quale San Gaetano ebbe l'apparizione della Vergine che gli poneva il Bambinello tra le braccia dopo avervi celebrato la propria prima messa il 6 gennaio 1517; lo stesso altare che aveva visto celebrare la prima messa sant'Ignazio di Loyola nella Notte di natale del 1538, venne posto nella nuova cripta. Per pala d'altare venne scolpita una moderna natività per nulla rispondente al modello antico mentre i personaggi del presepe di Arnolfo di Cambio, ridotti a statuine, furono posti quasi come reliquie in un vano rettangolare scavato nel muro del corridoio che gira attorno alla nuova cripta.



Venti anni dopo papa Sisto, Papa Paolo V Borghese fece edificare una cappella gemella per meglio onorare l'antica icona della Vegine "Salus populi Romani". Questa, calata per l'ultima volta dal tabernacolo gotico, il 27 gennaio 1613 venne portata processionalmente per le vie di Roma e al suo ritorno in basilica sistemata al centro del maestoso altare della Cappella Paolina.

Quasi cento cinquantanni dopo la basilica divenne nuovamente un cantiere per volontà di Papa Benedetto XIV che, in vista del giubileo del 1750, affidò all'architetto Ferdinando Fuga il "restauro" esterno ed interno del vetusto edificio. Il Fuga pertanto si ripropose di ridisegnare l'assetto del presbiterio. e fece abbattere tutti e tre i ciborii per erigere sopra quattro grandi colonne di granito rosso un magniloquente baldacchino roccocò di preziosi marmi e bronzi dorati.


Per la cassa reliquiario della mangiatoia non venne trovata alcuna nuova collocazione nella rimodernata basilica, pertanto essa venne spostata in un ambiente della Sacrestria dalla quale usciva per essere esposta alla venerazione dei fedeli durante il Tempo Natalizio per poi tornare ad essere negletta per il resto dell'anno. Solo la sensibile indole religiosa di Pio IX venne a porvi rimedio col riproporre in forme maestose la stessa idea di Sisto V. Papa Mastai, infatti, diede ordine al proprio architetto Virgilio Vespignani di scavare davanti all'altare maggiore una "Confessione" cioè una cripta sul modello di quelle presente in San Pietro (e in altre basiliche) per conservarvi le reliquie della mangiatoia che nel frattempo erano state composte in un artistico reliquiario in cristallo ed argento dorato della scuola del Valadier.
La "Confessione" riccamente decorata da intarsi marmorei e pietre dure, fu inaugurata nel 1864 da papa Pio IX. Non senza giusto motivo ivi, di fronte all'altare della Sacra Culla venne poi posto il monumento funerario di Pio IX. Raffigurato in atteggiamento orante l'immagine di Papa Mastai Ferretti indirizza verso il reliquiario la curiosità del turista e l'attenzione del pellegrino.



Ma se nell'ipogeo sotto l'altare papale della basilica di Santa Maria Maggiore il Natale dura tutto l'anno ecco che proprio tra il 24 dicembre ed il 6 gennaio il reliquiario viene solennemente traslato nella sovrastante aula basilicale per un particolare atto di venerazione ed omaggio alla "memoria" del presepe in cui nacque Gesù Cristo.

Il Capitolo liberiano, ovvero i monsignori che formano il clero della basilica di S. Maria Maggiore, nella Natività del Signore dell'anno 2007 dell'Incarnazione ha decretato di non traslare la reliquia a causa degli evidenti segni di "un preoccupante deterioramento" sia dell'urna reliquiario sia del legno contenutovi. Si è voluto non sottoporre il reliquiario agli inevitabili scossoni ed a sbalzi termici. Monsignor Franco Gualdrini, prefetto della sagrestia di Santa Maria Maggiore, ha spiegato che il reliquiario del Valadier risulta seriamente "compromesso" e abbisogna di urgente restauro mentre le cinque assicelle di di legno d'acero appartenenti ad una culla del I secolo circa si stanno sbriciolando: "ci siamo accorti che era necessario un lavoro di analisi e di restauro di questo oggetto tanto caro alla pietà dei romani e di tutti i cristiani".

I fedeli che la notte di Natale 2007 hanno partecipato al solenne pontificale in Santa Maria Maggiore, non potendo venerare la Sacra Culla, hanno avuto la specialissima e singolare possibilità di venerare un'altra reliquia della Natività da moltissimo tempo tolta alla venerazione dei fedeli: il "Panniculum Chisti", il "pannolino" di Gesù. Conservato in un prezioso reliquiario (sempre dono di Pio IX!) trattasi di un brandello di stoffa, di circa 20x15 cm che, secondo la medievale tradizione, sarebbe una piccola porzione delle fasce con cui Maria ha avvolto Gesù Bambino prima di porlo nella mangiatoia.

mercoledì, dicembre 19, 2007

La Ceremonia del Besamanos [2]


Ovvero : ...entre todas las mujeres!


Rute è un piccolo "pueblo" andaluso in provincia di Cordova che nell'ultimo trimestre dell'anno ospita una fiera del cioccolato intitolata "Belèn de chocolate" (una Betlemme di cioccolato!): la fiera dolciaria, infatti, si conclude alla vigilia di Natale.
Per circa tre mesi gli andalusi, e gli spagnoli tutti, sono perciò invogliati a visitare la cittadina di Rute mercè il dolce richiamo delle artistiche sculture ed architetture di grandi presepi rigotosamente realizzate col cioccolato.
Ogni anno c'è anche l'usanza di realizzare una statua di cioccolato raffigurante a grandezza naturale un personaggio famoso. Nell'anno di grazia 2007 due maestri cioccolatai -con tre mesi di lavoro!- hanno dato vita alla dolce icona di donna Letizia Ortiz "principessa consorte" delle Asturie.

La consorte dell'erede al trono di Spagna è stata immortalata con l'abito e la pettinatura con cui partecipò (il 14 Maggio 2004) al matrimonio del principe Federico erede al trono di Danimarca.

La perfetta somiglianza tra la Letizia "di Borbone" e la Letizia "di bombòn" non si estende anche al peso poichè "la dolce Letizia" pesa ben 320 chilogrammi!



La muliebre scultura, davanti alla quale sono sfilati quasi processionalmente più di ventimila incuriositi spagnoli, è stata la causa di un forte incremento del numero dei visitatori della già nota mostra dolciaria.
La statua di cioccolato non è però stata messa in vendita, nonostante non siano mancate richieste al riguardo.
Gli organizzatori dell'evento hanno puntualizzato che è tradizione che la annuale scultura in cioccolato venga poi fusa per farne dono ai bambini durante le festività carnascialesche.


lunedì, dicembre 17, 2007

Parole sante, Signora mia! 5


Ad un anno dall'uscita del suo famigerato libro sul "Quarto segreto di Fatima" il buon Antonio Socci "appare" (mai termine fu più azzeccato!) sempre più convinto che la nostra epoca sia un'epoca: di grandi calamità, di grandi sconvolgimenti, di grandi destabilizzazioni, ma anche sia al contempo epoca di "magni" pontefici al timone della mistica navicella della Chiesa. Ovvero, sia un'epoca in cui -come sempre!- il soprannaturale vuole entrare prepotentemente nella storia feriale per trasfigurarla in storia sacra.

In un suo appassionato (e meno apocalittico del solito) articolo -su Libero di venerdì 14 dicembre 2007- il buon Socci esprime tutto il proprio giubilante stupore, nonchè intimo compiacimento, nel sottolineare e rimarcare doviziosamente le espressioni usate nell'omelia di sabato 8 dicembre 2007 dall'Emimentissimo Ivan Dias, delegato pontificio all'apertura delllo speciale giubileo per il centocinquantesimo anniversario delle apparizioni di Lourdes.

Così ci istruisce il buon Socci:

"Si tratta delle apparizioni della Madonna a Bernadette Soubirous, che iniziarono l'11 febbraio 1858. Nella solenne circostanza l'inviato del Papa ha portato «il saluto molto cordiale di Sua Santità» e poi ha detto: «La Madonna è scesa dal Cielo come una madre molto preoccupata per i suoi figli... È apparsa alla Grotta di Massabielle che all'epoca era una palude dove pascolavano i maiali ed è precisamente là che ha voluto far sorgere un santuario, per indicare che la grazia e la misericordia di Dio superano la miserabile palude dei peccati umani. Nel luogo vicino alle apparizioni, la Vergine ha fatto sgorgare una sorgente di acqua abbondante e pura, che i pellegrini bevono e portano nel mondo intero significando il desiderio della nostra tenera Madre di far arrivare il suo amore e la salvezza di suo Figlio fino all'estremità della terra. Infine, da questa Grotta benedetta la Vergine Maria ha lanciato una chiamata pressante a tutti per pregare e fare penitenza e così ottenere la conversione dei poveri peccatori». Il cardinale ha inquadrato queste apparizioni nel «contesto della lotta permanente, e senza esclusione di colpi, tra le forze del bene e le forze del male». Una lotta che sembra arrivata, nella nostra generazione, all'epilogo finale, preparato dalla «lunga catena di apparizioni della Madonna» nella modernità, iniziate «nel 1830, a Rue du Bac, a Parigi, dove è stata annunciata l'entrata decisiva della Vergine Maria nel cuore delle ostilità tra lei e il demonio, come è descritto nei libri della Genesi e dell'Apocalisse».

