venerdì, dicembre 29, 2006

Sonetos Fùnebres, X

Ovvero: Dei Sepolcri (imbiancati da poco)



(Assuntina Morresi; Il Foglio; giovedì 28 dicembre 2006)

"Il linguaggio religioso di un cristianesimo rovesciato: l’hanno dovuto usare i radicali per imporre al dibattito pubblico e all’agenda politica il tema dell’eutanasia. Con la vicenda di Piergiorgio Welby la svolta lessicale è stata evidente, ma si stava preparando da tempo. Non categorie sociali, ma affamati e assetati, già negli anni Ottanta, e poi carcerati e, ultimamente, i malati, gli “ultimi” per eccellenza nel linguaggio evangelico, i destinatari delle opere di misericordia corporale della chiesa cattolica: questi via via sono stati messi sotto i riflettori dai radicali. E se tempo addietro siamo stati invitati a sit-in e fiaccolate, se per l’indulto l’anno scorso è stata indetta una marcia nel giorno di Natale, per Welby i radicali hanno proposto una veglia notturna, un’espressione con cui di solito si intende una precisa preghiera comunitaria cristiana, che non poteva non richiamare il grande indimenticabile malato, Giovanni Paolo II. Vegliarono a migliaia in piazza San Pietro durante la sua agonia, anche il suo dolore e la sua malattia erano stati offerti alle telecamere, impietosamente e fra polemiche; noto il suo rifiuto dell’ennesimo ricovero in ospedale. Piergiorgio Welby come Giovanni Paolo II: più volte lo ha ripetuto Marco Pannella – lo ha dovuto fare, per legittimare il dolore e il disfacimento del corpo sbattuti sui media di tutto il mondo. E se la malattia di Luca Coscioni aveva la bandiera della “libertà di cura”, uno slogan innanzitutto politico, quella di Welby sventolava in nome del dolore e dell’umanissimo non poterne più. Intorno a Welby non solo i compagni di lotta ma innanzitutto i familiari che da sempre lo hanno amato e avuto cura di lui: la moglie, la sorella e la madre, “le pie donne”. Un matrimonio solido, una famiglia unita. E pure il prete della parrocchia si è provvidenzialmente materializzato alla fine, per annunciare il mancato funerale religioso; eppure nei tre mesi precedenti nessuna telecamera l’aveva mai intercettato – e sì che non ne mancavano da quelle parti – mentre andava a visitare il suo parrocchiano che chiedeva l’eutanasia al presidente della Repubblica. Con la morte Welby è diventato il “cattolico Piergiorgio”, a cui sono stati “negati i funerali religiosi”, e che il Vicariato non ha chiamato “fratello Piero” come ha denunciato il Riformista con indignazione. Al suo corpo “è stato impedito anche dopo morto di ricevere il conforto confessionale cattolico richiesto dalla sua famiglia”, hanno protestato i radicali, lasciando quasi intendere che pure prima di morire ci fosse stato un rifiuto simile. Ma è noto che Piergiorgio Welby non era cattolico, e quei funerali sono stati chiesti dai familiari. I funerali di Welby sono stati comunque segnati da una “profonda laica religiosità” (presumibilmente in contrasto con una profonda cristiana religiosità), “una profonda religiosità, non quella bigotta, ma una religiosità altra, secondo cui il corpo di ognuno appartiene a Dio, per chi ci crede”, secondo Emma Bonino, che ha pure specificato: “Questa è una piazza che ama la vita”. “Oggi è già Natale – ha predicato poi Pannella – e grazie alla morte opportuna, conquistata e serena di Welby è nata una speranza”. Religiosità, Natale, speranza, vita, veglia, e poi gli affamati, i carcerati, i malati, e non dimentichiamo che sulla parola “maternità” si è giocata la battaglia di emozioni sulla legge 40. Per entrare in sintonia con lo “spirito dei tempi” oramai non si può più prescindere da certe parole, che però svuotate della loro origine – carità senza verità, sintetizzava con efficacia Baget Bozzo – appaiono come riflesse dagli specchi deformati dei luna park."

giovedì, dicembre 28, 2006

Historia Ecclesiastica Anglorum, III


Propongo ai piissimi lettori un lunghissimo articolo di Roberto Persico (il Foglio; 6 luglio 2006)che ripercorre la vita del Venerabile cardinal Newman.


La notizia era tutt’altro che inaspettata; ma suscitò ugualmente notevole scalpore: il reverendo dott. John Henry Newman, canonico di Oxford era passato nelle file di Roma.

Enfant terribile della teologia anglicana, da tempo i suoi sermoni erano al centro delle controversie religiose – e culturali, e politiche – del mondo britannico. Da tempo molte delle sue tesi erano sospettate di cedimento al nemico papista. E il 9 ottobre 1845 Newman fece il grande passo.

Il suo nome aveva cominciato a circolare agli inizi degli anni Trenta.

Era nato a Londra il 9 febbraio del 1801. Suo padre era stato un banchiere di discreto successo, prima di fallire e dedicarsi alla distillazione della birra. Sua madre, di antica famiglia ugonotta, lo aveva cresciuto nella lettura della Bibbia. Verso i quattordici anni il ragazzino – sveglio e precoce – aveva letto pagine di Thomas Paine, David Hume e forse Voltaire, ed era stato attratto dalla loro incredulità.
Era stato il suo professore di greco e latino, il reverendo Walter Myers, a rinsaldare le sue convinzioni religiose; ma con le tesi dello scetticismo illuminista avrebbe fatto i conti per tutta la vita.
Nel 1817 era riuscito a entrare al Trinity College a Oxford – uno dei santuari della teologia anglicana – e nel 1825 era diventato pastore della chiesa d’Inghilterra.
Dominava allora la scena culturale il gruppo detto dei “noetici di Oxford”. La sfida, s’è accennato, era il razionalismo d’origine settecentesca, con la sua serrata critica a dogmi, miracoli, rivelazioni e affini. I “noetici” s’erano accodati, pensando di difendere il cristianesimo depurandolo di tutto ciò che non fosse razionalmente sostenibile; erano approdati a una concezione che ben s’accordava con “La ragionevolezza del cristianesimo” del venerato John Locke, “una religione naturale governata da un sovrano saggio e prudente, e priva di mistero”.

Inevitabilmente, il giovane Newman viene coinvolto nella congrega; ma già nel 1826 ne prende le distanze. Pronuncia infatti in quell’anno il primo della serie di “Sermoni universitari“, che costituiscono oggi la prima parte del volume dedicato ai suoi “Scritti filosofici” dall’editore Bompiani (seguono il “Quaderno filosofico”, una collazione di appunti su argomenti vari, e la fondamentale “Grammatica dell’assenso”).

Nel “Sermone” predicato il 2 luglio 1826 nella chiesa universitaria dedicata a St. Mary the Virgin abbozza dunque il giudizio sul suo tempo e il campo di ricerca nei decenni a venire. “Il cristianesimo è stato rappresentato come un sistema che ostacola la strada del miglioramento in politica, nell’educazione e nella scienza; come se fosse stato adatto alla condizione della conoscenza, e avesse contribuito alla felicità, nell’età in cui fu introdotto, ma fosse un vero e proprio male in tempi più illuminati”, per cui oggi molti “sembrano considerare gli interessi del genere umano del tutto inconciliabili con quelli della chiesa cristiana; e benché pensino sia indecoroso o insensibile attaccare apertamente la religione, tuttavia sembrano attendere fiduciosamente che il progresso delle scoperte e il generale avanzamento dello spirito umano debbano risolversi nella caduta del cristianesimo”. Al contrario, ribatte, la filosofia e la scienza moderne sarebbero impensabili senza la tradizione cristiana. Perché “la scienza e la Rivelazione concordano nel supporre che la natura sia governata da leggi uniformi e stabili. La Scrittura, se interpretata correttamente, è decisiva nell’eliminare tutti quegli elementi di irregolarità che si suppone che interrompano a loro piacimento l’ordine della natura”, cioè le svariate divinità capricciose che popolano le altre cosmologie. E perché “benché sembri così ovvia la posizione secondo la quale nel formare una seria teoria sulla natura, dobbiamo iniziare dall’indagine, escludendo la speculazione immaginaria o la deferenza all’autorità degli uomini, non fu generalmente conosciuta o accettata come tale finché un filosofo cristiano non la impose all’attenzione del mondo. E sicuramente egli fu sostenuto dall’uniformità del linguaggio di tutta la Bibbia, che ci dice che la verità è cosa troppo sacra e religiosa per essere sacrificata alla mera gratificazione dell’immaginazione o al divertimento della mente”. Ciononostante, scienza e religione oggi sembrano andare ciascuna per conto suo; “perché [questo male] non aumenti, dobbiamo guardare a quella primitiva educazione religiosa alla quale non ci può essere dubbio che tutte le persone dovrebbero sottomettersi”.
Negli anni seguenti, Newman si dedica anima e corpo – letteralmente – a ritrovare “quella primitiva educazione religiosa”, vale a dire allo studio accanito dei Padri. Si appassiona così alla tradizione della chiesa delle origini, prima delle lacerazioni che hanno segnato la sua storia moderna. Comincia a domandarsi se nel ritorno a quelle fonti non sia possibile ritrovare un’unità. Fra il 1832 e il 1833 compie un lungo viaggio nel Mediterraneo: Malta, Grecia, Corfù, Napoli, Roma. In Sicilia si ammala gravemente e sembra in punto di morte; poi si riprende, si imbarca per Marsiglia, attraversa la Francia in carrozza a tappe forzate. “Ho un lavoro da fare in Inghilterra” ripete. Dal soggiorno riporta a casa una severa repulsione per gli aspetti superstiziosi del cattolicesimo latino; ma anche ammirazione per la serietà dei seminari romani o per la semplicità e la bellezza della partecipazione del popolo alla liturgia. Pochi giorni dopo il suo rientro a Oxford, un sermone predicato dal suo amico John Keble, “Apostasia nazionale”, dà il via a quello che diventerà il “Movimento di Oxford”.

Due sono i bersagli del discorso di Keble, condivisi da una cerchia di giovani chierici: il liberalismo teologico – la riduzione della fede a sentimento religioso, privo di qualsiasi contenuto dottrinale vincolante – e la sottomissione della chiesa anglicana al governo – inevitabile conseguenza: se la religione non ha contenuto, è lo stato che ne detta le regole. L’obiettivo dei teologi è ambizioso: restituire al credo cristiano un saldo fondamento, rivendicare l’autonomia dalla politica, rispondere alle sfide del positivismo incombente.

Newman diventa rapidamente il leader riconosciuto del gruppo; i “Sermoni” che inizia a predicare regolarmente nella chiesa di St. Mary un punto di riferimento per molti. “Nessuno che abbia ascoltato i suoi sermoni”, ricorda un frequentatore assiduo, “può dimenticarli. Di rado erano direttamente teologici. Newman parlava a noi di noi stessi, delle nostre tentazioni, delle nostre esperienze. Sembrava rivolgersi alla coscienza più segreta di ciascuno di noi – come gli occhi di un ritratto sembrano guardare ogni persona in una stanza. Un tono non di timore, ma di infinita pietà, correva fra tutti”.

“L’atteggiamento di Newman dal pulpito” rincara un autorevolissimo uditore, William Ewart Gladstone, nonancora primo ministro ma già deputato ai Comuni “era tale che, a considerarne i diversi aspetti separatamente, non si arriva a una conclusione soddisfacente. C’era poca enfasi nella voce e nessuna teatralità; i sermoni venivano letti, e quasi non alzava gli occhi dal testo. Eppure, se consideravi l’uomo nell’insieme, c’era in lui come un timbro, un sigillo; una solenne dolcezza e una musica nel tono; un’unità nella figura, nell’atteggiamento, che rendeva il suo modo di porsi singolarmente affascinante”.
Filo conduttore delle riflessioni il rapporto tra fede e ragione. Il quarto è diretto contro “le usurpazioni della ragione”, che non può essere che al servizio della fede. Ma gradualmente la sua posizione si sviluppa verso una nozione più ampia del concetto di ragione. Nel decimo distingue la fede come principio di azione, di condotta della vita, dalla ragione come strumento di riflessione.
La settimana seguente spiega che la fede è “il ragionare di uno spirito religioso, che agisce in base a supposizioni piuttosto che a prove, che specula e rischia sul futuro di cui non può essere certo”: “la fede è un atto della ragione”, che in un campo dove non è possibile avere certezze categoriche si basa sulle conclusioni più probabili, che vengono verificate non dalla logica ma nella vita.

