mercoledì, dicembre 31, 2008

Il canto della Calenda

Ovvero: Dodici mesi con "Papa Ratzinger" :

"Il 2008 dei rapporti fra i giornali e Benedetto XVI si chiude con un bilancio fortemente negativo.
[...] A gennaio iniziano subito le polemiche: si spara in prima pagina che il Papa ha detto Messa nella Cappella Sistina dando le spalle ai fedeli.
Si confondono i riti e si suggerisce al pubblico che Benedetto XVI abbia celebrato il Battesimo dei bambini secondo il rito tridentino.
Falso!
La Messa era in italiano (come puo' essere "tridentina"?) e il Papa era girato di spalle per pochissimo tempo per esigenze "estetiche" dovute al posizionamento dell'antico altare.
Nessuno riporta queste precisazioni generando confusione!
Rischiamo il bis anche quest'anno...prepariamoci!
L'apoteosi, pero', si ha a meta' mese quando un gruppetto ben organizzato di docenti e "studenti" della Sapienza decide che Benedetto XVI non avrebbe dovuto intervenire all'inaugurazione dell'anno accademico.
Il motivo? Un discorso dell'allora cardinale Ratzinger del 1990 che riporta una citazione di Feyerabend.
Copiando ed incollando da Wikipedia, compiendo un errore clamoroso, gli illuminati sapienti attribuiscono a Joseph Ratzinger la frase di un altro intellettuale.
Un famoso quotidiano da' ampio spazio alla protesta (senza smentire lo scivolone) seguito da tutti gli altri.
Anche il telegiornale piu' seguito d'Italia da' voce ai contestatori e non alle spiegazioni che si trovano persino sulla rete, persino su questo blog!
Solo il Tg2 in quel frangente spiega che cosa il Papa abbia realmente detto nel 1990!
Si crea una confusione incredibile, c'e' il rischio che la situazione degeneri ed il Papa rinuncia alla visita alla Sapienza.
Apriti Cielo: il giorno dopo quegli stessi giornali, editorialisti, giornalisti, commentatori, che fino a poche ore prima avevano soffiato sul fuoco, si strappano (chi li ha) i capelli, scrivono articoloni, si stracciano le vesti, ma la frittata e' fatta: figuraccia per la Sapienza, Angelus "riparatore" per il Papa che, nel suo discorso, spiega bene a noi italioti chi sia e che cosa faccia un vero docente universitario.
Risultato: mai come quel giorno mi sono vergognata di essere italiana!
Nei giorni successivi alla rinuncia, i giornali cercano un modo per addossare la colpa al Papa che, in fondo, ha rinunciato volontariamente!
Per fortuna Bechis e Tornielli ci fanno sapere che, in realta', il Vaticano e' stato "consigliato" di far ammalare il Papa.
Proteste dell'allora governo che durano poche ore: l'esecutivo fa la stessa fine degli illuminati sapienti.
Senza rimpianti, con un po' di sollievo...

Marzo: i giornaloni protestano perche' il Papa non lancia appelli a favore del Tibet.
Benedetto XVI, alla prima occasione, parla da padre alle parti in causa, ma i giornali se ne fatto un baffo.
Considerazione: quando saranno i Cristiani dell'Orissa a finire perseguitati e bruciati, nessun quotidiano protestera' per il silenzio del Dalai Lama che pure vive in India. Ennesimo zappone incoerente sui piedi!

Durante la Veglia Pasquale il Papa battezza Magdi Allam.
Apriti Cielo: nessuno spende una parola buona per il nuovo fratello in Cristo e la maggiorparte dei quotidiani e degli editorialisti, anche cattolici, se la prende con il Papa non religiosamente corretto!
Poi, pero', quando ci sara', nel novembre 2008, lo storico forum cattolico-islamico i giornaloni ignorereranno completamente l'evento.
Stesso iter per il Sinodo: ampio spazio alle polemiche su Pio XII da parte del rabbino invitato che, con sgarbo diplomatico, mette in imbarazzo l'ospite.
L'argomento del Sinodo, cioe' la Parola di Dio? Poche, ma non sentite parole...

Il Papa scrive una lettera-prefazione a Marcello Pera.
Apriti Cielo: si tratta di un Pontefice che vuole demolire il dialogo.
Peccato che gli islamici abbiano invitato a riflettere ed a leggere bene lo scritto del Papa e gli Ebrei abbiano applaudito a Benedetto XVI.
Questo pero' non basta: in fondo Joseph Ratzinger, in quattro anni, ha pensato solo di cambiare le divide della gendarmeria.
A ottobre Benedetto visita Pompei e si permette di non pronunciare la parola "camorra": ma come osa?
Titoloni e riflessioni non su che cosa il Papa ha detto ma sulla parola che non ha pronunciato.

Vogliamo parlare dei viaggi all'estero?
Con malcelato godimento, i media prospettano tre viaggi catastrofici: Usa, Australia e Francia.
Ci si sfrega le mani gia' all'inizio dell'anno immaginando contestazioni, piazze e stadi vuoti.
Ahime', le cose non vanno cosi' e allora si aggiusta la tattica: si ignorano gli eventi o si creano polemiche laddove non esistono.
Negli Usa la piaga dei preti pedofili e' un dato di fatto.
Benedetto XVI, con grande umilta' e delicatezza, afferma: "Io mi vergogno", assume su di se' il peso di quelle nefandezze pur non avendone alcuna colpa.
Quella frase colpisce profondamente gli Americani che abbandonano immediatamente le sciocchezze ed i pregiudizi mediatici su Benedetto XVI riservandogli un'accoglienza senza precedenti.
Il viaggio negli Usa si rivela un vero trionfo: i media americani, sotto choc, si "convertono" e aprono il cuore al Papa fino a quel momento vilipeso.
I giornali italiani si perdono in polemiche sciocche sull'accoglienza riservata da Bush al Papa.
Provincialismo, superficialita'...
Ci si concentra praticamente solo sui preti pedofili tralasciando gli altri importantissimi discorsi del Santo Padre, a partire da quello all'Onu.
Grazie ad internet siamo informati in tempo reale su tutto e seguivamo il viaggio nei minimi dettagli.
Ci accorgiamo, in quel momento, di poter fare a meno dei giornaloni, salvo eccezioni.
E' la prima volta ed e' una bella "scoperta".