È un vero affresco di teologia della storia quello tracciato dal cardinale che richiama anche Fatima e - ritengo - Medjugorje:
«Dopo le apparizioni di Lourdes, la Madonna non ha smesso di manifestare nel mondo intero le sue vive preoccupazioni materne per la sorte dell'umanità nelle sue diverse apparizioni. Dovunque, ha chiesto preghiere e penitenza per la conversione dei peccatori, perché prevedeva la rovina spirituale di certi Paesi, le sofferenze che il Santo Padre avrebbe subìto, l'indebolimen to generale della fede cristiana, le difficoltà della Chiesa, la venuta dell'Anticristo e i suoi tentativi per sostituire Dio nella vita degli uomini: tentativi che, malgrado i loro successi splendenti, sono destinati tuttavia all'insuccesso».
È una frase breve, ma folgorante questa del prelato: la Madonna è apparsa così frequentemente in questo tempo «perché prevedeva» una grande aposta- sia dalla fede, le persecuzioni alla Chiesa, la sofferenza del Papa e - testualmente - «la venuta dell'Anticristo».
È una frase dirompente che si rifà, evidentemente, alle parole pronunciate dalla Vergine in qualcuna delle apparizioni citate. (...) Nel Nuovo Testamento questa figura non si colloca necessariamente alla fine dei tempi. Gesù stesso preannuncia l'arrivo di «falsi cristi e falsi profeti» capaci di «indurre in errore, se possibile, anche gli eletti» e profetizza «una grande tribolazione», mai vista così terribile nella storia umana (Mt 24, 24). San Paolo spiega che si verificherà l'«apostasia» (2 Tes. 2, 3), ovvero l'abbandono di Dio e della Chiesa, quindi esploderà «la manifestazione dell'uomo iniquo», «il figlio della perdizione», colui che «nella potenza di Satana... si contrappone a Dio» fino a sedersi «nel tempio di Dio, additando se stesso come Dio» (2 Tes. 2, 3-4)..."


"Il cardinale Dias nella clamorosa omelia di sabato spiegava: «Qui, a Lourdes, come dovunque nel mondo, la Vergine Maria sta tessendo un'immensa rete nei suoi figli e figlie spirituali per lanciare una forte offensiva contro le forze del Maligno nel mondo intero, per chiuderlo e preparare così la vittoria finale del suo divin Figlio, Gesù Cristo. La Vergine Maria oggi ci invita ancora una volta a fare parte della sua legione di combattimento contro le forze del male». Il monito di Wojtyla

Il prelato ripete - se non fosse chiaro - che «la lotta tra Dio e il suo nemico è sempre rabbiosa, ancora più oggi che al tempo di Bernadette, 150 anni fa» e «questa battaglia fa delle innumerevoli vittime». Quindi rivela delle parole - forse inedite - pronunciate dal cardinale Karol Wojtyla il 9 novembre 1976, pochi mesi prima di essere eletto Papa: «Ci troviamo oggi di fronte al più grande combattimento che l'umanità abbia mai visto. Non penso che la comunità cristiana l'abbia compreso totalmente. Siamo oggi davanti alla lotta finale tra la Chiesa e le Anti-Chiesa, tra il Vangelo e gli Anti-Vangelo».
Parole clamorose. Un'ulteriore conferma.

Sembra evidente che il Vicario di Cristo e i suoi più stretti collaboratori conoscano qualcosa di più e desiderino preparare i cristiani a quella "lotta finale". I loro ripetuti appelli a rispondere alla chiamata della Madonna sono già sufficienti per riflettere seriamente su ciò che sta accadendo e che accadrà alla Chiesa e al mondo. Un futuro prossimo che noi non conosciamo, ma che, spiega Dias, sarà vittorioso grazie a Maria. Come lei stessa annunciò a Rue du Bac: «Il momento verrà, il pericolo sarà grande, tutto sembrerà perduto. Allora io sarò con voi»."

venerdì, dicembre 14, 2007

CASTRUM DOLORIS, XI



Nella solennità mariana dell'8 dicembre il prefetto della Congregazione per il Clero (il dicastero vaticano che si occupa di monitorare l'universo clero) ovvero il "brasileiro" cardinale Claudio Hummes ha indirizzato ad ogni e singolo vescovo dell'universo mondo una Lettera intorno al tema della "santificazione del Clero".

Si vede che ormai la Congregazione per il Clero ha così tanti problemi nella gestione del materiale umano di propria pertinenza che non sà più (come suol dirsi) a che santo votarsi:
"nella consapevolezza che l’agire consegue all’essere e che l’anima di ogni apostolato è l’intimità divina, si intende avviare un movimento spirituale che, facendo prendere sempre maggior consapevolezza del legame ontologico fra Eucarestia e Sacerdozio e della speciale maternità di Maria nei confronti di tutti i Sacerdoti, dia vita ad una cordata di adorazione perpetua, per la riparazione delle mancanze e per la santificazione dei chierici e ad un nuovo impegno delle anime femminili consacrate affinché, sulla tipologia della Beata Vergine Maria, Madre del Sommo ed Eterno Sacerdote e Socia nella Sua opera di Redenzione, vogliano adottare spiritualmente sacerdoti per aiutarli con l’offerta di sé, l’orazione e la penitenza.

Secondo il dato costante della Tradizione, il mistero e la realtà della Chiesa non si riducono alla struttura gerarchica, alla liturgia, ai sacramenti e agli ordinamenti giuridici. Infatti la natura intima della Chiesa e l’origine prima della sua efficacia santificatrice, vanno ricercate nella mistica unione con Cristo."

"...proprio a partire dal posto occupato e dal ruolo svolto dalla Vergine Santissima, nella storia della salvezza - si intende, in modo tutto particolare, affidare a Maria, la Madre del Sommo ed Eterno Sacerdote, ogni Sacerdote, suscitando, nella Chiesa, un movimento di preghiera che ponga al centro l’adorazione eucaristica continuata, nell’arco delle ventiquattro ore, in modo che, da ogni angolo della terra, sempre si elevi a Dio, incessantemente, una preghiera di adorazione, ringraziamento, lode, domanda e riparazione, con lo scopo precipuo di suscitare un numero sufficiente di sante vocazioni allo stato sacerdotale e, insieme, di accompagnare spiritualmente - al livello di Corpo Mistico -, con una sorta di maternità spirituale, quanti sono già stati chiamati al sacerdozio ministeriale e sono ontologicamente conformati all’unico Sommo ed Eterno Sacerdote, affinché sempre meglio servano a Lui e ai fratelli, come coloro che, ad un tempo, stanno “nella” Chiesa ma, anche, “di fronte” alla Chiesa tenendo le veci di Cristo e, rappresentandoLo, come capo, pastore e sposo della Chiesa.

Si chiede, quindi, a tutti gli Ordinari diocesani che, in modo particolare, avvertono la specificità e l’insostituibilità del ministero ordinato nella vita della Chiesa, insieme all’urgenza di un’azione comune in favore del sacerdozio ministeriale, di farsi parte attiva e di promuovere - nelle differenti porzioni del popolo di Dio loro affidate - , veri e propri cenacoli in cui chierici, religiosi e laici, si dedichino, uniti fra loro e in spirito di vera comunione, alla preghiera, sotto forma di adorazione eucaristica continuata, anche in spirito di genuina e reale riparazione e purificazione."



Non ho dubitato che una tal lettera "allo scopo di promuovere l’adorazione eucaristica in riparazione e per la santificazione del Clero", considerato l'ascetico argomento, avrebbe avuto scarsa risonanza sui mass media poichè molto disgustano argomenti tanto pii alle orecchie degli spiriti carnali. Epperò avrei creduto che avrebbe almeno suscitato "sensazione" il sapere che il mittente di tali richieste ai vescovi e richiamo ai fedeli tutti di vivere la propria fede e devozione in prospettiva altamente mistica non veniva dal capo dei levebriani o dal prelato dell'Opus Dei bensì da colui che dagli esperti di cose vaticane durante il conclave del 2007 veniva additato come il "papabile" più anticonformista, il campione di ogni possibile rinnovamento progressista. Quando, poi, appena giunto a Roma, chiamato dal sedici volte Benedetto per supervisionare l'operato dei preti cattolici sparsi nel mondo, si lasciò sfuggire la massima ovvietà, ovvero che il celibato non è una legge divina ma è una legge ecclesiastica, tutti i mass media furono lesti a suonare rumorosamente la gran cassa del sensazionalismo preannunciando aperture ai preti sposati se non addirittura la possibile abolizione del celibato grazie all'opera del rivoluzionario "compagno" cardinale.

Ecco che poi, quando il progressista Hummes firma un documento in cui invita a costruire gruppi di preghiera che costantemente e continuitamente si riuniscano in adorazione davanti al Santissimo Sacramento per offrire a Gesù "Ostia divina" le proprie preghiere in riparazione ed in espiazione dei peccati del clero... ecco che la macchina masmediatica tace! Eppure i peccati dei preti dovrebbero suscitare sempre molto morboso interesse.


La lettera è accompagnata da un vademecum agiografico in cui si enumerano varii profili di benemeriti ecclesiastici, che dichiararono essere la propria vocazione sacerdotale il frutto delle preghiere di pie donne, assieme a densi ritratti di donne venerabili, beate e sante che ebbero la vocazione di offrirsi per i sacerdoti (mentre ormai sempre più spesso la massima aspirazione di una devota parrocchina è quella di offrirsi al sacerdote).