Nel 1841 il primo ministro Robert Peel propone l’istituzione di conferenze pubbliche per l’educazione delle masse, in cui vengano illustrate le nuove scoperte scientifiche, la cui meraviglia susciterà una fede non confessionale nell’Architetto dell’Universo. Newman reagisce veementemente: “Il cuore è colpito non dalla ragione ma dall’immaginazione, dalla testimonianza di fatti ed eventi, dalla storia, dalle descrizioni. Siamo influenzati da una persona, affascinati da una voce, soggiogati da una cosa vista, infiammati da un’azione. Molti uomini possono vivere e morire per un dogma; nessuno accetterà il martirio per una conclusione. Una conclusione non è che un opinione. La logica non è che una triste retorica; è più facile far quadrare un cerchio che convertire con un sillogismo”.

La polemica tiene banco sulle prime pagine del Times per settimane. Nel frattempo si sviluppa la riflessione sul rapporto tra chiesa d’Inghilterra e cattolicesimo, affidata a una serie di pamphlet, “Tracts for the Times”. Nei primi, l’anglicanesimo viene indicato come una “via media” tra gli eccessi – teologici, morali, liturgici – dei “papisti” e gli altrettanto eccessivi rigori protestanti; ma poco a poco gli oxonensi inclinano sempre più verso Roma.

L’ultimo dei “Tracts”, che propone una lettura cattolica dei Trentanove Articoli, il
cuore della professione di fede anglicana, suscita un pandemonio. Per evitare una condanna formale, Newman sospende le pubblicazioni, e si ritira a Littlemore, a poche miglia da Oxford, in una reclusione quasi monastica. Approfondisce i suoi amati studi patristici, e realizza che le “vie medie” non hanno mai avuto grandi argomenti: né i quasiariani, né i monofisiti moderati avevano solidi fondamenti. Le ragioni stavano dalla parte dell’ortodossia.

Nel febbraio 1843 pronuncia l’ultimo “Sermone anglicano”, su “La teoria degli sviluppi nella dottrina religiosa”. Contro la teologia protestante che riconduce il contenuto della Rivelazione alla “sola scriptura”, “le mezze frasi del Vangelo” afferma “la sua sovrabbondanza linguistica, ammettono uno sviluppo, hanno una vita loro che si mostra in progresso”.

La dottrina della Trinità, la devozione alla Vergine, il culto dei santi, la fede nel purgatorio non sono aggiunte arbitrarie, ma lo sviluppo coerente di una verità inesauribile che comprende sempre più a fondo se stessa.

E’ aperta la strada per abbracciare la fede cattolica. Newman però vuole essere ben
certo di quello che fa. Occorreranno altri due anni di meditazione e preghiera prima che chieda di ricevere il battesimo secondo il rito romano.
Diversi suoi compagni di studi lo seguiranno. Dopo un breve soggiorno a Roma, fonderà in Inghilterra un “Oratorio” dell’ordine di san Filippo Neri.

Neanche in casa cattolica avrà però vita facile.
Nel 1859 pubblica un articolo “Sulla consultazione dei fedeli in materia di dottrina”, dove ricorda che nella grande controversia ariana del IV secolo la maggioranza dei vescovi aveva ceduto all’eresia; solo la solida, semplice fede del popolo aveva permesso all’ortodossia di resistere. Parla del passato, ma si rivolge al presente, ai tanti vescovi che flirtano con le ideologie alla moda.

Non è un testo fatto per attirargli simpatie.
Per i suoi scritti sullo sviluppo della dottrina viene denunciato alla Santa Sede per “liberalismo”. Sono gli anni cruciali in cui il termine è sinonimo di “empio”, “infedele”.

Nel 1864 esce il “Sillabo” che condanna “gli errori dell’epoca moderna”. Il dibattito che segue è infuocato. Lord Acton, paladino del cattolicesimo liberale, gli rimprovera di avallare un dogmatismo cieco; Newman replica proponendo una lettura minimalista – pur rispettosa – del testo, e riconoscendo che il Papa potrebbe esercitare la sua missione anche senza lo Stato del Vaticano. Al che il cardinale Manning – un altro grande convertito – deplora la sua scarsa lealtà verso la Santa Sede.

Un polemista protestante lo accusa di infischiarsene della verità. La replica di Newman è l’“Apologia pro vita sua”. Tutti i cambiamenti di cui lo si rimprovera, scrive, dipendono proprio e solo dall’amore per la verità: non si è mai accontentato finché non ha trovato quel che cercava.
Il libro suscita a Roma grande apprezzamento, e l’autore è invitato a partecipare ai lavori in vista del Concilio. Newman tergiversa: c’è a tema l’infallibilità, e lui è perplesso. Finisce per declinare l’offerta, con il motivo che sta lavorando a un nuovo libro.
Nel 1870 il Vaticano I proclama l’infallibilità del Papa; quando legge la formulazione del dogma, Newman tira un sospiro di sollievo, perché è rigorosamente circoscritto, e lo difenderà sempre a viso aperto.

Lo stesso anno esce il “Saggio in aiuto a una grammatica dell’assenso”, dove la riflessione sulla ragionevolezza dell’atto di fede viene sviluppata sistematicamente.

L’assenso che prestiamo alle verità di fede – spiega Newman – non è che un caso particolare di come ciascun uomo abitualmente ragiona. Quasi tutto ciò che un uomo comune sa, infatti, e soprattutto ciò in base a cui orienta la sua vita, non è conosciuto secondo i metodi della logica o della scienza. Queste non sono il paradigma di ogni conoscenza, ma casi particolari da applicare nel proprio ambito. Sul fatto che la Gran Bretagna sia un’isola, che siano esistiti i classici latini, che dovremo morire – prosegue – la maggior parte di noi non ha certezze “scientifiche”, basate su prove dirette e dimostrazioni inconfutabili, ma certezze o evidenze che definisce “morali”: fondate su un’infinità di molteplici fattori, troppo complessi e sottili per essere ridotti a sillogismi, nessuno dei quali da solo sarebbe sufficiente a suscitare l’assenso; ma la cui molteplicità e “convergenza” verso un unico punto diventa fonte di una certezza più forte e impegnativa per la vita di qualsiasi conoscenza scientifica.

“La dimostrazione per una certezza morale è un complesso di indici il cui unico senso adeguato, il cui unico motivo adeguato, la cui unica lettura ragionevole è quella certezza” ripeterà instancabilmente un secolo più tardi don Luigi Giussani a migliaia di studenti, riprendendo pressoché alla lettera la formulazione newmaniana.



Nel 1879 Leone XIII gli impone la porpora cardinalizia.
Nel discorso di accettazione, Newman riassume il senso di tutta la sua opera nella “lotta contro il liberalismo” (dove il termine ha, evidentemente, un’accezione totalmente religiosa): “Il liberalismo in religione è la dottrina secondo cui non esiste verità positiva in religione, ma un credo vale l’altro e questa è la dottrina che sta acquistando forza e sostanza nei nostri giorni. Essa è incompatibile con qualsiasi riconoscimento di qualsiasi religione come vera. Essa insegna che tutto deve essere tollerato, perché tutto è opinabile. Religione rivelata non è verità, ma un sentimento e un gusto, non un fatto oggettivo, non un fatto miracoloso; ed è diritto dell’individuo di fargli dire solo quello che colpisce la sua fantasia”.

Così ebbe a commentare quasi cent’anni dopo Paolo VI: “Molti dei problemi che Newman affrontò con saggezza – anche se fu spesso malcompreso e male interpretato – sono stati l’oggetto della discussione e dello studio dei Padri del Concilio Vaticano II. Non solo il Concilio, ma anche il tempo presente può essere considerato in modo speciale ‘l’ora di Newman’”.

Non aveva tutti i torti.

martedì, dicembre 26, 2006

VOS ET IPSAM INTERNET BENEDICIMUS [2]


Ha bisogno di un Salvatore l’uomo che ha inventato la comunicazione interattiva, che naviga nell’oceano virtuale di internet e, grazie alle più moderne ed avanzate tecnologie massmediali, ha ormai reso la Terra, questa grande casa comune, un piccolo villaggio globale?
Messaggio Urbi et Orbi

lunedì, dicembre 25, 2006

Megalinario



"Axion estin" (dalla Divina Liturgia di san Giovanni Crisostomo)
E' veramente cosa giusta proclamarti beata, o Madre-di-Dio,
Tu che sei Beatissima e la Tutta Immacolata,
e la Madre del nosto Dio.

Noi glorifichiamo Te,
che sei più venerabile dei Cherubini
ed incomparabilmente più gloriosa dei Serafini!

Tu che senza corruzione hai partorito il "Logos" di Dio,
veramente Madre di Dio!
Veramente Madre di Dio!

“Epi soi chairei” (dalla Divina Liturgia di san Basilio Magno)
O Piena di Grazia, o Tempio santificato e Paradiso spirituale, vanto delle vergini, in te gioisce tutto il creato, la schiere degli Angeli e tutto il genere umano!

In te Dio si è incarnato e si è fatto bambino Colui che è il nostro Dio da prima dei secoli.
Egli ha fatto del tuo grembo il Suo trono e lo ha reso più vasto dei Cieli.

O Piena di Grazia, in te gioisce tutta la Creazione!
Gloria a te!


giovedì, dicembre 21, 2006

Emmanuel




Gloria a Te, Sapienza e "Logos" dell'Eterno Padre,
per quel progetto di salvezza che hai vissuto per noi.
Perchè così piacque al Padre a Te coeterno,
come a Te senza principio,
e allo Spirito Santo che fruisce di identica maestà.

Gloria alla Tua Bontà e alla Tua Clemenza
per i beni che a noi provengono
dalla Tua destra, sia privatamente che pubblicamente.

Nè evitiamo di darTi gloria, o Signore,
per tutto quello che sembra esserci contrario
ma non lo è mai in assoluto,
poichè tutto ciò che procede da Te, che sei il Bene,
non può essere altro che buono.

Benignissimo e incomprensibile Signore,
Tu hai voluto vivere un gesto d'umiltà
che supera ogni nostra capacità di capire!

Sei venuto a me, fatto simile a me, per salvare me:
e, dunque, compi l'opera che hai iniziato!
Che la Tua grazia infinita, o Cristo,
non sia inferiore ai miei delitti,
alla mia ingratitudine e alla mia durezza.

Ma poichè Tu puoi compiere ciò per cui sei venuto,
strappami dal ventre della belva che perde le anime!
rendi vano il furore col quale assale me
e la la sua ferocia contro di Te.

Tutto questo Ti chiedo, Signore,
ed è dolce sapere che quanto desidero
puntualmente accadrà.

Manuele II Paleologo, Imperatore (1348-1425)

mercoledì, dicembre 20, 2006

CASTRUM DOLORIS, III



"E' una presenza che trovo rispettosa di credenti e non credenti e anche di una storia del Paese e della sua cultura religiosa e popolare". Così si è espresso Fausto Bertinotti inaugurando il presepe della Camera dei deputati che la terza carica dello Stato ha voluto porre in bella mostra all'ingresso di palazzo Montecitorio per far vedere che i comunisti ancorchè assurgano allo scranno più alto di Montecitorio non mangiano i bambini ne tantomeno i bambinelli.

Nel cortile interno, invece, è stato allestito l'albero di Natale: "Mi paiono due cose ben riuscite, eleganti e sobrie allo stesso tempo" ha commentato Bertinotti.

Il presepe è in stile napoletano, con personaggi in terracotta abbigliati alla foggia del '700. Si tratta di un prestito fatto alla Camera da una collezionista, la signora Adelma Rita Giani.
La sacra famiglia, circondata da pastori, pecore e una colomba, si trova al centro di un tempio antico, e non in una grotta, secondo quello stile napoletano che vuole cosi' rappresentare l'avvicendamento tra paganesimo e cristianesimo.

Ciò per cui aveva fatto notizia il presepe di Montecitorio era la mancanza del bue e dell'asinello con l'ingiustificabile giustificazione data dalla proprietaria del presepe che: ''Nel Vangelo non c'è scritto esplicitamente che ci fossero il bue e l'asinello''. L'ulteriore inutile tributo pagato al politically correct!

Invece l'artistico manufatto è assurto a maggior gloria mediatica mercè la provocazione di due deputati della "Rosa nel Pugno", Bruno Mellano e Donatella Poretti, che hanno posto due Barbye lesbiche e due gaii Ken accanto al Divino Infante. Le due coppie postmoderne a guisa dei pastorelli settecenteschi non si sono presentati certo a mani vuote davanti a Gesù Bambino ma hanno "donato" alla Sacra Famiglia dei cartelli indicanti la loro richiesta di costruirsi una famiglia non sacra.