Il vademecum "Adorazione, riparazione, maternità spirituale per i sacerdoti " così eloquentemente principia:

"Indipendentemente dall’età e dallo stato civile, tutte le donne possono diventare madre spirituale per un sacerdote e non soltanto le madri di famiglia. È possibile anche per una ammalata, per una ragazza nubile o per una vedova.
In maniera particolare questo vale per le missionarie e le religiose che offrono tutta la loro vita a Dio per la santificazione dell’umanità. Giovanni Paolo II ringraziò perfino una bambina per il suo aiuto materno: “Esprimo la mia riconoscenza anche alla beata Giacinta di Fatima per i sacrifici e le preghiere fatte per il Santo Padre, che ella aveva visto tanto soffrire” (13 maggio 2000).

Ogni sacerdote è preceduto da una madre, che non di rado è anche una madre di vita spirituale per i suoi figli. Giuseppe Sarto, per esempio, il futuro Papa Pio X, appena consacrato vescovo, andò a trovare la mamma settantenne. Lei baciò con rispetto l’anello del figlio e all’improvviso, facendosi meditativa, indicò la propria povera fede nuziale d’argento: “Sì, Peppo, però tu adesso non lo porteresti, se io prima non avessi portato questo anello nuziale”.
Giustamente S. Pio X confermava dalla sua esperienza: “Ogni vocazione sacerdotale viene dal cuore di Dio, ma passa attraverso il cuore di una madre!”..."

Una "NOTA EXPLICATIVA" fornisce le indicazioni concrete sulla creazione e strutturazione dei pii sodalizi espiatori.

giovedì, dicembre 13, 2007

Benedictus benedicat V

Aplissimi stralci dall' articolo del filosofo statunitense Lee Harris a commento della Spe salvi" pubblicato dal -sempre "clerical chic"- Foglio di martedì 11 dicembre 2007

"La crisi dell’occidente sta nel non aver più fede in nessuna visione secolarizzata del Regno di Dio"
Ovvero: QUI SI SPIEGA MOLTO BENE L’ENCICLICA



« La recente enciclica “Spe salvi” di Papa Benedetto XVI costituisce l’articolato sviluppo di una dichiarazione fatta da san Paolo nella sua epistola ai Romani: attraverso la speranza noi raggiungiamo la salvezza. Ma è ben più di un semplice commentario sul testo biblico: è una sfida radicale sia al mondo moderno sia alla cristianità, che merita di essere considerata con la massima attenzione non soltanto dai cattolici o dai cristiani ma da chiunque sia interessato al futuro dell’uomo.

Nel discorso di Ratisbona Benedetto aveva parlato della necessità di una critica della modernità; nell’enciclica “Spe salvi” si spinge ancora oltre e sostiene che “bisogna che nell’autocritica dell’età moderna confluisca anche un’autocritica del cristianesimo moderno, che deve sempre imparare di nuovo a comprendere se stesso a partire
dalle proprie radici”.

L’autocritica è un’attività già di per sé profondamente radicata nella speranza. Critichiamo noi stessi nella speranza di diventare migliori. Ciononostante, basta una piccola riflessione per capire che l’autocritica si contrappone agli istinti della natura umana: siamo naturalmente propensi a criticare gli altri e detestiamo essere l’oggetto delle critiche altrui.
Per quale motivo, dunque, dovremmo impegnarci in un’attività così innaturale come l’autocritica?
Basta osservare il corso della storia per rendersi conto che, nel complesso, l’umanità ha mostrato scarso interesse per l’autocritica.
Gli antropologi ci dicono che molte tribù primitive si considerano come i Signori della Creazione, e perciò non sentono alcun bisogno di cambiare alcunché di se stesse – si tratta, in realtà, dello stesso ingenuo narcisismo etico che ha colpito parecchie civiltà superiori, come quella degli antichi greci, che non aveva alcuna idea della nozione di progresso. Chi non vede alcun motivo per essere insoddisfatto di se stesso o dell’ordine sociale in cui vive non ha alcun interesse per il progresso – anzi, è incapace di comprenderne lo stesso concetto.

Secondo Benedetto XVI, un’autocritica dell’era moderna deve cominciare col riconoscimento del fatto che il concetto occidentale di progresso ha le proprie radici più profonde nell’idea della speranza cristiana.
[...]
L’Illuminismo europeo è stato la creazione di uomini e donne che avevano ereditato la speranza cristiana secondo cui un mondo migliore è possibile, e non semplicemente un’utopica illusione. I protagonisti principali dell’illuminismo erano fermamente convinti che il mondo poteva essere radicalmente migliorato e portato persino alla perfezione.
Voltaire, Diderot, Condorcet e Kant non ebbero alcuna difficoltà a condannare gli usi e i costumi di altre culture e a vantare la superiorità della propria. Il relativismo etico e culturale era totalmente estraneo alla loro mentalità, esattamente come il nichilismo etico – anzi avrebbero fatto fatica a individuare una differenza tra il relativismo e il nichilismo. La loro ottimistica fiducia nella possibilità di un futuro migliore era di natura laica, ma non per questo meno intensa dell’ottimismo ultramondano dei primi cristiani.
Tuttavia, come ci ricorda lo stesso Benedetto, il XX secolo ha suonato la campana a morte per le ingenue speranze illuministiche nel progresso laico.
[...]
La crisi dell’occidente contemporaneo, secondo Benedetto XVI, sta nel fatto che non abbiamo più fede in nessuna delle visioni secolarizzate del Regno di Dio. Queste visioni sono state brutalmente mandate in frantumi dalla storia. La grande speranza dell’umanità, sorta nell’Illuminismo europeo, è stata spezzata proprio da coloro che hanno cercato di realizzarla nella rigida sostanza della concreta storia umana. In effetti, molti di noi continuano a parlare come se avessero ancora fede negli ideali dell’Illuminismo; ma il nostro cuore e la nostra anima non vi credono più.

Verso la fine del XIX secolo Nietzsche ha raccontato la sua famosa parabola dell’uomo che un giorno giunge in una città e proclama: “Dio è morto, e siamo stati noi a ucciderlo”.
Gli abitanti della città pensano che sia un pazzo, ma soltanto perché vivono nell’illusione di credere ancora in Dio, quando invece nel loro cuore e nella loro anima non alberga più alcuna fede.

Nel discorso di Ratisbona e nell’enciclica “Spe salvi” Benedetto interpreta il ruolo del pazzo di Nietzsche. Ma il messaggio che annuncia è diverso, ed è in sostanza questo: “L’Illuminismo è morto e siamo stati noi a ucciderlo. Non sappiamo più che cosa sia il progresso e cosa la decadenza. Non sappiamo più qual è la parte giusta della storia e quale la sbagliata. Ci riempiamo la bocca con gli stereotipi dell’Illuminismo, ma non abbiamo più il coraggio di imporre i nostri valori illuminati alle culture che predicano l’intolleranza e l’oscurantismo.
Abbiamo perso completamente la fiducia nelle vecchie teorie del progresso laico. Non sappiamo se stiamo andando avanti o indietro. Non abbiamo più nulla che ci guidi”.

In un mondo traboccante di apocalissi laiche

Se l’occidente moderno era definito dalla sua salda, benché ingenua, certezza nel progresso laico, l’occidente post moderno è caratterizzato dall’eclissi della speranza laica.
Il mondo che sta di fronte alla maggior parte di noi è un mondo di cui abbiamo paura, traboccante di apocalissi laiche, come il riscaldamento globale o il jihad nucleare.
Peggio ancora, è un mondo che si è dimostrato profondamente incapace di redimersi, un mondo che a nostro giudizio non può più essere riparato per mezzo dell’istruzione, della scienza e della tecnologia. Non c’è quindi da stupirsi se a noi risulta così difficile affrontare di petto la morte dell’Illuminismo, perché lascia un vuoto che molti non sanno più come riempire – quel vuoto spirituale che ci rimane quando ci è strappato via l’ultimo barlume di speranza.

Kant disse che c’erano tre grandi questioni. Che cosa posso sapere? Che cosa devo fare? In che cosa posso sperare?

Ma è forse possibile sapere che cosa devo fare se non posso sapere in che cosa posso sperare?
Se sono giunto alla conclusione che non c’è speranza per il mondo, per l’umanità, per il pianeta, a che scopo impegnarsi in qualcosa?
La soluzione più intelligente non sarebbe forse quella di adottare un atteggiamento di assoluto quietismo, rassegnandoci subito a lasciare che avvenga il peggio?

Nei campi di concentramento tedeschi c’era un gruppo di prigionieri che veniva chiamato dagli altri detenuti Muselmänner (ossia, “musulmani”). Gli era stato affibbiato questo appellativo perché avevano completamente perso la volontà di vivere e si erano rassegnati allo spaventoso orrore della propria esistenza. A differenza del condannato a morte, non erano più capaci di sperare contro ogni speranza. Avevano rivolto il viso contro il muro ed erano pronti a morire. La loro patetica condizione è la prova che anche la speranza più disperata, persino la speranza fondata su una pura illusione, è sempre meglio che nessuna speranza.
[...]
Nella sua nuova enciclica, il Papa racconta la commovente storia di Josephine Bakhita, una donna africana presa schiava da bambina, che ebbe una vita altrettanto priva di qualsiasi speranza di quella dei Muselmänner. Ciononostante, Bakhita riuscì a trovare la speranza, nella forma della fede cristiana. Non nella fede sancita nel dogma, ma nella gentilezza dei suoi nuovi padroni italiani, che, a differenza dei suoi precedenti padroni, non la trattarono con crudeltà.
Improvvisamente, Josephine Bakhita poté immaginare un mondo in cui i potenti non maltrattavano i deboli e gli oppressi. Questa rivelazione le diede una speranza che prima non aveva mai avuto – e come avrebbe potuto averla finché qualcuno non gliela avesse offerta soltanto a parole ma anche nei fatti?
Per mezzo di quest’incisiva storia Benedetto XVI ci esorta a cercare un rinnovamento nelle radici storiche della speranza cristiana.

Molto prima della nascita dell’idea del progresso nell’Europa del XVIII secolo, come ci ricorda Benedetto, vi furono schiavi greci e romani che scoprirono la rivelazione della speranza nel comportamento dei primi cristiani.
Benedetto non ha alcuna difficoltà a riconoscere che il cristianesimo era una religione per gli schiavi; anzi, vuole sottolineare proprio questo: il cristianesimo era la sola religione che poteva avere significato per gli schiavi, ossia per coloro che erano privati di ogni speranza. Al contrario, Nietzsche attaccò il cristianesimo proprio per questa ragione: era una religione adatta esclusivamente agli schiavi.

Nietzsche disprezzava il cristianesimo e invocava la rinascita degli ideali eroici della Grecia, incarnati nel suo mito del superuomo. Tuttavia, quando la speranza cristiana apparve sulla scena del mondo antico, l’epoca eroica che Nietzsche ammirava così tanto era già tramontata da tempo. L’energia irriflessiva dell’era eroica era stata sostituita dallo stoicismo e dall’epicureismo, decadenti filosofie di un esaurimento morale, per le quali o si deve sopportare il dolore del mondo (come Epitteto con le sue catene) o si deve rinunciare completamente a esso (come Epicuro nel suo giardino).
Quel che Nietzsche non riusciva a comprendere, era che gli antichi avevano un disperato bisogno della veemente speranza in un mondo migliore che sarebbe venuto con l’avvento della cristianità, esattamente come il nostro mondo d’oggi ha un bisogno disperato di rinnovare quella speranza.

Dal punto di vista spirituale, il mondo odierno ricorda quello antico, nel senso che anche noi cerchiamo di consolarci con filosofie dell’esaurimento etico, come il materialismo e il determinismo, con ideologie, cioè, che sono pensate per giustificare la rassegnazione all’inevitabile e il rifiuto di ogni trascendenza.
Come possiamo sperare di rinascere, se il nostro destino è quello determinato da forze al di fuori del nostro controllo sin dal primo nanosecondo del big bang?

Papa Benedetto crede che il rinnovamento della speranza debba iniziare dal ritorno alle radici storiche della speranza cristiana.

Ma è realistico, data l’attuale crisi della fede?
Se non riusciamo a tradurre la metafora del Regno di Dio in termini laici, come fecero Marx e altri, che bene può rappresentare quella metafora per noi che viviamo in un tempo in cui il sovrannaturale non ha più alcun significato concreto?
Possiamo tornare alla mentalità dei primi cristiani, che attendevano l’imminente venuta di Gesù nella carne, intesa in senso letterale?
Alcuni ci riescono, come testimonia l’esistenza di certe sette come quella dei testimoni di Geova, ma per la maggior parte degli esseri umani moderni la vivida convinzione della Seconda venuta è al di là delle proprie capacità: come avrebbe detto William James, quella speranza per loro non è più un’opzione “viva”.

Oggi la cristianità ha legioni di colti dispregiatori, per usare una felice espressione di Friedrich Schleiermacher, ma ha anche un vasto numero di colti ammiratori. I primi ultimamente hanno ricevuto grande attenzione e i loro libri dispongono di un vivace mercato. I secondi, d’altra parte, spesso parlano con riverenza della tradizione cristiana; a differenza dei colti dispregiatori, riconoscono che la cristianità è stata un’enorme forza di civilizzazione nella storia umana, responsabile dello sviluppo di gran parte degli aspetti della civiltà occidentale di cui siamo più fieri.

Pensano che, nel complesso, essa sia stata una cosa buona, ma non vi ripongono la loro fede. La speranza cristiana è una splendida favola, ed è negli interessi dell’umanità crederci, ma questi suoi dotti ammiratori, nel bene e nel male, non riescono a condividere quella speranza.

Il problema è che nessuna religione può essere tenuta in vita dai sostenitori esterni. Qualcuno deve avere fede.
Qualcuno deve credere davvero nella speranza di un aldilà, di una Seconda venuta, di un Regno di Dio
che miracolosamente guarirà il mondo dalle sofferenze e darà a ciascuno quanto merita secondo le opere compiute durante la vita terrena.
Papa Benedetto l’ha compreso, e il messaggio della “Spe salvi” è un appello coraggioso e radicale a guardare nuovamente al significato più vero della fede cristiana.

Sin dai tempi del teologo danese Søren Kierkegaard è comune parlare di “salto della fede”. Chi sa fare questo salto diventa cristiano, mentre chi non ci riesce rimane dubbioso e non si converte. Tra quelli che non riescono a fare il salto ci potrebbero
essere i dotti ammiratori della cristianità, che si astengono dal frapporre ostacoli sul cammino di chi ci riesce e potrebbero persino lodare la virtù di queste persone straordinariamente dotate. Potrebbero addirittura dire: “Mi piacerebbe riuscire a fare quel salto, ma, sfortunatamente, incontro troppi ostacoli in cui inciampo già prima di raggiungere l’orlo dell’abisso”. E’ questa metafora che Papa Benedetto implicitamente attacca quando dice che la fede è speranza. La speranza ci impone di credere che qualcosa sia possibile, che possa succedere.

Non ci sono salti della speranza, anzi si dice che la speranza nasce, entra nelle nostre vite, che troviamo la speranza, che si vede un barlume di speranza. Non si tratta di un qualcosa che facciamo noi, come il salto della fede, ma di qualcosa che ci viene incontro.
Gli schiavi, nel corso della storia, sono stati estranei alla speranza, come la schiava sudanese Bakhita, che non ha fatto alcun salto della speranza, perché non ne aveva bisogno. La fede le è andata incontro facendosi strada tramite la rivelazione della speranza, che le è giunta da una fonte sino ad allora inattesa.
E’ stato grazie alla speranza che Josephine è stata redenta. Ecco il perché del titolo dell’enciclica, “Spe salvi”, ovvero salvati dalla speranza, e non da un salto della fede, perché quel salto dipende da noi. La speranza invece no.

Tornando alle radici della fede cristiana e ritrovandola nel miracolo della speranza cristiana, Papa Benedetto ci offre un’autocritica della cristianità moderna che è in grado di renderla opzione viva sia per i suoi dotti dispregiatori sia per i colti ammiratori.

A chi non può “accettare” la cristianità perché non riesce a fare il necessario salto di fede, Benedetto XVI dice in realtà: “Io non vi chiedo di saltare oltre un abisso impossibile. Vi invito a riflettere sul miracolo della speranza. La speranza non è un qualcosa di dato. E’ un dono. Sappiamo chi o cosa ringraziare per questo dono?
Sappiamo da dove viene?
No, a queste domande scienza e ragione non offrono risposta.
Guardando alla natura crudele e disperata delle cose, nessuno avrebbe potuto predire che la speranza cristiana sarebbe entrata nel nostro mondo.
Il fatto che noi, che ne beneficiamo tutti, non siamo grati della sua comparsa tra di noi è un segno che abbiamo dimenticato la fonte dei nostri stessi ideali etici, e potremmo persino aver smarrito la comprensione della sua infinita preziosità. Che non siamo più mossi a stupore davanti alla presenza della speranza della luce in un mondo tanto buio è la prova del fatto che corriamo il rischio di lasciar spegnere quella luce”.
[...]

La speranza redime non solo chi la possiede, ma anche chi è stato semplice testimone dei suoi effetti sugli altri.
Se Josephine Bakhita è riuscita a trovare la speranza nella sua vita, questo deve ispirare noi tutti a trovarla nella nostra. Questa è l’essenza della speranza cristiana. Non un solitario salto della fede, ma una gioiosa epifania che ci unisce in una santa comunione. Non un relitto morto del passato, ma una promessa eternamente nuova per il futuro. Nessuno può dire da dove venga, né dirci dove ritrovarla una volta che è svanita ».

martedì, dicembre 11, 2007

Benedictus benedicat IV

Sive: "Spe salvi"



"Hai visto l'ultimo Spiritual Journal?", chiese a voce bassa il numero 1 al numero 2.
Il numero 2 l'aveva appena letto.
"Articolo davvero notevole", disse il numero 1, "quello sul letto di morte del papa".
"Nessuno è irrecuperabile", rispose il numero 2.
"Ne ho sentito parlare, ma non l'ho visto", disse il numero 3.
Pausa.
"Di che cosa parla?" chiese Reding.
"Di papa Sisto XVI", disse il numero 3; "pare che sia morto da credente".
Sensazione. Charles sembrava volerne sapere di più.
"Il Journal la dà per certa, la notizia! disse il numero 2;
"Mr O'Niggins, Presidente della Associazione degli opuscoli, Settore della conversione dei preti romani, era a Roma durante la sua ultima malattia. Chiese un'udienza al papa, che gli fu concessa. Cominciò subito della necessità di cambiare il cuore, di credere nell'unica speranza che hanno i peccatori, e di lasciar perdere ogni mediatore umano. Gli annunciò la buona novella, assicurandogli che era perdonato. Lo mise in guardia contro la fandonia della rigenerazione battesimale; poi, procedendo ad applicare la parola, lo esortò, seppur all'undicesima ora, a ricevere la Bibbia, tutta la Bibbia e null'altro che la Bibbia.
Il papa ascoltava con grande attenzione, mostrando molta emozione. Alla fine espresse a Mr O'Niggins la sua ardente speranza che loro due non sarebbero morti senza trovarsi nella stessa comunione, o qualcosa di simile. Dichiarò inoltre, cosa stupefacente, che poneva tutta la sua speranza in Cristo, "fonte di ogni merito", diceva: espressione davvero notevole".