Subitamente i cattolicissimi onorevoli si sono ammantati di sacro zelo (non per la Casa di Dio ma per la greppia Sua!) lamentando l'affronto e l'offesa ai "valori" cattolici e alla "sensibilità" dei cattolici.

Evincerei da ciò che del Bimbo Gesù nessuno si sia veramente preoccupato (forse perchè non ha l'età per votare) ma si sia pensato alla reazione dei cattolici. Similmente anche i "rosapugnisti" ben poco si sono preoccupati di sottoporre la loro preghiera a colui che disse "senza di me non potete far nulla" ma hanno usato la Vergine Madre e il suo castissimo sposo abbigliati in settecentesche granaglie per fare un bambinesco dispettuccio al Vaticano.

Se non fosse per l'esplicita volontà blasfema dei radicali non troverei nulla di teologibamente esecrabile nella presenza di lesbiche e affini incamminati verso la mangiatoia. Non trovo teologicamente strano un gay nel presepio più del pastorello venditore di porchetta poichè il Salvatore venne per tutti. Il sostrato teologico che anima il presepe napoletano del settecento è infatti la vivissima percezione del mistero dell'Incarnazione. "La Luce venne nelle tenebre", Dio si è fatto carne, il Creatore del mondo è sceso corporalmente nel mondo: in "questo" mondo, nel mio mondo fatto di pescivendole e damine che perdono tempo a specchiarsi; di uomini panciuti che passano le giornate all'osteria... e di gay che passano il tempo a fare manifestazioni sui pacs.

Giorni addietro hanno fatto scandalo a Bologna le statuine di Moana Pozzi e di Prodi in un presepe, anni addietro Osama Ben Laden. A parte il fatto che non ricordo se Ben Laden fece scandalo perchè si trovava presso la mangiatoia invece che stare nel Palazzo di Erode, io mi scandalizzo per quei buoni cristiani che nonostante aver ascoltato tante prediche (o forse per questo?) non s'accorgono dell'autentico "scandalo": cioè l'Incarnazione.
Gesù Cristo è nato per tutti ( o come oggidì gli esegeti amano tradurre: per "i molti")!

sabato, dicembre 16, 2006

Parole sante, Signora mia! 2

Ovvero: Il quarto segreto di Fatima



All'inizio del suo libro, Antonio Socci narra la genesi del suo pamphlet: ovvero la volontà polemica di zittire i cosiddetti "fatimidi" che accusano il Vaticano di non aver detto tutto sui segreti di Fatima; i più oltranzisti dei quali addirittura sostengono che il testo del terzo segreto svelato nel 2000 sia null'alto che un falso!

Il libro di Socci è pertanto il frutto dell'inquieta costatazione che a guardare attentamente le carte i "fatimidi" non hanno poi tutti i torti.

Il libro è, pertanto, sconsigliato ai paladini di Giovanni XXIII così come agli estimatori del cardinal Tarcisio Bertone che, al pari del Richelieu di Dumas padre, per il buon Socci è il responsabile di errori e leggerezze madornali (o dovrei dire "madonnali" visto l'argomento?).

E' a Tarcisio Berone, oggidì cardinale Segretario di Stato di Sua Santità Benedetto XVI e allora segretario della Congregazione "per la dottrina della fede" (presieduta dall'allor cardinal Ratzinger)che da Antonio Socci vengono imputati una mancanza di chiarezza nei metodi che hanno portato alla rivelazione del terzo segreto di Fatima e soprattutto mancanza di limpidezza sul come si siano svolti i colloqui di Bertone con Suor Lucia prima e dopo il 13 maggio del 2000.

Il giallo sul "quarto" segreto di Fatima nasce proprio dalle parole di Tarcisio Bertone nella "Presentazione" del testo del segreto pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana.
Per Bertone è incontestabile che Giovanni Paolo II abbia letto il segreto solo dopo l'attentato del 13 maggio 1981. Gli fu portato dall'allora Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede cardinal Seper e il papa lo lesse in data 18 luglio 1981.
Fin qui nulla da eccepire. Ma poi Bertone al capoverso successivo dice che "dopo" Giovanni Paolo II volle che si facesse un solenne atto di affidamento del mondo al cuore immacolato di Maria e che scrisse di suo pugno una preghiera a tale scopo che fu letta in una celebrazione apposita in Santa Maria Maggiore in data 7 giugno 1981.
Come è possibile che Giovanni Paolo II "dopo" aver letto il segreto il 18 luglio conponga una preghiera che viene fatta leggere il 7 giugno cioè un mese e mezzo prima?
Il giallo parte da qui. E' solo una svista o Bertone è stato involontariamente troppo sincero?


La prospettiva è affacinante, ma la spiegazione che io modestamente darei a Socci (e ai suoi compari complottisti) è che monsignor Bertone non si stesse riferendo al "dopo" la lettura del segreto ma al "dopo" l'attentato del 13 maggio! Infatti la richiesta di consacrazione del mondo - in verità della Russia e solo della Russia!- al cuore immacolato di Maria non è contenuto nel terzo ma nel secondo segreto di Fatima noto fin dal 1941.

Facciamo allora un passo indietro.
Sempre nella cronistoria del segreto fatta ne 2000 da Berone egli scrive che Paolo VI lesse "il segreto" in data 27 marzo 1965 e che lo rimandò all'archivio del Sant'Uffizio. Loris Capovilla sostiene invece che Paolo VI lesse il segreto il 27 giugno del 1963.
Monsignor Capovilla era il segretario personale di Giovanni XXIII e dopo la morte del papa continuò a lavorare in Segreteria di Stato.
Papa Roncalli morì il 3 giugno 1963 ed il 21 giugno fu eletto Paolo VI. Sei giorni dopo l'elezione, quando ancora non si era svolta nemmeno la cerimonia dell'incoronazione, la mattina del 27 giugno Papa Montini ricevette in privata udienza il vescovo di Fatima. Nel pomeriggio a casa di Monsignor Capovilla dall'appartamento papale gli giunse una telefonata in cui gli si chiedeva dove fosse il terzo segreto di Fatima.
Monsignor Capovilla non rispose dicendo di chiedere al Sant'Uffizio ma rispose: "Sta nel cassetto di destra della scrivania detta Barbarigo, in stanza da letto"!
Come faceva il testo del terzo segreto a trovarsi contemporaneamente nell'archivio segreto del Sant'Uffizio e nella camera da letto del Papa? Come spiegare razionalmente tale bilocazione?

La risposta razionale che io darei sarebbe quella di ritenere la possibilità di due versioni del medesimo segreto. Giovanni XXIII dopo aver letto il segreto nel 1959 potrebbe averne fatto fare una copia in italiano che tenne presso di se rimandando l'originale al Sant'Uffizio. La mia ipotesi troverebbe una chiara conferma nel fatto che il cardinal Seper nel 1981 portò a Papa Wojtyla due buste di colore diverso una contenente la versione originale l'altra una traduzione italiana (fatta fare da Giovanni XXIII?).
Mi è parso strano (e colpevole) che questo particolare delle due buste non venga mai rivelato da Socci.



Facciamo un'altro passo indietro.
Il 4 aprile 1957 la busta con il terzo segreto assieme ad altri scritti e memorie di Suor Lucia giungono all'Archivio Segreto del sant'Uffizio guidato dal cardinal Alfredo Ottaviani. Il cardinale Ottaviani dal Sant'Uffizio portò la busta a Giovanni XXII in data 17 agosto 1959; la busta era ancora sigillata; papa Giovanni la aprì e la lesse, decise di non rivelarne il contenuto e la rimandò al Sant'Uffizio.

Però nei racconti di come avvenne e di chi fu presente a quella lettura le testimonianze divergono. Alcuni sostengono che quando Giovanni XXIII lesse il segreto era presente solo Ottaviani e che il papa capì il significato senza bisogno di traduzioni, altre versioni parlano di più persone presenti oltre ad Ottaviani e del fatto che fu chiamato un monsignore portoghese per tradurre delle "espressioni ostiche".
Come è possibile, si chiede Socci, che di uno stesso evento vengano date "letture" così poco combacianti?
A meno che le testimonianze non si riferiscano alla lettura di due diversi e distinti segreti di Fatima. Noi conosceremmo, perciò, la data in cui fu letto il segreto conservato dal sant'Uffizio.

Altro passo indietro.

Nel 1957 Pio XII diede il permesso alla rivista "Paris-Match" di realizzare un servizio fotografico nel suo appartamento privato. Quando il 14 maggio '57, cioè un mese dopo l'arrivo del terzo segreto a Roma, il fotografo Robert Serrou entrò nella camera da letto di Pio XII fu subito attratto da una piccola cassaforte di legno accanto al letto su cui era la scritta "Secretus Sancti Offici". Quando il fotografo curioso chiese spiegazioni a suor Pascalina Lehnert, la fida collaboratrice di Papa Pacelli, si sentì rispondere: "lì dentro è contenuto il terzo segreto di Fatima".

Perchè il segreto si trovava lì mentre risulta essere stato posto nell'archivio segreto del Sant'Uffizio?
Si potrebbe obbiettare che il Papa in persona era il prefetto del Sant'uffizio e perciò che se il segreto stesse presso il papa o presso "la suprema congregazione" era la medesima cosa.
Se però la cassaforte col segreto rimase nell'appartamento di Pio XII fino alla sua morte, perchè risulta che a Giovanni XXIII il segreto fu portato dal cardinal Ottaviani? E se il segreto lo aveva il Cardinal Ottaviano chi aveva osato, durante la sede vacante, aprire la cassaforte del papa nell'appartamento chiuso con i sigilli?
E' mai plausibile?
Ecco che riemerge pressante l'ipotesi che tutto diverrebbe plauisibile se si ammettesse la possibilità dell'esistenza di due differenti segreti di Fatima.



Nel 1967, nel cinquantenario delle apparizioni, il cardinal Ottaviani, uno dei pochissimi ad essere a conoscenza del segreto di Fatima, in una conferenza alla domanda su dove si trovasse materialmente "ora" il testo del segreto rispose di non saperlo e che il Santo Padre lo aveva mandato in uno di quegli archivi che sono "come un pozzo nero" dove le carte spariscono.
Dichiarazione che non può non lasciare allibiti dato che noi sappiamo che in qualità di pro-prefetto del Sant'Ufficio era lui, e il suo archivio, il responsabile della custodia del segreto! Risulta infatti dagli atti che dopo averlo letto nel 1965 Paolo VI rimandò la busta all'archivio del Sant'Ufficio e da quel medesimo archivio (della ribattezzata Congregazione per la dottrina della Fede) il cardinal Seper, successore di Ottaviani, la consegnò nel 1981 a papa Wojtyla!

Sempre Ottaviani nel '67 dice che Lucia: "ha scritto su un unico foglio ciò che le ha detto la Vergine di riferire al Santo Padre".

Da questa affermazione al buon Socci scaturiscono due considerazioni:

1) Il testo reso noto nel 2000 si potrebbe anche definire "un unico foglio", ma si tratta di un foglio staccato dal mezzo di un quaderno perciò si potrebbe dire anche che sono due fogli, o anche quattro paginette di quaderno.
E se non bastassero i dubbi abbiamo la "confessione" del vescovo ausiliare di Fatima nel 1957 che, dopo aver preso la busta dalle mani dell'anziano vescovo di Fatima che si rifiutà ripetutamente di aprirla e prima di consegnarla al Nunzio apostolico, ha dichiarato di aver osservato controluce il contenuto della busta. Non è riuscito però a leggere il testo che ha dichiarato essere di venti o venticinque righe vergate su di un unico foglio.
Possiamo anche biasimare la curiosità del monsignore, ma dobbiamo riconoscere che la descrizione che ne fa è difforme dal testo a noi tutti noto.

2) Per quarantanni le alte gerarchie hanno sempre detto che il segreto non veniva rivelato perche "le parole" della Madonna avrebbero potuto impressionare ed essere mal interpretate. Lo stesso Ottaviani nel passo citato dice che Lucia mise per iscritto "un messaggio" della Madonna al Papa.

Nel processo di beatificazione dei cuginetti Francesco e Giacinta, Suor Lucia interrogata nel 1946 dichiarò che: "Il testo delle parole di Nostra Signora" fu scritto e sigillato in una busta consegnata al vescovo di Fatima.

Ma nel segreto svelato nel 2000 non ci sono parole della Madonna! E' una visione: a narrarla è Lucia che ha visto la città in rovina e il vescovo vestito di bianco cadere morto. Vede la Madonna e vede un angelo, con in mano una spada di fuoco, che dice per tre volte "Penitenza!". Le uniche "parole" sono quelle dell'angelo e non di Nostra Signora che per tutto il racconto della visione compare come attore muto.

La domanda che ci si può porre è: dove sono le parole di Nostra Signora?