"In che lingua hanno parlato?", domandò Reding.
"L'articolo non lo dice", rispose il numero 2; "ma sono sicuro che Mr O'Niggings conosce molto bene il francese".
"A me non pare" disse Charles, "che le ammissioni del papa siano più grandi di quelle che fanno continuamente certi membri della nostra Chiesa, che però vengono accusati di papismo".
"Ma a loro vengono estorte", disse Freeborn, "mentre quelle del papa sono volontarie"."Questi qui tornano dentro le tenebre", disse il numero 3; "il papa invece veniva verso la luce".
"Nel papista autentico tutto va interpretato nel senso migliore", disse Freeborn, "ma nel seguace di Pusey tutto va interpretato nel senso peggiore. E' questione di carità e di buon senso".

"Ma non è tutto", proseguì il numero 2; "convocati i cardinali, dichiarò che desiderava dal profondo del cuore la gloria di Dio, che la religione interiore era tutto, e che senza la contrizione del cuore le forme non servivano a niente, e che sperava di essere presto in paradiso - con questa frase, notate, negava la dottrina del purgatorio".
"Salvato in tempo, mi auguro", disse il numero 3.

"S'è detto spesso", disse il numero 4, "anzi, l'idea ha colpito anche me, che il modo migliore per convertire i cattolici romani è quella di convertire per primo il papa".
"Metodo sicuro, nulla da dire", disse Charles sommessamente, temendo di aver detto troppo; ma nessuno colse la sua ironia.

[John Henry Newman, romanzo "Perdita e Guadagno"]

lunedì, dicembre 10, 2007

Il quarto miracolo di Benedetto XVI

Ovvero: "Anche a te una spada trapasserà l'anima, affinchè siano svelati i segreti di molti cuori."



Il 6 novembre 2007, il monarca dell'Arabia Saudita, Sua Maestà Abdullah bin Abdulaziz al-Saud si è recato in Vaticano per incontrare Sua Santità Benedetto XVI per una visita ufficiale.
E' stata la prima volta, non solo che un sovrano saudita incontrasse il Papa di Roma, ma soprattutto la prima volta che colui che si fregia del titolo di "Custode" delle sacre moschee della Mecca e di Medina abbia dialogato con la massima autorità cristiana!

Se ben poco è trapelato del contenuto del colloquio privato nella biblioteca dell'appartamento pubblico, ha destato molto scalpore l'omaggio al pontefice del monarca custode dell'ortodossia sunnita. Infatti, oltre ad una scultura d'oro e d'argento raffigutante un cammello presso una palma, re Abdullah ha donato al Papa una scimitarra d’oro la cui impugnatura era tempestata di pietre preziose.

Il sedici volte e vieppiù mansueto Benedetto ha, con un poco di imbarazzo, delicatamente toccato la spada, per mostrare di apprezzare "il pensiero" ma, prudentemente, ha evitato di fare alcun commento.

Benedetto XVI aveva ricambiato, oltre che con la di prammatica medaglia in oro del pontificato, omaggiando il sovrano dello Stato in cui è vietata la costruzione di chiese con una grande stampa cinquecentesca raffigurante l'erigenda Basilica Vaticana.


L’ambasciatore saudita presso lo Stato italiano, Mohammed Ibrahim Al-Jarallah, in una intervista nel numero di ottobre (sic!) del mensile 30 Giorni, ha spiegato il significato simbolico del prezioso ed insolito omaggio del custode delle sacre moschee della Mecca e Medina al Vicario di Gesù Cristo:
«Nella tradizione araba donare a qualcuno un’arma, un oggetto simbolico come una spada, significa riporre in quella persona la fiducia. Chi riceve l’arma potrebbe anche usarla, se lo vuole, contro chi gliela ha donata. Questa è l’origine del simbolismo. E l’episodio del dono al Papa ne è proprio una conferma. C’è gente però che ha pensato che noi stessimo tentando di spaventare la controparte! Non è questo assolutamente il significato. In realtà, ciò dice che speriamo di avere tutti un obiettivo per cui lavorare: pace e prosperità per il nostro popolo e per il resto del mondo. È stato un gesto di profonda fiducia nell’interlocutore. C’è anche da dire» spiega l’ambasciatore «che per noi arabi un’arma può far parte dell’abbigliamento tradizionale». E conclude: «Se è già successo in altre occasioni che il re abbia elargito un tale omaggio, questa è di sicuro la prima volta che una spada è stata donata a un papa in un atto di affidamento».

sabato, dicembre 08, 2007

GRATIA PLENA [3]


"In occasione del 150° anniversario della manifestazione della Beata Vergine Maria nella Grotta di Massabielle, vicino a Lourdes, è quotidianamente concessa l’Indulgenza plenaria ai fedeli, che, dal giorno 8 Dicembre 2007 fino al giorno 8 Dicembre 2008, piamente e alle condizioni stabilite, visiteranno la Grotta di Massabielle, e, dal 2 all’11 Febbraio 2008, visiteranno, in qualsiasi tempio, oratorio, grotta, o luogo decoroso, l’immagine benedetta della Beata Vergine Maria di Lourdes solennemente esposta alla pubblica venerazione."
DECRETO della Penitenzieria Apostolica

giovedì, dicembre 06, 2007

Pacco, contropacco e contropaccotto / 10


Provenienti da tutto il mondo per presenziare al secondo concistoro del sedici volte Bededetto, durante l'intera giornata di venerdì 23 ottobre nell'Aula nuova del Sinodo in Vaticano, gli Eminentissimi Cardinali hanno partecipato ad una giornata di intensi colloqui attorno al tema dell'Ecumenismo. Il tema è stato scelto da Benedetto XVI ed introdotto da una relazione puntuale e puntuta dell' eminentissimo teutonico Walter Kasper, presidente del pontificio consiglio per l'unità dei cristiani.
Degna di lode la chiarezza con cui il Cardinal Kasper ha fatta un'epitome della storia delle post-conciliari relazioni ecumeniche.

Per quanto riguarda i rapporti con l'ortodossia bizantina:

"Il dialogo con le Chiese ortodosse di tradizione bizantina, siriana e slava è stato avviato ufficialmente nel 1980. Con tali Chiese abbiamo in comune i dogmi del primo millennio, l’Eucaristia e gli altri sacramenti, la venerazione di Maria madre di Dio e dei santi, la struttura episcopale della Chiesa. Consideriamo queste Chiese, insieme alle antiche Chiese orientali, come Chiese sorelle delle chiese locali cattoliche. Differenze esistevano già nel primo millennio, ma non erano percepite in quell’epoca come un fattore di divisione all’interno della Chiesa. La separazione vera e propria è avvenuta tramite un lungo processo di allontanamento e di alienazione, a causa di una mancanza di comprensione e di amore reciproci, come ha osservato il Concilio Vaticano II (UR 14). Quello che avviene oggi è dunque, necessariamente, un processo inverso di mutua riconciliazione.

I primi importanti passi sono stati compiuti già durante il Concilio. Va ricordato ad esempio l’incontro e lo scambio di corrispondenza tra papa Paolo VI ed il patriarca ecumenico Athenagoras, il famoso “Tomos agapis”, e la cancellazione dalla memoria della Chiesa delle scomuniche reciproche del 1054, nel penultimo giorno del Concilio. Su tali basi, è stato possibile riprendere alcune forme di comunione ecclesiale del primo millennio: lo scambio di visite, di messaggi e di missive tra il papa ed i patriarchi, tra cui soprattutto il patriarca ecumenico; la cordiale coesistenza e collaborazione in molte chiese locali; la concessione per uso liturgico di edifici di culto da parte della Chiesa cattolica a cristiani ortodossi che vivono da noi nella diaspora, in segno di ospitalità e di comunione. Durante l’Angelus pronunciato in occasione della festa dei santi Pietro e Paolo del 2007, papa Benedetto XVI ha sottolineato che con queste Chiese siamo già in una comunione ecclesiale pressoché piena.

Nei primi dieci anni del dialogo, dal 1980 al 1990, è stato puntualizzato ed evidenziato ciò che abbiamo in comune a proposito dei sacramenti (soprattutto dell’Eucaristia) e del ministero episcopale e sacerdotale. Tuttavia, la svolta politica del 1989-90, invece di semplificare le nostre relazioni, le ha complicate. Nel ritorno alla vita pubblica delle Chiese cattoliche orientali, dopo anni di brutali persecuzioni e di eroica resistenza pagata anche al prezzo del sangue, è stata vista dalle Chiese ortodosse la minaccia di un nuovo “uniatismo”. Così, negli anni novanta, nonostante gli importanti chiarimenti apportati dall’incontro di Balamand (1993) a Baltimora (2000) il dialogo si è arenato. La situazione di crisi si è acuita soprattutto nelle relazioni con la Chiesa ortodossa russa dopo l’erezione canonica di quattro diocesi in Russia nel 2002.

Grazie a Dio, dopo molti sforzi condotti con pazienza, lo scorso anno è stato possibile riavviare il dialogo; nel 2006 si è tenuto un incontro a Belgrado e circa un mese fa ci siamo nuovamente riuniti a Ravenna. In tale occasione, è emerso un decisivo miglioramento a livello di atmosfera e di rapporti, nonostante la partenza della delegazione russa per motivi inter-ortodossi. È iniziata così una promettente terza fase di dialogo.

Il documento di Ravenna, intitolato “Conseguenze ecclesiologiche e canoniche della natura sacramentale della Chiesa”, ha segnato una svolta importante. Per la prima volta, gli interlocutori ortodossi hanno riconosciuto un livello universale della Chiesa ed hanno ammesso che anche a questo livello esiste un protos, un primate, che può essere soltanto il vescovo di Roma secondo la taxis della Chiesa antica. Tutti i partecipanti sono consapevoli che questo è soltanto un primo passo e che il cammino verso la piena comunione ecclesiale sarà ancora lungo e difficile; tuttavia, con questo documento abbiamo posto una base per il dialogo futuro. Il tema che verrà affrontato nella prossima sessione plenaria sarà: “Il ruolo del vescovo di Roma nella comunione della Chiesa nel primo millennio”.

Per quanto riguarda più specificatamente il patriarcato di Mosca della Chiesa ortodossa russa, le relazioni negli ultimi anni si sono sensibilmente appianate. Possiamo dire che non c’è più gelo ma disgelo. Dal nostro punto di vista, un incontro tra il Santo Padre ed il patriarca di Mosca sarebbe utile. Il Patriarcato di Mosca non ha mai escluso tale incontro categoricamente, ma ritiene opportuno risolvere prima i problemi che esistono a suo parere in Russia e soprattutto in Ucraina. Va ricordato comunque che molti incontri hanno luogo anche ad altri livelli. Tra questi menzioniamo la recente visita del patriarca Alexij a Parigi, considerata da entrambe le parti un passo importante.

Riassumendo, possiamo affermare che saranno ancora necessarie una continua purificazione della memoria storica e molte preghiere affinché, sulla base comune del primo millennio, riusciamo a colmare la frattura tra oriente ed occidente ed a ripristinare la piena comunione ecclesiale.
"



Orsù, dunque!
Riassumendo: il grande scoglio al dialogo com l'Ortodossia bizantina è il Patriarcato di Mosca che a causa della sua preminenza numerica pretende la preminenza decisionale sugli altri patriarchi. Inoltre nel campo del dialogo ecumenico cioè del dialogo teologico essa pretende di fare il bello e il cattivo tempo in base all'agenda delle prioità interne alla propria Chiesa locale.
Lo dice chiaramente il cardinal Kasper quando dice papale-papale che prima di qualsiasi fraterno incontro tra "Sua Santità" il Patriarca di Mosca ed il "pari-grado" di Roma bisognerebbe "risolvere prima i problemi che esistono a suo parere in Russia e soprattutto in Ucraina". Problemi "a suo parere" appunto, cioè problemi per la Chiesa russa ma non reputati tali dalla Chiesa cattolica Romana.

Si tratta sempre della arcinota querelle teologica del "Territorio Canonico".
Un problema ecclesiologico e non dogmatico, quindi, viene indicato dai vertici delle gerarchie religiose russe come causa di dissapori con il cattolicesimo! Non è per le (a loro inaccattabili) definizioni del magistero romano sul "filioque" o sulla "immacolata concezione" che si turba la coscenze del Patriarca di Mosca, e degli altri metropoliti russi al pensiero di abbracciare il Papa di Roma! No, il "vero" ostacolo è dato dall presenza di fedeli cattolici e di conseguenza di una gerarchia cattolica nei territori della federazione Russa: il famigerato territorio "canonico" del Patriarcato "di tutte le Russie"!

Quel "gelo" (che per l'eminentissimo Kasper sarebbe in fase di disgelo)si produsse esattamente l'11 febbraio 2002 quando le quattro "Amministrazioni apostoliche" istituite in Russia dal Papa subito dopo il crollo del regime sovietico vennero normalizzate ricevendo lo status di "diocesi". Praticamente non era cambiato assolutamente nulla poichè in base al Codice di Diritto Canonico l'amministrazione canonica è una struttura ecclesiastico-giuridica per definizione "temporanea" il cui fine è di "normalizzarsi" divenendo "Diocesi".
Nel febbraio 2002 in realtà nella struttura della Chiesa Cattolica in Russia nulla era mutato tranne il nome della struttura. Non cambiò nè il numero dei fedeli cattolici,non il numero dei preti, il numero delle parrrochie rimase identiche così come identica la loro estenzione: soltanto che la somma delle parrocchie non si chiamò più "Amministrazione apostolica" bensì "Diocesi"; il vescovo non si chiamava più "amministratore apostolico" bensì vescovo "ordinaro". Sorprese moltissimo, pertanto, e creò serio imbarazzo in Vaticano la durissima (ed irrazionale) protesta del Patriarcato di Mosca che accusava la Chiesa cattolica di aver "invaso" la Russia volendo sostituire una propria gerarchia alla gerarchia della Chiesa ortodossa ed il cui fine era perciò il "proselitismo" cioè convertire i russi al cattolicesimo.
In realtà nulla era mutato per il Vaticano tranne i nomi mentre per la chiesa ortodossa cambiando il nome tutto era mutato.

A chi ha controbattuto che anche la Chiesa Ortodossa Russa ha creato diocesi in territorio canonico cattolico ( Vienna, Parigi, Bruxelles) senza imbarazzi e senza chiedere prima il permesso al papa di Roma, Mosca ha risposto che quelle diocesi servono alla cura pastorale dei russi emigrati mentre le diocesi cattoliche in Russia non sono state istituite per la cura pastorale degli "stranieri" ma dei russi.
Una tale impostazione ecclesiologica non tiene conto che popolazioni etnicamente non russe e di confessione cattolica che nei secoli passati furono assoggettate all'impero russo o che successivamente sotto lo stalinismo sono state deportate e sballottate per ogni landa desolata dell'immemza terra russa nel XXI non dolo parlano solo il russo ma sono ormai cittadini russi a tutti gli effetti; la Chiesa Ortodossa non può perciò continuare sciovinisticamente a considerare ogni cittadino russo come naturaliter fedele del patriarcato di Mosca!
L'accusa di "proselitismo" rivolto al cattolicesimo, perciò, trae origine da un profondo errore ecclesiologico che solo formalmente vuol difendere i sacri canoni della Chiesa antica che vietavano ad un patriarcato di creare diocesi nel territorio "canonico" di una "chiesa sorella" quando invece, nella sostanza, ubbidiscono a quell'atteggiamento spirituale (ed ideologico) che il Trono Ecumenico nel 1872 anatemizzò dandogli il nome di "Filetismo", ovvero l'eresia per cui si confonde l'appartenenza di fede con l'appartenenza ad una etnìa!
Esempli eclatanti un tale "imperialismo religioso" sono le proteste per la visita nel 2003 di Giovannni Paolo II in Ucraina, poichè seppur nazione indipendente è considerata territorio canonico di Mosca, o la recente teatrale protesta della delegazione russa per la presenza ai colloqui teologici cattolico-ortodossi di Ravenna del settembre 2007 della delegazione della Chiesa Autocefala Estone di cui Mosca non acceta l'indipendenza poichè continua a considerare i Paesi Baltici parte integrante del proprio territorio canonico.


Defunto il polacco Giovanni Paolo II tutti gli osservatori di cose vaticane hanno sentenziato che sotto il pontificato ratzingeriano sono migliorati i rapporti tra Roma e Mosca, o per meglio dire sono aumentate le dichiarazioni di apprezzamento per Benedetto XVI da parte dei gerarchi della Chiesa russa.
Ancor più viva soddosfazione e rallegramenti verso l'operato del Vaticano è stata espressa da parte del patriarca Alessio per l'avvenuta sostituzione -in data 21 settembre 2007- del polacco (cittadino bielorusso ma di etnìa polacca!) monsignor Tadeusz Kondrusiewicz, vescovo cattolico a Mosca, con l'italiano (e ciellino) don Paolo Pezzi.
Gli analisti di cose vaticani hanno sentenziato che questa sostituzione avrebbe reso migliori i rapporti ecumenici. La spiegazione che la cagione della maggior collaborazione tra il nuovo italico "Arcivescovo della Cattedrale della Madre di Dio a Mosca" ed il Patriarcato ortodosso starebbe nel fatto che avere a Mosca un vescovo italiano significa per la Chiesa ortodossa una maggior vicinanza e sintonia col Vaticano è una tautologia priva di senso!
Il dodici volte piissimo vaticanista Andrea Tornielli spiegava che: "i russi e i polacchi si sono combattuti per secoli e la presenza di un arcivescovo di origini polacco-biolorusse, seppure pienamente giustificata dal fatto che i cattolici della Russia sono in buona parte di origini polacche per essere stati deportati prima dagli zar e poi da Stalin, era vista male. Un italiano sarà accolto meglio".

Se ho ben capito, allora, il miglioramento c'è se la sostituzione dell'arcivescovo vien vista dal punto di vista del patriarcato di Mosca, ma ciò non vuol dire che un miglioramento ci sarà nel dialogo ecumenico come infatti prontamente si è visto dalle successive dichiarazioni del metropolita Kirill ( il quale viene considerato, a torto o a ragione, il "numero due" della Chiesa russa ed il più "papabile" alla successione di Alessio II).