Si trovano forse alla fine del "secondo segreto" dove si dice che: "In Portogallo si manterrà il dogma della fede ecc..."?
Stà forse in quell'eccetera "le parole" e "il messaggio" dell Vergine di Fatima a commento della visione del "vescovo vestito di bianco"?

L'ipotesi potrebbe essere non del tutto peregrina. Che cos'è infatti il "primo segreto di Fatima" se non la visione dell'Inferno? E che cos'è il "secondo segreto di Fatima" se non un commento e una giustificazione del perchè di quella visione?

Seguendo questo sche ma si potrebbe ipotizzare che anche per la seconda visione, il cui contenuto è stato reso noto nel 2000, la Santa Vergine abbia voluto dare ai tre pastorelli delle spiegazioni di ciò che avevano appena visto: sarebbero queste le "parole" che Pio XII conservava in camera sua e che i Papi successivi hanno letto disgiuntamente dal testo della visione conservato dal Sant'Uffizio.

Paura e...?



La grande critica che mi sento di fare a Socci e a molti altri con lui, è lo stupirsi per il fatto che la Santa Sede abbia voluto nascondere per quarant'anni il racconto- seppur allegorico- di un attentato al papa.
A me non sembra affatto che sia una rivelazione poco sensazionale perchè il mondo è pieno di pazzi esaltati che in ogni tempo e con ogni papa sarebbero stati onorati di adempiere la profezia omicida.

Il merito di Sodano -vista la ferma volontà di Giovanni Paolo II di renderla nota- è stato quello di presentare la profezia come già realizzata ottenendo tre risultati.
1)Evitare che altri fanatici in nome della Madonna di Fatima attentassero nuovamente a Giovanni Paolo II e ai suoi successori.
2) Presentare Giovanni Paolo II quale miracolo vivente poichè era "scritto" che "doveva" morire ma La Madonna lo ha salvato; implicitamente presentando tutto il pontificato wojtiliano quale opera più divina che umana.
3) A gloria della fede cattolica e della dottrina del primato pontificio e ad incremento della devozione per la Vergine Maria.

"Le parole sono importanti" e leggendo il panphlet di Socci ci si accorge che l'autore ha notato che nel 2000 da nessuna parte si dice che il terzo segreto è stato "pubblicato" ma si dice sempre che ormai è stato tutto "rivelato", dando così la stura a tutte le congetture che già sappiamo.

Socci congettura che in realtà i papi pur non rivelando le parole esatte del segreto ne hanno comunque a più riprese comunicato lo "spirito" che sarebbe l'invito alla conversione per scongiurare i castighi di Dio. Quale pezza d'appoggio cita le omelie dai riferimenti apocalittici usati sia da Paolo VI sia da Giovanni Paolo II nelle loro omelie pronunciate a Fatima.

Su questo punto bisogna tirargli le orecchie perchè Antonio Socci dovrebbe ben sapere che le omelie si fanno a commento delle letture della messa e la messa votiva della Madonna di Fatima ha la prima lettura tratta dal capitolo 12 dell'Apocalisse. Cioè la visione della donna vestita di sole, del dragone rosso, e della guerra di san Michele e dei suoi angeli contro il drago!

I papi a Fatima hanno sempre fatto delle omelie "apocalittiche" perchè stavano commentando un passo del libro dell'Apocalisse di Giovanni e non del terzo segreto di suor Lucia!

Epperò confesso che, nonostante le obbiezioni che mi son fatto, leggendo Socci il dubbio mi è venuto e non mi abbandona più.

martedì, dicembre 12, 2006

CASTRUM DOLORIS, II

Sive: dogmate papali datur ac simul imperiali

Le quattro Basiliche patriarcali di Roma si chiameranno d’ora innanzi Basiliche “papali”. Lo ha annunciato -lunedì 11 dicembre anno Domini 2006_ il Cardinale Andrea Cordero Lanza di Montezemolo, Arciprete della (non più "Patriarcale") Basilica di San Paolo fuori le Mura.


In occasione di una conferenza stampa tenutasi per annunciare la fine delle indagini archeologiche sotto l'altare papale ed il ritrovamento del Sarcofago di San Paolo Apostolo, il porporato ha dichiarato che Benedetto XVI ha riveduto gli statuti delle Basiliche maggiori che d'ora in poi non avranno il vetusto onorifico titolo di "patriarcale".

Le motivazioni addotte dal signor cardinale arciprete sono che: “molti interpretavano che il titolo di Patriarcale volesse alludere al fatto che il Papa esercitasse, mediante queste, un suo titolo di Patriarca d’Occidente, in contrasto al Patriarca d’Oriente, cosa che non è per niente vera”.

Benedetto XVI ha invece deciso di rinunciare, in parte per ragioni ecumeniche, al titolo di “Patriarca d’Occidente”, che infatti ha fatto espellere dall’Annuario Pontificio della Santa Sede.

“Le quattro Basiliche erano state date nei tempi passati, dai Papi, come base in Roma per i Patriarchi orientali cattolici, non come titolo ufficiale”.
“Quindi, il Papa ha deciso che d’ora in poi le quattro Basiliche maggiori si chiamino ‘Basiliche papali’”, ha poi concluso.

Amen dico vobis.
Volontà del Papa volontà di Dio: ripetevano i santi!

Il Romano Pontefice è liberissimo di modificare, ammodernare e riformulare gli statuti delle sue basiliche, sue poichè per i Patti Lateranensi fanno parte integrante dello Stato della Città del Vaticano. Sue proprie perchè dotate di altare maggiore sul quale fino a pochi decenni or sono solo il Pontefice gloriosamente regnante poteva "funzionare", oppure vi poteva celebrare un eminentissimo porporato su delega del pontefice e solitamente alla presenza della sua augusta persona.

Confesso di non aver molta voglia di spiegare le mie perplessità, non sulla decisione papale di eliminare l'appellativo di patriarca dai suoi titoli e di patriarcale alle sue basiliche ma sulle motivazioni addotte (nell'uno e nell'altro caso).

Sarebbe bastato dire: "così è perchè così il papa vuole" invece di ricercare motivazioni storiche ben poco fondate.
Vengo infatti a scoprire che fino adesso noi blebaglia eravamo convinti che "mediante queste" basiliche patriarcali il papa esercitasse le sue prerogative di Patriarca della Chiesa di rito latino! Sicchè l'eminentissimo Cordero Lanza è venuto a fugare la generale e sembra quasi superstiziosa convinzione che fossero le basiliche ad avere la virtù di dare al Vescovo di Roma il potere giurisdizionale su tutte le diocesi di rito latino! Grazie Eminenza di aver dissipato quest'errore (che Ella ha creduto di scorgere nelle nostre fragili menti) ma non ci ha spiegato il perchè il papa pur rigettando il titolo di patriarca ne eserciti le funzioni.

Ulteriore nota di biasimo all'eminentissimo: le basiliche "Maggiori" o (fino ad ora) "patriarcali" non sono quattro ma sono cinque: 1)San Giovanni in Laternao (l'Arcibasilica); 2) san Pietro in Vaticano; 3) san Paolo; 4)Santa Maria Maggiore; 5) san Lorenzo al Verano!

Di "San Lorenzo fuori le mura" tutti si dimenticano, perchè non vi è una porta santa e perchè non è territorio extraterritoriale e a quanto pare se ne è dimenticato anche il cardinale Montezemolo.

Antica è, infatti, l'usanza di significare nelle cinque (cinque e non quattro!) chiese maggiori dell'Urbe le cinque maggiori Chiese dell'Orbe ovvero i patriarcati maggiori di cui Roma è il primo dei patriarcati (e il papa è il primo fra i patriarchi). Non si capisce perciò quale sia il vantaggio ecumenico specialmente con le Chiese ortodosse nell'abolire il titolo (ma non le funzioni!) di patriarca d'Occidente.

Nell'ordine onorifico dopo Roma viene Costantinopoli, poi Alessandria d'Egitto,Antiochia e Gerusalemme. Non risulta che i patriarchi dell'Oriente (i patriarchi e non "il" patriarca d'oriente come dice il cardinale Cordero!) durante il primo millennio fossero soliti soggiornare presso il loro collega d'Occidente. Anche il papa di Roma non amava recarsi in Oriente: i papi non hanno mai partecipato personalmente a nessun concilio ecumenico e le poche volte che si recarono a Costantinopoli vi furono condotti contro la propria volontà (e di solito in catene).

Il far coincidere l'ordine delle basiliche maggiori all'ordine dei patriarchi maggiori, fu perciò un vezzo antico e venerando, ma pur sempre un vezzo privo di un qualsiasi riscontro storico! Pensare che la basilica di San Pietro sia stata per oltre mille e cinquecento anni chiamata dagli stessi Pontefici Romani col titolo "patriarcale" perchè i papi erano convinti che fosse la residenza romana dell'arcivescovo di Costantinopoli parmi teoria insostenibile. E'sempre stata detta patriarcale perchè pur non essendo residenza papale (i papi alloggiava stabilmente al Laternao) era residenza saltuaria dei papi, San Pietro assieme alle altre tre basiliche poichè i papi, e la corte pontificia, vi si recavano in sontuoso corteo per alcune solennissime ricorrenze liturgiche.

Mettiamola così: Benedetto XVI -cooperator veritatis!- ha voluto mettere fine ad una pia bugia ecumenica dicendo, per bocca del cardinale Cordero Lanza di Montezemolo, che i patriarchi bizantini non hanno mai avuto una residenza ufficiale a san Pietro, san Paolo, santa Maria Maggiore e san Lorenzo.
Amen.

Post Scriptum: del fatto poi che, pur avendo tolto l'altare di san Timoteo dal'emiciclo della "Confessione" ricavata davanti all'altare maggiore della basilica ostiense, non si riesca a vedere il sarcofago con i resti di san Paolo, io direi che ciò non può sorprendere chi è a conoscenza del fatto che Gregorio XVI e Pio IX -in illo tempore- hanno dato il loro assenzo a qualcosa che è fonte di orrore per ogni lefevriano.

CASTRUM DOLORIS



Torino, parrocchia Santo Volto, venerdì 8 Dicembre 2006.
Il cardinale arcivescovo Severino Poletto così comincia l'omelia per la dedicazione del più recente edificio di culto cattolico edificato nella metropoli subalpina:
"Questo è un momento importante per la nostra Arcidiocesi e per tutta la Città di Torino. Stiamo infatti vivendo una Celebrazione eucaristica che riveste una particolare solennità e ci dà una grande gioia spirituale nel cuore perché tra poco compirò il rito di dedicazione al culto di Dio Padre, Figlio e Spirito Santo di questa stupenda chiesa intitolata al Santo Volto di Cristo, a noi vivamente richiamato dal Volto impresso sulla Santa Sindone.
Non posso iniziare questa mia riflessione senza ringraziare il Signore, la Vergine Immacolata di cui oggi ricorre la solennità, il suo sposo San Giuseppe, al quale mi sono raccomandato per arrivare a completare l’opera senza rischi economici per la Diocesi. È per un dono speciale della Provvidenza divina se noi oggi siamo qui a pregare ammirando questa meravigliosa opera d’arte che è questa chiesa progettata dall’architetto Mario Botta, che ancora una volta voglio ringraziare insieme a quanti hanno collaborato col lavoro di realizzazione e con aiuti economici.
Fatta questa premessa ora è il momento di entrare nella riflessione spirituale che parte dal messaggio della Parola di Dio, passa all’esaltazione della bellezza come strada per scoprire e gustare l’infinito splendore del Creatore per giungere infine a formulare un augurio spirituale a questa nuova parrocchia e a tutta la nostra comunità diocesana."


In precedenza il porporato aveva elevato parole di vivo apprezzamento per l'opera d'arte sacra realizzata dall'architetto ticinese Mario Botta:

"È con grande commozione ed altrettanta soddisfazione che finalmente possiamo contemplare ormai realizzata l’opera denominata “Complesso del Santo Volto”, che comprende una Chiesa, straordinaria nelle sue linee moderne e cariche di fascino, le opere parrocchiali a servizio di una nuova comunità che già oggi conta 12.000 abitanti, tutti gli uffici della Curia Metropolitana con annesso sufficiente parcheggio ed un Centro Congressi finalizzato ad iniziative culturali promosse dalla Diocesi.
Sono convinto che questa opera non sarà solamente una chiesa in più per la nostra città, ma una vera realizzazione di architettura sacra moderna di elevato valore artistico sia per la fama internazionale di colui che ha firmato l’intero progetto, l’Architetto Mario Botta, sia per lo straordinario risultato ottenuto e che ora è sotto gli occhi di tutti.
Questa nuova chiesa è dedicata al Santo Volto di Cristo, misteriosamente a noi richiamato dalla Santa Sindone, che la Chiesa torinese ha il privilegio di custodire, Volto che con grande capacità ed ispirazione l’Architetto Botta ha riprodotto sulla parete absidale all’interno dell’edificio."