Sabato primo dicembre 2007, il metropolita Kirill di Smolensk e Kalinigrad, capo del "Dipartimento per i rapporti esterni" del patriarcato di Mosca, nel suo intervento ad un acconcio convegno moscovita dal titolo “Chiese locali e territorio canonico: aspetti canonici, giuridici ed interreligiosi" ha detto testualmente: “Noi non le riconosceremo mai e contesteremmo sempre la presenza di diocesi cattoliche normali nel territorio della Russia e consideriamo questo una sfida alla nostra comune idea, legata al principio territoriale delle amministrazioni ecclesiastiche”.

Il ricatto ecumenico è ben congeniato: se la Chiesa Romana considera la Chiesa Russa una "chiesa sorella" è perciò ritiene valida la successione apostolica dei vescovi ortodossi, non deve nominare vescovi di rito latino nei medesimi territorii in cui ci sono vescovi ortodossi russi. Se la Chiesa Romana, invece, nomina vescovi cattolici dove ci sono già vescovi ortodossi vuol dire che la Chiesa Cattolica non considera vero il sacramento dell'Ordine amministarato col rito bizantino, perciò la pubblicizzata volontà di Roma di preseguire il dialogo ecumenico non sarebbe sincera.

Lo sviluppo del dialogo tra il Patriarcato di Mosca e la Chiesa cattolica ( o la crisi del diaologo o peggio il fallimento) pertanto sarebbe condizionato "solo" dalla buona volontà del Papa di Roma cui spetta di modificare lo status delle diocesi cattoliche in Russia ridimenzionandole allo status di "Amministrazioni apostoliche" al fine di sottolineare e ratificare la preminenza della Chiesa Russa all'interno del suo storico bacino di influenza.

Alla inevitabile replica sulla presenza di diocesi ortodosse in "territorio canonico" cattolico, Kirill ha obbiettato che: "Le diocesi del Patriarcato di Mosca nella diaspora non sono ordinarie. Sono state create per provvedere alla cura pastorale delle persone della diaspora e non hanno confini definiti. In certo senso sono diocesi inusuali, come abbiamo sempre sottolineato in occasioni di dialogo con i cattolici”.
“Se nella Chiesa ortodossa ci fosse una nozione come quella di amministrazione apostolica, le diocesi in Europa sarebbero chiamate così”.
“Il contrasto deriva dalla nostra totale incomprensione del perché un termine del tutto appropriato è stato sostituito con uno del tutto inappropriato”.

Si capisce allora la soddisfazione per avere un italiano, cioè un occidentale, e soprattutto un non slavo, quale supremo capo della gerarchia cattolica in Russia al posto di un cittadino dl CSI qual'era invece Kondrusiewicz: ecco, in faccia a tutta la Santa Madre Russia, la rassicurante testimonianza che il cattolicesimo è una religione non russa fatta da stranieri (e quindi, implicitamente, solo per stranieri).

martedì, dicembre 04, 2007

DEVOTIO MODERNA [9]


Dopo la felice conclusione della prima edizione della Clericus Cup, presso il campetto del circolo sportivo San Pietro è principiata l'edizione 2007/08 del calcistico torneo pontificio come rarraci il vaticanista Paolo Rodarida in un simpatico articoletto :

"Che la Clericus Cup sia un torneo sui generis lo dicono tanti fattori. Su tutti il fatto che, per volere diretto del segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone (salesiano e dunque da sempre affezionato alla competizione in stile oratoriale), le sedici squadre che ogni fine settimana entrano in campo all’ombra del cupolone sono composte esclusivamente da seminaristi appartenenti ai vari collegi, università, convitti e seminari pontifici di Roma.
Eppure, è a scorrere i sette articoli del regolamento del torneo (...) che si trova forse la caratteristica più singolare. Alla Clericus Cup non esiste né il cartellino giallo, né quello rosso. Ne esiste soltanto uno azzurro che però non serve né per ammonire né per espellere. E a cosa serve allora? Serve a sospendere.

Già, perché alla Clericus Cup le infrazioni di gioco non sono preventivamente ritenute degne dell’espulsione. Piuttosto, coloro che si rendono colpevoli di «sgambetto, trattenuta o altro mezzo illecito su un avversario che, diretto a rete, non ha alcun altro avversario tra sé e la porta, con l’esclusione del portiere, in grado di intervenire» (insomma una bella “entrata” da dietro sull’avversario diretto a rete, ndr), di «fallo di mano volontario su un tiro diretto nello specchio della propria porta» e di «fallo di mano volontario, incluso quello del portiere se fuori area di rigore, su un avversario lanciato a rete», devono accomodarsi per cinque minuti in panchina per poi, scontata la pena, rientrare.
Insomma, infrazioni pesanti, comportamenti scorretti degni delle più sacrosante delle espulsioni alla Clericus Cup non solo non sono ammessi ma nemmeno ipotizzati."

domenica, dicembre 02, 2007

le quote porpora /9


"- Chi è sua eminenza? - domandò Agnese.

- Sua eminenza, - rispose don Abbondio, - è il nostro cardinale arcivescovo, che Dio conservi.

- Oh! in quanto a questo mi scusi, - replicò Agnese: - ché, sebbene io sia una povera ignorante, le posso accertare che non gli si dice così; perché, quando siamo state la seconda volta per parlargli, come parlo a lei, uno di que' signori preti mi tirò da parte, e m'insegnò come si doveva trattare con quel signore, e che gli si doveva dire vossignoria illustrissima, e monsignore.

- E ora, se vi dovesse tornare a insegnare, vi direbbe che gli va dato dell'eminenza: avete inteso? Perché il papa, che Dio lo conservi anche lui, ha prescritto, fin dal mese di giugno, che ai cardinali si dia questo titolo. E sapete perché sarà venuto a questa risoluzione? Perché l'illustrissimo, ch'era riservato a loro e a certi principi, ora, vedete anche voi altri, cos'è diventato, a quanti si dà: e come se lo succiano volentieri! E cosa doveva fare, il papa? Levarlo a tutti? Lamenti, ricorsi, dispiaceri, guai; e per di più, continuar come prima. Dunque ha trovato un bonissimo ripiego."
Nel capitolo XXXVIII dei Promessi Sposi così Manzoni mette in scena la decisione di Urbano VIII di appellare "Sua Emimenza" i membri del Sacro Collegio.
Fu proprio all'epoca che venne coniata in Francia la maliziosa locuzione di "eminenza grigia" per designare il potentissimo ma schivo frate cappuccino padre Giuseppe da Parigi: il braccio destro del primo ministro (l'eminenza rossa) Cardinale Richelieu.
Ma dare dell'eminenza grigia al padre Giuseppe non voleva tanto indicare una -poi divenuta proverbiale- potenza occulta quanto il pronosticare la porpora anche al fido collaboratore del Richelieu.
Più di una volta Luigi XIII aveva sollecitato la berretta rossa per il padre cappuccino poichè nella mente del sovrano e di Richelieu era stato designato "in pectore" quale futuro primo ministro di Francia.
Poichè le condizioni di salute di Richelieu si aggravavano ciclicamente, la Corona auspicava di avere già a disposizione un cardinale-ministro in caso di improvviso decesso di Richelieu ma la Corte di Roma aveva prudentemente declinato la richiesta poichè nel sacro collegio c'era già un cardinale dell'ordine cappuccino (nonchè fratello del papa regnante) e Urbano VIII non volevano proteste e lagnanze da parte degli altri ordini (innanzitutto gli altri ordini francescani).

Ma proprio quando giunse ufficiosamente a Parigi la notizia che il desiderio del Re Cristianissimo stava per essere accolto, la salute dell'eminenza grigia stava declinando così rapidamente che un sollecito burocrate indirizzò una urgente missiva a Roma pregando di non più procedere alla creazione cardinalizia dell'ormai agonizzante padre Giuseppe: il numero dei "Cardinali della Corona" cioè dei cardinali creati dal papa su esplicita richiesta delle potenze cattoliche era assai limitato per cui era politicamente assai dannoso sprecare un titolo tanto importante per un moribondo.
Il Re di Francia e il Cardinal Richelieu avrebbero quanto prima indicato il nome di un altro candidato alla porpora fisicamente prestante e dall'eccellente stato di salute nella persona dell'allora ancora "oscuro" Giulio Mazzarino.

Nell'epoca contemporanea è stata esclusa espressamente nonchè anatemizzata dai Romani Pontefici qualunque ingerenza laica sulla scelta e le scelte dei menbri del Sacro Collegio. Ma i problemi "politici" (anche se di mera politica ecclesiastica) non mancano neppure nelle nuove creazioni cardinalizie del XXI secolo.

L'aver esteso ai cinque continenti la provenienza dei "Principi della Chiesa" e l'aver allargato il numero degli eminentissimi elettori del Papa di ben cinquanta unità, nonchè l'aver decretato che ad ottant'anni i cardinali perdano il diritto a votare in conclave non ha facilitato il compito ai Pontefici post-conciliari.
Sicuramente l'ottantesimo genetliaco molto più di "sorella morte" è di aiuto nel produrre nuovi posti vacanti che il Pontefice regnante può riempire. Epperò pur essendo aumentato il numero dei cardinali è parimenti aumentata la rappresentatività delle Chiese locali, per cui una volta soddisfatti i monsignori della Curia vaticana e gli arcivescovi delle capitali delle nazioni del mondo intero non c'è lo spazio nè il margine in cui il Sommo Pontefice possa accondiscendere con liberalità a qualche impulso, che piace pensare, ispirato dallo Spirito Santo!