Se fossi stato presente al discorso del cardinal Poletto mi sarei alzato in piedi e gli avrei chiesto dove vedesse l'abside!
L'abside ha una forma semicircolare coperta da una semicupola ragion per cui nemmeno ad un porporato è lecito reinterpretare i nomi delle forme architettoniche e chiamare ogni parete che -più o meno casualmente -venga a trovarsi dietro all'altare col nome di "abside"!

Purtroppo l'arte moderna continua ad essere una vera spina per l'arte sacra e non solo per la chiesa della Spina 3 di Torino!
Comunque pare che ai fedeli piaccia; lo scrive il giornalista Andrea Rossi sulla Stampa del 9 dicembre: I fedeli promuovono il Santo Volto "E' meraviglioso"
«Il Signore ci doni la gioiosa certezza che con questo edificio noi abbiamo voluto porre in questo territorio, lungo un tempo tipicamente segnato dal lavoro umano, uno splendido segno della sua presenza. Sono le 17 di un piovoso pomeriggio quando il cardinale di Torino Severino Poletto chiude la sua omelia nel giorno dell’Immacolata, che coincide con quello della consacrazione della chiesa del Santo Volto, davanti a oltre un migliaio di fedeli.

A centinaia sono rimasti in piedi, i posti a sedere erano finiti da un pezzo. Sguardi all’insù, a contemplare l’immagine del volto della Sindone tradotta in pixel che campeggia dietro l’altare. C’è anche chi è rimasto fuori, e scruta quella ciminiera che fa da campanile e ricorda ciò che sul quel suolo sorgeva fino a qualche anno fa, una fonderia. Cittadini comuni, per lo più, ma anche illustri personalità, come il banchiere Enrico Salza, seduto in prima fila accanto all’architetto Mario Botta.

I torinesi hanno gremito la nuova chiesa e apprezzato il complesso che ospiterà la Curia, costruito sulla Spina 3, zona di periferia. «È giusto che sia così - commentava all’uscita Elena Castelletti, una giovane fedele -. La Chiesa deve raggiungere le periferie: l’idea che sposti il suo centro nevralgico verso le zone esterne della città è un segnale positivo».

Piace alla gente di Torino l’imponente costruzione che porta la firma dell’architetto Botta. Alcuni hanno rinunciato al ponte dell’8 dicembre, sono rimasti in città per assistere alla funzione, come Ignazio e Maria Lucia Mammina. Quasi tutti escono al termine della funzione quasi rapiti. «È bellissima. Abito qui vicino, ho seguito passo dopo passo la sua nascita e ora che è finita devo dire che è uno splendore. E poi quel volto là in fondo, così grande, così commovente: lascia senza parole». Lo spiega Carmen Marcugli, la giovanissima figlia tenuta per mano mentre insieme escono dalla chiesa per rientrare a casa. Bella, splendida. Sono le parole più ricorrenti. E proprio la bellezza, cifra comune dei pareri dei torinesi, è il filo conduttore del discorso del Cardinale. «Come non contemplare lo splendore di bellezza che emana questa chiesa? Come non vedere l’ingegno di chi l’ha progettata e non riconoscere anche in questo un dono di Dio fatto a lui e di conseguenza a tutti noi?», dice Poletto.

Mentre all’interno la funzione volge al termine, fuori, sul sagrato, ancora piove e alcuni fedeli cominciano a sfollare. Negli occhi ancora immagini della cerimonia: il cardinale Poletto che benedice i muri dell’edificio, la musica che sgorga dall’organo immenso.

Ma c’è anche chi mastica amaro e non apprezza. Come Saverio Naso. Se ne sta in un angolo lontano del sagrato. «Ho lasciato moglie e figlio dentro e sono venuto a prendere una boccata d’aria perché sto male. Tutto questo sfarzo mi fa impressione, sono soldi buttati. Ma lo sanno quante iniziative molto più importanti e utili si sarebbero potute realizzare? Certo che è bella, ma è una cattedrale nel deserto, dove il deserto è la miseria che si vede in molte zone della città». Parole forti, di critica graffiante nei confronti delle scelte fatte dai vertici della curia Torinese. Ma questa è davvero l’unica voce fuori dal coro. Anche perché, dicono in tanti: «La chiesa locale non si è mai tirata indietro di fronte alle necessità di chi soffre. Torino è un esempio per molte altre realtà nazionali».

Se c’è una critica di fronte alla quale quasi tutti chinano il capo è quella di Renata Nicoli, una pensionata che se ne sta in piedi al fondo della chiesa e guarda con gli occhi luccicanti ogni angolo della struttura. «Bellissima. Davvero impressionante» dice. «Peccato che sia lontana, molto lontana dal centro. E venire fin qui con i mezzi pubblici è un impresa: c’è un solo tram che porta in questa zona, il numero tre. Per noi pensionati questo è un problema. Ma, insomma, non facciamone un dramma. Siamo in un luogo di culto splendido. Pensiamo a pregare».




Dobbiamo, ahimè, rassegnarci all perversione dello sguardo del fedele cattolico del XXI secolo che si esibisce in slanci mistici di fronte a pareti di mattoni a vista e colate di cemento?

Di tale inevitabile sciagura non si dà pace l'orrido Langone che, pieno di zelo per la casa di Dio, ha paragonato l'architettura della moderna chiesa torinese all'architettura dei campi di sterminio nazisti:

"Caro Mario Botta,
paragonando la tua nuova chiesa torinese ad Auschwitz io avrò “profanato la memoria della cultura operaia”, come hai pomposamente dichiarato alla Stampa, giornale notoriamente amico degli operai, tu però costruendola hai profanato il Volto Santo che dà il nome all’edificio. Il che è più grave, almeno per me che sono cristiano.

Tu non lo sei, tu sei un architetto per tutte le stagioni e tutte le religioni, hai costruito una sinagoga, stai progettando una moschea, hai trasformato il vecchio “Francia e Spagna purché se magna” nel più attuale “Dio o Allah abbiamo da campà”.
Purtroppo non sei cristiano anche se frequenti preti e cardinali nessuno dei quali, che Dio li perdoni (io non ci riesco), ha trovato il tempo per spiegarti importanza e significato delle ultime parole di Gesù agli apostoli: “Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”. Avessi leggiucchiato il Vangelo sapresti che essere cristiani è compatibile con tutto, anche con l’essere un architetto seriale e poco originale (chissà perché le tue cose migliori mi ricordano sempre Aldo Rossi), con tutto ma non con un’attività di propaganda monumentale a favore di altre religioni.

Non voglio risolvere in dileggio questa mia lettera anche se la mia stima nei confronti dell’architetto Botta è bassissima, siccome in strada Garibaldi a Parma devo passarci una volta al giorno e la tua vacua presunzione non solo la vedo ma la sento, confitta nell’anima della mia città. Nella mia anima, quindi. Al posto del Palazzo Ducale (Maria Luigia: mai sentita nominare?) tu hai messo un pratino, e delle vasche, e dei faretti che passato poco tempo dall’inaugurazione sono in buona parte rotti così che gli spacciatori africani possano meglio spacciare, e qualche volta, a loro discrezione, accoltellare.
[...]
Non voglio dileggiarti ma purtroppo le tue opere parlano da sole. Tu hai detto alla Stampa che sono un “perverso dentro” e ci hai preso. Non so come hai fatto ma ci hai preso, mi eccito in strani modi, sono proprio un cattivo ragazzo. Il problema è che tu sei un perverso fuori.
Io faccio del male a me stesso, tu a intere città. Non ho mai incontrato l’uomo Botta ma conoscenti comuni ti descrivono affabile, disponibile, alla mano. Non ne dubito. Io sono un mostro devoto e tu sei la brava persona che costruisce chiese che umiliano Dio perché lo rinchiudono in forme non proprie che potrebbero essere di banche, industrie,centri commerciali.

A Torino hai costruito una chiesa che non sembra una chiesa e anche in questo sei poco originale, Mario, perché da decenni centinaia di tuoi colleghi fanno altrettanto. Non lo dico soltanto io, lo dice anche Marcello Veneziani nel suo “Contro i barbari”: “Ma perché la chiesa di Monte Sant’Angelo mi ricorda ancora la fede, il sacro e la civiltà cristiana e quella avveniristica di San Giovanni Rotondo mi ricorda la palestra o l’auditorium?”. Ma Veneziani è di destra quindi non conta.

Lo dice anche Giovanni Lindo Ferretti nel suo “Reduce” ma Ferretti ama il latino liturgico quindi non conta nemmeno lui, i tuoi progetti sono rivolti a palati post-conciliari.
Lo dice anche Mauro Corona nel suo “I fantasmi di pietra” ma Corona è un montanaro, al massimo capirà di galli cedroni.
Purtroppo per te lo dicono anche gli scrittori urbani dell’antologia “Periferie” edita da Laterza (autori non di destra e non lefevriani, garantito). Emidio Clementi descrive sconsolato una chiesa bolognese del quartiere Barca: “Entrata di vetro più simile all’ingresso di un ambulatorio che a quello di un tempio”. Silvio Bernelli parla di una chiesa torinese, non la tua, un’altra: “La colata di cemento che sale fino al campanile sembra un trampolino per lo sci”. Insomma queste chiese anonime non convincono nessuno, né giovani né vecchi, né atei né credenti. Non convincono nemmeno il Papa: “Nell’arte sacra non c’è spazio per l’arbitrarietà. Dalla soggettività non può venire alcuna arte sacra” (Joseph Ratzinger, “Introduzione allo spirito della liturgia”).

La tua chiesa del Volto Santo non è brutta e non è bella, semplicemente non funziona come chiesa. Sarebbe un’esaltante centrale nucleare con quei grossi sfiatatoi, ricorda la centrale elettrica inglese che appare sulla copertina di “Animals” dei Pink Floyd. Disgraziatamente non esercita alcun richiamo religioso e fa venire voglia di andare a pregare da un’altra parte, magari in moschea, chissà.

E il campanile, Mario, dov’è il campanile?

A te non piacciono i campanili, lo so, perché tu vuoi la privatizzazione della fede. Già con la facciata della chiesa di Genestrerio, in Canton Ticino, dimostrasti avversione per i segni visibili del cristianesimo, impegnandoti allo spasimo per occultare il campanile pre-esistente.
A Torino al Volto Santo hai sfruttato la presenza in loco di una vecchia ciminiera, “memoria della cultura operaia”, per evitarlo del tutto, il campanile. Quella vecchia ciminiera mi ha ricordato Auschwitz e il paragone ti ha turbato. Mi dispiace ridirtelo ma Auschwitz c’entra eccome, in entrambi i casi siamo nel campo dell’estetica industriale. Disumana. A Torino al posto di una chiesa hai eretto un monumento al lavoro e ogni monumento al lavoro ha una sola didascalia possibile: “Arbeit macht frei”.

Tu e i tuoi plauditores siete convinti che per ottenere il sacro basti aggiungere retorica al nichilismo, e vi sbagliate. Solo Cristo rende liberi, Mario: devi andare a catechismo prima di fare altri danni.
Camillo Langone ( Il Foglio, martedì 12 dicembre 2006)

domenica, dicembre 10, 2006

Lauretana

Donna, se' tanto grande e tanto vali,
che qual vuol grazia e a te non ricorre
sua disianza vuol volar sanz'ali.
(Paradiso XXXIII, 13-15)

sabato, dicembre 09, 2006

Il presepe spiegato alle ragazze


Ovvero: Epistola -qui riproposta in versione purgata ed emendata- pubblicata dal Foglio (sabato 9 dicembre 2006) in cui l'orrido Langone si fa apostolo dell'arte presepiale.

«Carissima Giovanna,
mi raccomando, l’albero no.
(...)gli abeti sono piantati nei giardini delle villette da uomini malvagi con l’intenzione di trasformarli a dicembre in alberi di Natale.
Così come la moneta cattiva scaccia quella buona, l’albero scaccia il presepe. Ci può essere una fase di compresenza ma l’esito finale è questo.

Sotto gli abeti non cresce niente, gli aghi caduti rendono acido e inospitale il terreno, sotto l’albero di Natale muore il Natale che discende dal latino e significa “della nascita”. Nascita di chi, di che cosa, se manca il presepe e quindi il Bambino? O se il nesso non è evidente come spesso accade?
Se ad esempio all’albero manca la stella cometa, segnale indicatore della natività? Resta un albero, solo un albero, a rappresentare sé stesso e al limite la natura con i suoi cicli di vita e di morte (soprattutto di morte visto che la stragrande maggioranza degli alberi di Natale è costituita da abeti agonizzanti, estirpati con violenza, amputati delle radici e destinati a seccare in breve tempo, compresi quelli ambientalisti pubblicizzati da Ikea, la multinazionale anticristiana che vende mobili tristi e abeti morenti, però ecologici perché si possono riconsegnare dopo le feste affinché vengano trasformati in truciolato, sai l’abete com’è contento).

L’albero tende all’astratto mentre il presepe è figurativo(...).
L’albero è minimalista, può essere stilizzato e ridotto a segno grafico, a triangolo verde o anche rosso. E come dice James Hillman, che sarà pure uno psicanalista ma qualcosa capisce, “l’anima è costretta a scappare dal minimalismo.”

Prova tu a stilizzare un presepe. Impossibile perché è impossibile stilizzare la vita, che sguscia e prolifera e prende sempre nuove forme. L’albero è sostenuto dalla pubblicità, dai film, dai centri commerciali, è accettato da molte religioni e da tutte le irreligioni.
Mentre il presepe appartiene solo alla vera religione, quella fondata da Gesù Cristo alle sorgenti del Giordano, sulle alture del Golan, e che attraverso l’imposizione delle mani si è trasmessa per duemila anni senza interruzioni da Pietro fino a Benedetto e che da Benedetto si trasmetterà ad altri uomini fin quando ci saranno uomini perché “io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”.

Il Bambino Divino non poteva apparire fra i protestanti, quei musilunghi che non ne amano la Madre, tantomeno fra i maomettani per i quali Dio è lontanissimo, impenetrabile e di certo non può essere tenuto in braccio e allattato.

Poteva apparire ed è apparso in Italia, in un paese di montagna al centro esatto della penisola, a metà strada fra nord e sud,fra Adriatico e Tirreno, ovvero a Greccio, diocesi di Rieti.
Ad accoglierlo non poteva che essere l’alter Christus, il secondo Cristo, San Francesco, che nella notte del Santo Natale 1223 allestì il primo presepe. Non a caso era un presepe vivente. Vivo e brulicante.



Francesco, innamorato della Creazione, non si sarebbe mai sognato di festeggiare una nascita segando un albero.
Animato dallo Spirito infuse entusiasmo in tutto il paese che si trasformò in una nuova Betlemme: “Uomini e donne con la gioia nel cuore facevano a gara nel preparare ceri e fiaccole per rischiarare quella notte fatidica, in cui si accese la Stella che illuminò tutti i giorni e tutti gli anni.
Alcuni preparano la mangiatoia, altri recano il fieno, altri ancora pensano al bue e all’asinello”.
La moglie del signore di Greccio fece con le sue mani il simulacro del Bambino. Gli araldi annunciarono la notizia. I frati accompagnarono Francesco, già circonfuso di santità. Arrivò anche l’attesa benedizione del Papa, che autorizzava a dire messa davanti a una stalla, su un altare portatile, situazione insolita che poteva sembrare indecorosa. (Il primo presepe vivente non fu una manifestazione folcloristica, fu una messa solenne).

Da quella notte meravigliosa il Dio-Bambino è entrato nelle case, e non solo per i suoi coetanei. E’ un suicidio dell’anima metterlo fuori dalla porta solo perché siamo diventati grandi. E’ come dire che siamo diventati vecchi, insensibili, quasi morti, incapaci di provare alcunché.
Tu mi dici che il presepe non lo vorresti fare più ma che alla fine ti convinci quando ti vengono a trovare i nipotini: “Mi intenerisco e lo faccio con loro: cuore di zia!”.
Benissimo. Ma oltre che per i bambini vorrei che lo facessi per il Bambino. E per te, e per gli altri.

San Francesco quella notte non aveva in mente il catechismo per l’infanzia, si rivolgeva all’intera comunità e anche a sé stesso. “Più che rievocare l’episodio egli voleva rivivere il mistero” è stato detto.
Questo dev’essere anche il nostro atteggiamento.
Non dobbiamo riprodurre meccanicamente una tradizione, dobbiamo sentire il bisogno di vedere nascere il Bambino sotto i nostri occhi, fra le nostre mani, la Santa Notte che sta per arrivare.

Ho trovato un brano di Francesco Mastriani, romanziere ottocentesco prolificissimo (107 romanzi, beato lui! come faceva?), che descrive il rito così come si svolgeva a Napoli all’epoca sua: “Uomini, donne, e ragazzi provvisti di ceri, fanno in processione il giro della casa, scendono talvolta nel cortile, visitano gli altri quartieri del palazzo, e si riducono al presepe, dove genuflessi e cantando l’inno ambrosiano, da qualcuno della famiglia (spesso un ragazzo) viene collocato sulla paglia il celeste Pargoletto”.
Era il tempo felice in cui Napoli andava famosa nel mondo per la devozione e i mandolini: città da cartolina, dissero in seguito come fosse una colpa, come se il pino di Posillipo e il sangue di san Gennaro ostacolassero le belle migliorie che avevano in mente, centri direzionali, acciaierie, scampie.

Una processione tipo quella di Mastriani la faccio anch’io, anche se in tono minore, senza coinvolgere i vicini di casa. E senza cantare l’inno ambrosiano che c’entra con Milano solo perché composto da sant’Ambrogio. E’ un canto gregoriano chiamato anche “Veni Redemptor gentium”, dalle prime parole (...).
Noi di solito cantiamo qualcosa di più facile, in italiano, “Tu scendi dalle stelle”. Mi sembra l’accompagnamento ideale in quanto l’autore, sant’Alfonso Maria de’ Liguori, è napoletano e settecentesco come lo stile di tanti presepi casalinghi.


Cantiamo solo la prima parte. “Tu scendi dalle stelle, / o Re del cielo, / e vieni in una grotta al freddo e al gelo”, e qui mi vengono i brividi.

“O Bambino mio divino, / io ti vedo qui a tremar / o Dio beato / ah quanto ti costò l’averci amato!”, e a questo punto mi scendono le lacrime.


Dovrebbe capirlo chiunque quanto stoni in un momento simile l’abete agonizzante, la distrazione che apportano le sue lucine. Lo dice Gesù: “Non potete servire a Dio e a Mammona”. L’albero è mammonico, è stato piazzato nel tempio famigliare dai mercanti e da lì bisogna scacciarlo prima che il suo neopaganesimo per poveri di spirito faccia guai ulteriori.

Gli abeti lassù sulle montagne, per la gioia degli scoiattoli, e il presepe quaggiù per la gioia degli uomini a cui facilita almeno quattro delle sette opere di misericordia spirituale che la chiesa esorta caldamente a compiere.

“Perdonare le offese”: il Natale ci rinnova liberandoci da quella zavorra che sono i propositi di vendetta.

“Consolare gli afflitti”: invitare ad esempio le persone sole a condividere con noi i riti di festa.

“Consigliare i dubbiosi” e “Insegnare agli ignoranti”: il presepe è un formidabile catechismo visivo. Gli angeli evocano l’esistenza di una sfera superiore, di un mondo oltre il mondo. L’asino e il bue sembrano volerci parlare e dirci che la natura non è necessariamente ferina, mortifera come per i pagani, ma può essere addomesticata e resa amica. Dal volto della Madonna si capisce che tutto quello che conta è amare ed essere amati. I Re Magi, che provenendo da paesi lontani vanno messi davanti alla mangiatoia solo all’Epifania, evidenziano che Gesù è nato per tutti i popoli: gli europei di Gasparre, gli africani di Baldassarre, gli asiatici di Melchiorre. In pratica i Re Magi mostrano che Gesù nasce ebreo ma che dopo pochi giorni diventa cattolico, cioè universale.

In un libro di Bukowski, e che c’entra Bukowski potrai dire ma Bukowski c’entra sempre perché è una vena d’oro, il suo fango pullula di pepite, ho scovato due definizioni perfette e meno male che l’alcol danneggia le cellule cerebrali: “Un intellettuale è un uomo che dice una cosa semplice in maniera difficile, un artista un uomo che dice una cosa difficile in maniera semplice.” Ecco, san Francesco era un grandissimo artista perché capace di tradurre nella lingua della commozione una montagna di noiosi libri teologici. Senza nemmeno averli letti.

Lui stesso si definiva “ignorante e illetterato” e probabilmente nulla sapeva di iconoclastia, che è una versione antica, quindi ancora religiosa, di minimalismo. A loro volta iconoclastia e minimalismo sono due forme di nichilismo.
(...)
La questione delle immagini è troppo importante per essere abbandonata nelle mani dei critici d’arte che sono, lasciamelo dire, in completa balia di Mammona. La affrontò Ratzinger quand’era ancora cardinale: “L’iconoclasmo come una negazione dell’incarnazione, come la somma di tutte le eresie. Incarnazione significa anzitutto che Dio, l’invisibile, entra nello spazio del visibile, perché noi, che siamo legati al materiale, possiamo riconoscerlo”.

San Francesco inventando il presepe schiacciò l’iconoclastia per secoli così come la Madonna fece scrocchiare la testa del serpente nel quadro di Caravaggio e nel film di Gibson, Dio ce lo conservi.
Ora che il nichilismo torna a masticare vittime, che Botta, Fuksas e Meier sono assoldati da preti più disgraziati di loro per cancellare ogni segno visibile di Cristo a cominciare dalla Croce, il presepe è più importante che mai. Con la sua attenzione per tutte le cose, anche le più minute.
Ti ricordi cosa disse il proprietario della Terrazza Calabritto quando ci portò il conto? Io mangiai bene e bevetti meglio ma la cena si è fissata nella mia memoria per quella sua parola: “Attenzione”. Ci avvisò dello sconto con incredibile garbo, senza la solita laidezza del ristoratore ruffiano, dicendo: “Ho avuto un’attenzione”.

Il presepe, in particolare quello napoletano, è fondato sull’attenzione.

Attenzione verso tutto: uomini, animali, cose. Attraverso la cura del particolare il presepista dà valore a ogni singolo infinitesimale elemento.
“La salvezza del piccolo” l’ha definita il filosofo Giorgio Agamben. Tutto viene attentamente considerato affinché tutto venga salvato. “Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati”: certi presepi sembrano l’illustrazione di queste parole di Gesù riportate da Matteo.
Mi si chiarisce una frase di don Giussani: “Dentro il Mistero anche l’acciuga mangiata dal tonno trova la sua redenzione”.
Ho visto un milione di presepi e nemmeno quelli più ingombranti prevedevano tonni e acciughe eppure ora capisco, siamo tutti acciughe e la stella del presepe ci indica la direzione da prendere per non finire in salamoia.

Adesso non è che ti dico di correre a San Gregorio Armeno per fare incetta di pastori e pecorelle, fra l’altro se c’è qualcuno a cui San Gregorio Armeno piace non sono io ma sei tu: “Una folla bellissima, almeno lì non c’erano gli scugnizzi che ti tirano i petardi addosso, perchè sennò i pastorai non venderebbero quindi sono loro stessi a cacciarli”.



Io preferisco via Tribunali dove c’è meno folla e più bellezza ovvero La Scarabattola. Vorrei comprare da quei sommi artigiani un presepe in campana di vetro, un presepe a sviluppo verticale con la Sacra Famiglia o poco più, soluzione perfetta per l’esteta pigro che sono: nessun bisogno di cercare il muschio, di ritagliar le stelle, di ricomprare ogni anno le pecorelle smarrite… Un presepe monoblocco che non richieda interventi, a parte l’estrazione della campana dallo sgabuzzino ogni 8 dicembre.

Ma forse come dicevi tu, alludendo alla gioia dei nipotini quando cominciano a trafficarci, la magia del presepe è fatta anche di allestimento.
Alzo le mani: ognuno scelga il presepe più confacente, piccolo o grande, fisso o mobile, napoletano o leccese o bolognese o peruviano, l’importante è che si faccia.
San Gregorio Armeno o Tribunali o soffitta col baule degli avi, attingi dove ti pare ma sbrigati, non aspettare che i nipoti ti preghino di farlo, e non frapporre più scuse fra te e il Bambino, non dire che per il presepe ci vuole la famiglia altrimenti che senso ha, ci vuole l’armonia altrimenti che senso ha, ci vuole chissà quale fede vigorosa altrimenti che senso ha.

Non è la tua condizione a dare un senso al presepe, è il presepe che dà un senso alla tua condizione. Qualunque essa sia.