Si nominano i cardinali per tre motivi:
1) perchè sono a capo dei dicasteri della Curia Romana
2) perchè sono arcivescovi di sedi tradizionalmente cardinalizie
3)perchè sono ecclesiastici che con la loro opera e per i propri meriti hanno servito ed illustrato la Chiesa Cattolica.

Se in passato il cardinalato era il prezzo del penzionamento -in qualche caso anticipato!- dei Nunzi Apostolici presso le grandi Potenze e parimenti era l'omaggio dei Pontefici ai sommi teologi ed intellettuali cattolici, a partire dal Concilio Vaticano II una tale liberalità dei Sommi Pontefici si è molto ridimenzionata per non dire che è stata impedita dalla stessa volontà pontificio di aumentare il numero delle sedi cardinalizie in giro per il mondo nonchè di aumentare il numero dei dicasteri vaticani.

Lontani i tempi in cui un Leone XIII nel suo primo concistoro, dovendo nominare solo dieci nuovi cardinali, poteva dare la berretta rossa al grande intellettuale inglese John Henry Newman!
Non che un Benedetto XVI non sarebbe ben lieto di creare cardinale un redivivo John Henry Newman ma credo che prima di annunciarne la nomina avrebbe l'accortezza di pazientemente attendere che il candidato alla porpora avesse festeggiato l'ottantesimo genetliaco!


Paolo VI una volta decretato nel 1971 con la "Ingravescentem aetatem" che al compimento degli ott'antanni i cardinali perdono il diritto di partecipare al Conclave si guardò bene dal nominare cardinali ultra ottantenni.
Invece Giovanni Paolo II nel suo secondo concistoro del 1983 ritenne opportuno manifestare con la porpora la stima ed il plauso pontificio per due benemeriti ecclesiastici ultra ottantenni: Julijans Vaivods, vescovo lettone vissuto sotto la persecuzione sovietica, ed il gesuita Henri-Marie de Lubac, grande teologo del Vaticano II precedentemente perseguitato dal sant'Uffizio del cardinale Alfredo Ottaviani del quale divenne successore nel titolo di cardinale-diacono di S.Maria in Domnica.
Come direbbe Don Abbondio, il papa: "Dunque ha trovato un bonissimo ripiego".

Nei successivi concistori di Giovanni Paolo II non sono mai mancati ottuagenari cardinali per meriti diplomatici, per meriti accademici ed intellettuali, o per essere stati vittime di persecuzione religiosa. Ad essere esatti mancarono cardinali ultra ottantenni nel concistoro del 1988 poichè l'ottantatreenne teologo Hans Urs von Balthasar morì due giorni prima del concistoro mentre si trovava in viaggio verso Roma.

Benedetto XVI ha proseguito sulla scia del suo "venerato predecessore".
Annunciando la lista dei ventitrè cardinali del suo secondo concistoro (dei quali ben cinque superno l'ottantina) il sedici volte nonchè ottantenne Benedetto in data 17 ottobre 2007 ha lamentato la sua pena poichè "era stato mio desiderio elevare alla porpora anche l’anziano Vescovo Ignacy Jez" novantatreenne vescovo polacco che proprio il giorno prima era (improvvisamente?) morto.

E' pur vero che compito dei cardinali non è solo quello di eleggere il papa ma anche di essere suoi stretti consiglieri perciò non si vede perchè mai se un un Papa ottantenne possa "ccioiosamente" regnare egli poi non possa legittimamente usufruire dei saggi consigli di eminentissimi prelati ultraottuagenati! Rimane però l'impressione che l'elevazione alla porpora concessa a vecchi Nunzi da anni in penzione o a insigni teologi da molti lustri fuori dal mondo accademico, più che una elevazione delle loro encomiabili persone, risulti una diminutio della dignità cardinalizia al livello di quelle medaglie commemorativa che i sindaci regalano alla vecchietta centenaria: un premio alla longevità.
O peggio: la creazione di un cardinale ulta-ottantenne proveniente da una particolare parte del globo potrebbe essere solo un escamotage per mettere in scena l'irenica universalità della Chiesa Cattolica proprio quando invece non si voglia -o non si possa- creare un cardinale-elettore proveniente da quella medesima zona del pianeta!


Verrebbe da chiedere a Benedetto XVI perchè non creò cardinale nel 2006 "l’anziano Vescovo Ignacy Jez": forse che alla tenera età di novantadue anni il presule polacco non aveva ancora acquistato quelle benemerenze che un anno e mezzo dopo lo facevano degno della porpora?
E similmente se Benedetto XVI teneva tanto ad omaggiare della porpora l'ottantacinquenne teologo francescano Umberto Betti ed il gesuita ottantasettenne Urbano Navarrete perchè non si affretto a crearli nel precedente concistoro?

Nel caso un cardinale sia stato creato solo dopo che abbia da poco superato la fatidica soglia dell'ottantina qualcuno malignamente potrebbe anche sostenere che il Papa in realtà, pur elevandolo alla porpora, non lo considerava "adatto" a partecipare al conclave ma nel caso di ultraottanenni "di lungo corso" -per così dire- perchè dilazionare ancora ed ulteriormente quella che ormai per loro può essere solo una onorificenza?

Per alcuni ecclesiastici sembra quasi che il cardinalato più che un premio appaia una velata punizione nel caso in cui questa dignità venga dilazionata di concistoro in concistoro fino a quando venga superata il fatidico compleanno. Forse a questo pensava il Patriarca latino di Gerusalemme, il palestinese Michel Sabbah, mentre il 24 ottobre 2007 assisteva alla "elevazione" dell'iracheno Emauele III Delly Patriarca di Babilonia dei Caldei che -molto opportunamente- da pochi giorni aveva compiuto ott'antanni.
E se Benedetto XVI nella sua allocuzione ha tenuto a menzionare il Patriarca iracheno ed ha sottolineato che nella porpora a lui concessa c'è l'omaggio della Chiesa Cattolica a tutti i cristiani mediorientali ci si può non domandare perchè nel precedente concistoro sua Beatitudine Emanuele III non fu creato cardinale?
Perchè Benedetto non volle significare la propria vicinanza ai sofferenti cristiani arabi nel febbraio 2006 col dare la porpora all'anziano -ma forse non abbastanza!- Patriarca di Babilonia?
Certo vi è il problema del limite di centoventi ma poichè la norma è stata creata dal Sommo Pontefice egli ha sempre la possibilità di derogare come e quando vuole.

Come ai tempi delle monarchie assolute la Santa Sede continua a valutare il peso politico di una nomina cardinalizia. Ma quel che lascia più da pensare è che le le grandi e piccole potenze post-moderne, laiche e persino per nulla cattoliche, continuino a considerare "dannatamente" importante se il tale più o meno oscuro monsignore divenga o meno un Cardinale di Santa Romana Chiesa, o per meglio dire trovano dannatamente importante evitare l'imbarazzo politico che potrebbe causare l'elevazione al soglio pontificio di Tizio e di Caio.

Fino a quando i papi erano solo dei "preti italiani" il problema geopolitico era assai limitato: tutto dipendeva dal fatto se l'ennesimo papa italiano fosse più progressista o più conservatore, ci di fermava alle vecchie e stereotipate categotie del "papa religioso" o "papa politico".
Dopo l'elezione del "papa polacco" ormai tutte le cancellerie sanno che all'interno del conclave tutto e possibile. Se nel 1978 il governo comunista avesse avuto il sentore che l'arcivescovo di Cracovia fosse un papabile non gli avrebbe certo concesso di attraversare la cortina di ferro!
Sugli esiti di un conclave ormai nessuna opzione può essere più esclusa completamente e ogni nazione o sistema politico dell'era della globalizzazione, al pari degli imperi dell'ancien regime, può sentirsi danneggiato dall'elezione di un papa che venga da questa o quella parte del globo.

Durante la Sede Vacante del 2005 ciò che faceva divertire i vecchi prelati europei era l'insistenza e l'incredulo sgomento con cui i giornalisti statunitensi si informavano sul fatto che il settantacinquenne cardinale Bernard Law avesse il diritto di partecipare al conclave e virtualmente quello di essere eletto papa; erano sconvolti all'idea che un cardinale che aveva dovuto dare le dimissioni dalla carica di Arcivescovo di Boston (a seguito dello scandalo dei preti pedofili) continuasse ad avere ancora gli stessi diritti degli altri cardinale, cioè non capivano come il manager che ha fatto fallire la filiale di una società possa continuare a sedere nel consiglio d'amministazione e correre il rischio di essere persino eletto presidente di una multinazionale!
Finchè gli Sati Uniti saranno una SuperPotenza nessun cardinale americano correrà il reale "pericolo" di essere eletto papa ma gli interessi geopolitici delle super potenze sono tanti e sfaccettati.

Il percepire che i parametri con cui ragionano ed agiscono i leaders della Chiesa cattolica non possono mai essere completamente ridotti ai propri canoni provoca nelle diplomazie molto, seppur velato, nervosismo.
Probabilmente il solo - inconsisternte- pensiero che un arabo possa avere la pur minima possibilità di diventare Papa prova altrettanto raccapriccio nei politici e diplomatici statunitensi (ed israeliani!) che potrebbe dar luogo ad inutili, immotivate, conseguenze spiacevoli.
La ragione è pertanto dalla parte di don Abbondio: "E cosa doveva fare, il papa?... Dunque ha trovato un bonissimo ripiego".