Che Gesù Bambino ti benedica sempre.
Camillo»

venerdì, dicembre 08, 2006

giovedì, dicembre 07, 2006

Maria profetizzata e prefigurata

«Maria profetizzata
Primo fondamento alla devozione al Cuore di Maria è lo stesso adorabile Cuore dell'Eterno Padre e l'amore incomprensibile di cui questo amore è ricolmo per lei, Madre del Suo Figlio. Questo amore ha spinto il Padre a darci parecchie eccellenti immagini del Cuore della Madre di Gesù.
Come ha voluto a noi mostrare in figure Gesù, per il quale Egli ha voluto rifare e riparare tutte le cose, così ha preso singolare contento nel dipingerci quella che aveva scelto da tutta l'eternità per Madre del Redentore adorabile.

Maria è colei che "i Profeti predissero lungo tempo prima della sua nascita, che i Patriarchi hanno designato con numerose figure e che gli Evangelisti ci hanno annunziato" (S.Girolamo, Serm.de Assumpta)

"E' Colei alla quale fanno capo tutte le predizioni di Profeti e tutti gli enigmi della Sacra Scrittura" (S.Ildefonso, Serm.I)

"Lo Spirito santo l'ha predetta per mezzo dei Profeti, l'ha annunciata con divini oracoli, l'ha manifestata con le figure, l'ha promessa con i fatti che l'hanno preceduta, l'ha completata con le cose che la seguirono" (S.Ildefonso, Lib.de Virginitate Mariae)
Maria prefigurata
San Giovanni Damasceno dice: "Il Paradiso terrestre, l'arca di Noè, Il roveto ardente, le tavole della legge,l'arca dell'Alleanza, il vaso d'oro contenente la manna, il candelabro d'oro che stava nel Tabernacolo, la tavola dei pani della propiziazione, la verga di Aronne, la fornace di Babilonia, erano altrettante figure di questa incomparabile Vergine" (Orat.I De Dormitione Mariae)

Volle inoltre darci dei ritratti e delle immagini singolari dei suoi misteri, delle sue qualità, dlle sue virtù e delle stesse più nobili facoltà del suo corpo verginale in più punti delle Scritture.

Al capitolo 24 del Siracide e nel Cantico dei Cantici la Concezione Immacolata è rappresentata dal giglio che nasce in mezzo alle spine senza esserne ferito; la sua Nascita dall'aurora; la sua Assunzione dall'arca dell'Alleanza che San Giovanni vide in Cielo; l'eminenza sublime della sua dignità, della sua potenza, della sua santità, dalle altezze dei cedri del Libano, la dua carità dalla rosa; la sua umiltà dal nardo; la sua pazienza dalla palma; la sua misericordia dall'olivo; la sua verginità dalla porta chiusa del Tempio che Dio fece vedere ad Ezechiele.
Principali figure di Maria
Soprattutto ha desiderato metterci davantio agli occhi molte, belle, meravigliose prefigurazioni del suo Cuore, per farci comprendere quanto gli sia caro e prezioso qusto Cuore che per la rarità, le perfezioni, le meraviglie innumerevoli di cui è dotato, non può essere rappresentato che da una quantità di figure.
fra le tante ne sottolineo dodici: sei delle varie porzioni del mondo, cioè: nel cielo, nel sole, sulla terra, nelle fontane che dissetano, nel mare, nel paradiso terrestre.
Le altre sei in sei cose delle più considerevoli che si siano viste al mondo: il roveto ardente visto da Mosè, l'arpa misteriosa di davide, il trono magnifico di salomone, il Tempio meraviglioso di gerusalemme, la fornace prodigiosa di Daniele e il monte Calvario. Le eramineremo una dopo l'altra.

[Risolvi: Dio ha cosparso il mondo di richiami a maria. Dio l'ha vista collocata ovunque. Impara anche tua a scoprire Maria ovunque Dio l'Ha posta e a moltiplicare i richiami della sua presenza.]»

(San Giovanni Eudes, "Il Cuore ammirabile della Madre di Dio")

Simpatico umorista /8


Ovvero: umorismo gotico


Sapendomi gran cultore del barocco romano l'interlocutrice mi chiede:
Allora, come lo giudichi questo duomo di Milano?
Io evasivo: E' uno di quelli che solitamente vengono definiti: "belli dentro".




mercoledì, dicembre 06, 2006

Pax Tibi, o Infauste, Evangelista Meus! 2

Ovvero: riforme liturgiche

Durante il convegno in commemorazione del decennale della morte di Giuseppe Dossetti, organizzato dalla Fondazione Camera dei Deputati, il presidente della Camera Fausto Bertinotti ha tenuto un discorso in cui si è soffermato sulla interpretazione dossettiana della riscossione fiscale quale azione "liturgica" :
«C’è un passo di un intervento svolto da Dossetti in un convegno del 1951 che offre un esempio assai significativo di quell’aspirazione sociale e della sua tensione etica. Commentando l’Epistola ai Romani di San Paolo, Dossetti rileva che l’Apostolo, nell’intento di riaffermare la necessità di pagare comunque il tributo a chi si deve, chiama gli esattori “operatori liturgici” - anche se romani, anche se pagani - concludendo in questi termini:

“A me pare che gli uomini i quali vedano profilarsi uno Stato capace di imporre loro dei gravi sacrifici di ordine materiale, allo scopo però di avviare ad una reformatio del corpo sociale e ad una maggiore aequalitas fra gli uomini, debbano vedere finalmente profilarsi “i liturgici di Dio”.»

martedì, dicembre 05, 2006

Tristezza! Per favore vai via.../2

Ovvero: Il cardinal Hummes stà con Elvira



Caro Claudio,
chi non è eletto papa si rivede!
Non ci si "beccava" dai tempi della "Vacanza" dell'aprile 2005.

Soprattutto adesso che sei stato chiamato da Benedetto XVI ad essere un personaggio chiave della Curia Romana,mi sembra urgente rivelarti che voi alti ecclesiastici sudamericani avete una pessima fama nella "vecchia" Europa.

Noi europei pensiamo che se un eminentissimo "principe della Chiesa" in Brasile non ha alcuna riserva mentale a celebrare messa nelle favelas, allora deve essere proprio uno dell'estrema sinistra extra parlamentare!
Da noi, caro il mio cardinale "rosso", un porporato "de sinistra" (?) tipo Tettamanzi prima di celebrare messa con gli zingari farebbe ristrutturare il campo nomade da Fuksas o Gae Aulenti.

Pultroppo in quest'altro emisfero si pensa che se un cardinale non indossa abiti con ricami d'oro e fili di perle allora deve essere per forza anche uno ferocemente critico con il potere ecclesiastico.
A me però viene il serio dubbio che se il cardinale arcivescovo di San Paolo del Brasile si voglia arrabbiare con il potere ecclesiastico non gli rimanga che schiaffeggiarsi davanti allo specchio.

Così come quando si auguravano che divenissi Papa, anche adesso che sei Prefetto della congregazione per il clero, i Media si aspettano ugualmente che tu proponga le messe con le ballerine di samba al posto dei chierichetti e che i viados sostituiscano le 140 statue di santi sul colonnato berniniano.

Mi rendo conto che il primo a dolersene sei tu di questa fama di "modernista". E'per questa ragione che il sedici volte Benedetto, chiamandoti a Roma, ti ha dato la possibilità di mostrare al mondo intero che sei uno amante delle tradizioni ecclesiastiche e che le regole le sai far rispettare.
Ti avviso che, ahimè, ci saranno sempre degli illusi che spereranno contro ogni evidenza che un frate francescano quale tu sei, dimostri scarsa devozione verso il voto di castità!

Basta una tua evasiva risposta ad un intervistatore a caccia di sensazionalismi, basta che tu risponda con una ovvietà- "Il celibato non è un dogma di fede"- che si prendano le tue parole come uno storico giro di boa.
Sei stato così costretto a sollecitare un comunicato stampa con cui chiarisci che la modifica della legge celibataria non è in cantiere. I più continueranno stolidamente a sostenere che sei stato costretto a fare marcia indietro. Come se Benedetto XVI sia stato costretto a sceglierti come Prefetto del clero o che tu sia stato costretto ad accettare l'incarico!

Come scrive Sarmek Lodovici (sul Foglio di martedì 5 dicembre 2006):
"Contrariamente a quanto spesso si dice, la scelta celibataria della chiesa risale addirittura agli apostoli. Alfonso Stickler ha ampiamente dimostrato che fin dall’inizio i sacerdoti erano uomini non sposati, oppure uomini sposati che ricevevano l’ordine sacro e che, da quel momento, col consenso della moglie (che doveva essere mantenuta a spese della chiesa), si impegnavano alla continenza, a non usare del matrimonio.
Chi fa risalire questa scelta al Sinodo di Elvira, del primo decennio del IV secolo, non si avvede che questo consesso non introdusse un nuovo obbligo, ma reagì contro la sua trasgressione, comminando una sanzione.
E’ vero che presso certi riti orientali ci sono sacerdoti sposati; ma anche in oriente i vescovi sono tenuti al celibato, il che indica che c’è un legame fra il celibato e lo stato sacerdotale: infatti, quando un sacerdote riceve l’ordinazione partecipa del sacerdozio del vescovo.
Del resto, Stickler ha dissipato un’erronea convinzione ancor più diffusa, spiegando che la norma sul celibato o sulla continenza vigeva fin dai tempi apostolici anche nella chiesa d’oriente. Solo nel 691, al Concilio Trullano, ci fu il cedimento della chiesa d’oriente, per l’interferenza degli imperatori di Bisanzio, che si ingerivano nelle questioni ecclesiastiche.

D’altra parte, non esiste a tutt’oggi un matrimonio dei preti in oriente. Quando si parla di matrimonio di preti in oriente, non ci riferisce a preti che si sposano, ma a uomini sposati che sono ordinati preti: in oriente come in occidente non è mai permesso a un prete di sposarsi. E anche in oriente un prete sposato, se diventa vedovo, non può risposarsi."

Pacco, contropacco e contropaccotto /5

Ovvero: COMUNICATO DELLA SALA STAMPA DELLA SANTA SEDE CIRCA LA VISITA DI SUA BEATITUDINE CHRISTODOULOS, ARCIVESCOVO DI ATENE E DI TUTTA LA GRECIA, AL SANTO PADRE BENEDETTO XVI



Sua Beatitudine Christodoulos, Arcivescovo di Atene e di tutta la Grecia, farà visita al Santo Padre Benedetto XVI e alla Chiesa di Roma nei giorni 13 -16 dicembre 2006. L'Arcivescovo era stato a Roma per i funerali di Sua Santità Giovanni Paolo II, di venerata memoria, ma è la prima volta che il Primate della Chiesa Ortodossa di Grecia si reca in visita ufficiale al Papa e alla Chiesa di Roma.

Il Santo Padre riceverà S. B. Christodoulos e il suo seguito nella mattinata di giovedì 14 dicembre. Con una cerimonia nella Basilica di S. Paolo fuori le Mura, sarà consegnata all'Arcivescovo parte della preziosa Catena della prigionia di S. Paolo, che si conserva in quella Basilica. L'Università Lateranense conferirà all'illustre ospite una Laurea Honoris Causa. Nel suo soggiorno, l'Arcivescovo e il suo seguito si recheranno in pellegrinaggio in alcuni luoghi santi di Roma (Basiliche, Catacombe).

Il Santo Sinodo della Chiesa Ortodossa di Grecia, nella sessione del 3 novembre 2006, come si riferisce nel Comunicato reso pubblico al termine dei lavori, "ha espresso la propria gioia per la realizzazione di questa visita i cui frutti saranno positivi".

L'Arcivescovo sarà ricevuto con calorosa fraternità ecclesiale e con l'onore dovuto al suo rango di Primate della Chiesa Ortodossa di Grecia.

Nell'anno 2001 il Papa Giovanni Paolo II, di venerata memoria, nel suo pellegrinaggio sulle orme di S. Paolo, si era recato all'Areopago di Atene dove, dopo una cerimonia, era stata firmata una Dichiarazione comune con S.B. l'Arcivescovo Christodoulos. Il Santo Padre era stato ricevuto nella sede del Santo Sinodo della Chiesa Ortodossa di Grecia.

Negli anni seguenti vi è stato uno scambio di visite fra una Delegazione del Santo Sinodo della Chiesa Ortodossa di Grecia venuta a Roma, e una Delegazione del Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani recatasi ad Atene. A queste iniziative sono seguiti altri fraterni e intensi contatti fra la Chiesa di Roma e la Chiesa Ortodossa di Grecia.

lunedì, dicembre 04, 2006

Nel nome di Allah, Clemente [Mastella] e Misericordioso /2

A nome del Goveno italiano, il Ministro della Giustizia, Clemente Mastella ha omaggiato Benedetto XVI ai piedi della scaletta dell'aereo che, poco dopo le ore nove del 28 novembre 2006 (e con un anno di ritardo!), è decollato alla volta della Turchia.
Salito a bordo il sommo pontefice "ccioiosamente" regnante si è recato a salutare i giornalisti (ovvero: l'orrida schiatta dei "vaticanisti").
"Cari amici" ha esordito il sedici volte Benedetto rispondendo a tre selezionate domande che gli hanno dato la possibilità di chiarire, alle mai troppo ottuse menti dei giornalisti al seguito del papa, che il suo non era un viaggio politico ma con finalità eminentemente religiose.

Il sedici volte ed ancor più Benedetto ha, inoltre, lodato il degno compito dei giornalisti che parlano e scrivono intorno al Papa: cioè quello di essere "mediatori culturali"; compito del "vaticanista" è quello di spiegare, chiarire e delucidare all'opinione pubblica il significato delle parole e dei gesti conpiuti dal Romano Pontefice.
Così facendo Benedetto XVI ha principiato il suo viaggio pastorale con un gesto veramente ascetico: il porgere l'altra guancia a coloro a causa dei quali la sua "lectio ratisbonense" è diventata causa di lutti e di sofferenze.
Si! Il papa ha chiamato i cronisti "amici", con lo stesso appellativo con cui Gesù si rivolse a Giuda Iscariota nel momento straziante del supremo tradimento.
Non sò quanto realmente papa Ratzinger nutrisse fede nella capacità di analisi dei giornalisti al seguito, comunque ci ha provato a spiegare che sempre egli agisce -ed anche in passato ha agito!- per la concretizzazione di un "autentico" dialogo tra credenti e non credenti, cristiani e non cristiani, cattolici e non cattolici. Dopo di che, lasciando il settore riservato ai giornalisti li avrà affidati, nella preghiera, alla Divina Misericoria.

Prima del Concilio Vaticano II l'interesse mediatico per il Vaticano specialmente fuori dall'Italia era molto scarso, anche l'annuncio della convocazione del concilio non provocò fremiti. Lo storico viaggio in treno del 4 ottobre 1962 di Giovanni XXIII fece sensazione perchè era la prima uscita fuori Roma dall fine dello Stato Pontificio ma l'opinione pubblica non colse la stretta relazione dell'evento con l'imminente inaugurazione del XXI concilio della cristianità.
Il segretario di papa Giovanni, Loris Capovilla, organizzò un'intervista del papa con Indro Montanelli pregandolo di porre a papa Roncalli domande sugli scopi e le prospettive del Concilio Vaticano II, ma Montanelli si limitò a interrogare il papa intorno alla "distenzione" e sull'apertura a sinistra della DC.

Solo dopo aver visto le immagini della cerimonia di inaugurazione ci si rese conto di trovarsi a che fare con una cosa "grossa".
Per spiegare il perchè delle disquisizioni dei 1500 vescovi sull'ecclesiologia, la liturgia e le fonti della Rivelazione, i cronisti non trovarono di meglio che dividere l'assemblea, come un qualunque parlamento, in "Progressisti" e "Conservatori" lodando perciò acriticamente ogni decisione di riforma e deprecando ogni volontà di mantenere lo "status quo".
Finito il Concilio la fame di novità si spostò sul Paolo VI e sugli "storici" primo viaggio di un papa in aereo, primo viaggio di un papa in America e tutte le prime volte a seguire. Quando poi Papa Montini fece capire che la festa delle continue riforme era finita e si doveva ritornare nella ferialità della vita ordinaria della Chiesa, l'opinione pubblica non glielo perdonò.

L'interesse mediatico per "le cose di chiesa" tornò prepotentemente in auge con i due conclavi del '78 e con le novità degli stili pontificali.

L'attore Wojtyla capì che la curiosità mediatica di cui era morbosamente oggetto poteva -ad maiorem Dei gloriam!- essere messa al servizio della nuova evangelizzazione. I Media fecero un tacito patto con Giovanni Paolo II: avrebbero dato risalto alle sue dure prese di posizione contro la contraccezione, l'aborto, l'eutanasia purchè quelle cose le dicesse sciando, indossando un sonbrero, prendeno in braccio un koala o fumando il calumè della pace intorno al fuoco con gli Indiani d'America.
I Media hanno così reinterpretato la dottrina del primato del papa nella dottina secondo cui un buon papa è quello che ha fatto qualcosa che lo renda degno del guinnes dei primati.

Le saggie considerazioni dei vaticanisti che hanno ammonito l'opinione pubblica intorno al fatto che Papa Wojtyla era il papa dei gesti mentre Papa Ratzinger è il papa delle parole, per cui bisogna far attenzione al contenuto dei suoi discorsi come suol dirsi in questi casi, sono andate a farsi benedire!

I vaticanisti stessi non hanno resistito che pochi mesi prima di manifestare le proprie elocubrazioni sulle possibili ripercussioni ecclesiologiche nonche geopolitiche del camauro o della mozzetta con o senza zibellino.

E poi è arrivata Ratisbona.


Gli esperti di cose vaticani hanno per mesi lodato la capacità dell'erudito professor Ratzinger di saper parlare ai semplici. Poi, però, quando il professor Ratzinger a Ratisbona si è rivolto in dotte elucubrazioni ad altrettanti eruditi professori, i vaticanisti avrebbero dovuto rendersi conto del pericolo che le semplificazione del discorso papale sarebbero state gravide di drammatici travisamenti.
La croce è stata, poi, addossata tutta su Benedetto XVI; era lui, si è detto, che doveva esprimersi in modo che le sue affermazioni non venissero travisate!

Epperò io mi domando come possa un giornalista, scrivere, sulla medesima testata, che a Monaco l'11 settembre il Papa ha fatto un appello ad una "Santa Alleanza" di tutti credenti in Dio -dai teocon di Bush ad Al Queida- per superare le divergenze e allearsi per schiacciare il relativismo e di conseguente il libertinismo delle opulente società occidentali dei "senza-Dio", ed il giorno dopo lo stesso e medesimo giornalista, scrivere che a Ratisbona il papa ha fatto un appello perchè tutte le forze dell'Occidente -dai lefevriani all'arcigay- si uniscano in una crociata contro l'invasione islamica!
Un papa che entro loe ventiquattr'ore fa appelli così contrastanti può essere solo uno schizzofrenico. Oppure lo schizzofrenico è il giornalista. Oppure è il giornalista a considerare i suoi lettori degli schizzofrenici.
E' l'eccessiva volontà di sintesi, l'incapacità di seguire un ragionamento che non si esprima con più di tre parole dei popoli evoluti dell'occidente, che ha fatto sì che Papa Ratzinger divenisse oggetto di odio, un odio manifestato a parole ma che verso altri cristiani nel mondo si è concretizzato in modo anche meno metaforico.

Il mondo islamico ignora profondamente tanti distinguo e sottigliezze presenti nelle gerarchie e nelle dottine cristiane. Per loro, che soffrono da un secolo di astinenza da califfato, il Papa di Roma è una specie di Califfo di tutti i cristiani, e di conseguenza capo politico dell'Occidente, che con una sola parola può muovere milioni di persone ad intraprendere una crociata anti islamica. Per questo l'opinione pubblica islamica ha sempre lodato gli appelli alla pace dei papi, perchè sono convinti che i papi possano anche fare degli appelli alla guerra!
Il mondo occidentale, lo sappiamo bene, non è un mondo poi così tanto culturalmente omogeneo, c'è soprattutto un mondo anglosassone istintivamente antipapista. Ci sono ambienti in cui non si ci fa scappare l'occasione per far fare una pessima figura al papa e al cattolicesimo, vedasi le mozioni votate dal Parlamento Europeo che dipingono il cattolicesimo come la causa di ogni male del mondo, dove si protesta per finanziamenti accordati alla Giornata Mondiale della gioventù di Colonia e dove ci si straccia le vesti se su una sulle monete dell'Euro compare il profilo del Pontefice regnante!
Se dobbiano dolerci delle violente reazioni islamiche al discorso di Batisbona dobbiamo prima ancora deprecare le Agenzie di Stampa -tutte occidentali!- che hanno diffuso la notizia che il papa aveva insultato Maometto.

I giornalisti di cose vaticane hanno fatto poi il possibile per non buttare acqua sul fuoco. Come può Marco Politi, vaticanista di Repubblica scrivere in data 13 settembre 2006 che "Il papa scomunica la spada di Maometto"?

E' vero, viviamo in una società di cultura cattolica in cui la religione è spesso usata a metafora del quotidiano, per cui una riunione politica diventa inesorabilmente un "conclave". Se, poi, un leader politico sconfessa un menbro del proprio Partito allora si dice che lo "scomunica", ma quando si torna nel campo religioso, e si parla di persone che realmente hanno l'autorità di scagliare scomuniche ed anatemi, allora bisognerebbe attenersi ai fatti ed attribuire alle parole ed ai gesti il loro proprio nome!
Anche "la spada di Maometto" non può essere considerata solo una innocua metafora perchè la spada di Maometto è un oggetto concreto che si conserva nel palazzo Topkapi ad Istanbul insieme con le altre preziose reliquie del Profeta dell'Islam!
Tra l'altro credo che il termine più acconcio per tradurre "scomunica" nel linguagio mussulmano sia "fatwua". Come lo si spiega ad un mussulmano che quando legge che il papa ha lanciato una fatwua contro la religione islamica in realtà si tratta solo di una metafora giornalistica?
Ci rendiamo conto che diventa impossibile convincerlo che quel giornalista è solo un imbecille?

No! Non è un imbecille, è uno di quei corrispondenti che sa benissimo che configurando uno scontro di civiltà ogni dichiarazione papale verrà accolta con maggior interesse dall'opinine pubblica e perciò i loro aricoli avranno maggior spazio sui giornali.
Ecco così che in questi ultimi due mesi ogni dichiarzione papale è stata letta alla luce dello scontro di civiltà anche dove solo una mente perversa poteva vederci un riferimento. Esemplare in tal senso la visita di Benedetto XVI alla Pontificia Università Gregoriana in data 3 novenbre.
Da un lunghissimo discorso pieno di laudi alle benemerenze dell'università dei gesuiti è emerso sugli organi di comunicazione l'appello papale al dialogo con l'Islam.
In realtà Benedetto XVI non ha fatto ne voleva fare alcun riferimento diretto all'Islam.

Benedetto XVI ha ricordato che seppur con il passare dei secoli e degli argomenti di controversia teologica, i gesuiti debbono dare ai propri studenti gli strumenti necessari per difendere e promuovere la fede cattolica: "Oggi non si può non tener conto del confronto con la cultura secolare, che in molte parti del mondo tende sempre più non solo a negare ogni segno della presenza di Dio nella vita della società e del singolo, ma con vari mezzi, che disorientano e offuscano la retta coscienza dell’uomo, cerca di corrodere la sua capacità di mettersi in ascolto di Dio. Non si può prescindere, poi, dal rapporto con le altre religioni, che si rivela costruttivo solo se evita ogni ambiguità che in qualche modo indebolisca il contenuto essenziale della fede cristiana in Cristo unico Salvatore di tutti gli uomini (cfr At 4,12) e nella Chiesa sacramento necessario di salvezza per tutta l’umanità"(cfr Dich. Dominus Iesus, nn. 13-15; 20-22: AAS 92 [2000], 742-765)."
Quindi dalla lettura del testo emerge che il papa ha detto tutt'altra cosa rispetto ad un irenico appello al "volemosebbene" con i mussulmani! Però ai fini mediatici era necessario creare l'evento altrimenti il servizio televisivo non sarebbe stato messo in onda e l'articolo non sarebbe stato pubblicato.

Ovviamente un osservatore meno superficiale avrebbe colto che alla Gregoriana l'evento c'era e la notizia pure!
Nonostante l'accurato infiocchettamento il discorso papale è piovuto nel bel mezzo della riforma degli statuti della Università Gregoriana. Benedetto XVI ha proclamato sommessamente e gentilmente un fermissimo no ad ogni mutilazione della impostazione ignaziana della vetusta università gesuitica.
Fedeltà allo "Spirito ignaziano" che si può condenzare in due punti. L'assoluta obbedienza "perinde ac cadaver" dei professori alle decisioni della Santa Sede e la sottomissione dello studio della Pedagogia e della Psicologia al fine ultimo di meglio applicare la tecnica degli Esercizi Spirituali di Sant'Ignazio.

Ovviamente nemmeno l'Avvenire avrebbe pubblicato un articolo in cui si si disquisisce delle peculiarità della spiritualità ignaziana da quella teresiana o alfonsiana quando anche il cattolico di media cultura ha difficoltà a realizzare quale sia la peculiarità della spiritualità cristiana tout court.