Il viaggio a Sydney conferma ed accentua questa impostazione.
Non abbiamo ancora capito come mai i giornali abbiano mandato inviati in Australia per poi non scrivere nulla dei discorsi e degli incontri del Papa.
Solo internet, in particolare il Sir, ci offrono un'informazione dettagliata.
Dopo giorni e giorni i quotidiani trovano la loro polemica dando voce alle vittime dei preti pedofili non ancora ricevuti dal Papa.
Articoli su articoli e "rimbrotti" al Papa che non riceve le vittime.
Benedetto XVI incontra un gruppo di persone prima di ripartire.
Aspettiamo ancora che un famoso giornale riporti la notizia.
Per il viaggio a Sydney la rete e' la prima fonte di informazione.
Va un po' meglio con il viaggio in Francia che registra, tuttavia, la débâcle delle previsioni: quello che doveva essere un insuccesso annunciato, si trasforma nel piu' grande evento del 2008 con migliaia e migliaia di persone che accolgono festanti Benedetto XVI a Parigi ed a Lourdes.
Le liturgie sono splendide, i discorsi e le omelie eccellenti.
Ma per qualcuno il Papa pensa solo alla Messa tridentina ed alla divise...

Piazza di Spagna era stracolma come mai in questi ultimi anni, ma i giornali hanno taciuto. Perche'?
Eppure il Papa ha fatto un discorso "sociale".
Come mai e' stato ignorato? Come mai lo si rimprovera quando parla di vita e di famiglia e poi non si riporta cio' che dice sulla disoccupazione?
E' troppo comodo e anche un po' meschino!

Arriviamo poi a fine anno quando il desiderio di attaccare il Papa su piu' fronti diventa fin troppo palese.
Lo si accusa di tutto: da Eluana, alla Dignitas personae, alle interviste di Mons. Migliore e Mons. Amato dimenticando che ciascuno, nella Chiesa, deve assumersi le proprie responsabilita'.
Assistiamo ancora, e ancora, e ancora, e ancora, una volta al solito giochetto: i documenti scritti da Joseph Ratzinger sotto il Pontificato di Giovanni Paolo II ed approvati da quest'ultimo ricadono sotto la responsabilita' di quel "cattivone" dell'allora Prefetto (il Papa e' "innocente").
Ma i documenti scritti dai vari Prefetti e collaboratori di Benedetto XVI ed approvati da quest'ultimo ricadono sotto la responsabilita' dell'attuale Pontefice (Papa Benedetto e' sempre colpevole).
C'e' poi un curioso fenomeno esilarante: i documenti scritti da Joseph Ratzinger, cardinale, e giudicati "buoni e giusti" dai media sono merito di Giovanni Paolo II che li ha approvati.
Non e' una cosa divertente? No? Avete ragione...e' ridicola.

Io non so sinceramente come mai alcuni giornalisti della carta stampata provino tanta antipatia per Benedetto XVI, ma una cosa e' certa: il giochino e' ormai palese ed e' fin troppo semplice smascherarlo.
Personalmente non chiedo e non pretendo che i vaticanisti, i giornalisti, i commentatori e gli editorialisti siano sempre d'accordo con Benedetto XVI.
Il diritto di critica e' sacrosanto, ma serve una certa onesta' e soprattutto occorre liberarsi dai pregiudizi.
Va bene fare qualche confronto fra il Papa regnante ed i suoi predecessori ma la nenia non puo' diventare il leif motiv di ogni commento ed articolo!
C'e' qualcuno che vive di ricordi perenni, ma la cosa sta iniziando a stancare anche perche' e' infantile continuare a fare confronti.
Non rende giustizia, in particolare, a Giovanni Paolo II.
E' triste che, per esaltarlo, si senta il bisogno di confrontarlo con quel "cattivone" del suo successore.
Non si elogia una persona tentando, invano, di demolirne un'altra.
Cosi' facendo si ottengono solo due risultati: si ricorda superficialmente e mediaticamente Giovanni Paolo II di cui ormai non si citano piu' nemmeno i testi e si induce chi vuole bene a Benedetto XVI a mettersi sulla difensiva ricorrendo, parallelamente, al confronto anche in modo pungente, rammentando che molti dei testi scritti negli ultimi trent'anni sono farina del sacco ratzingeriano.
Le persone sono diverse: ciascuno di noi e' unico. Grazie a Dio!

Benedetto XVI non e' e non sara' mai Giovanni Paolo II cosi' come quest'ultimo non era e non avrebbe mai potuto essere Joseph Ratzinger!
Rispettiamoli entrambi e ne avremo tutti giovamento.
Non e' sicuramente affermando che Papa Wojtyla era bravo perche' rispondeva ai giornalisti in aereo o perche' sapeva sciare o nuotare che gli si rende un servizio.
Mi dispiace molto questo atteggiamento dei media.
E' un vero peccato che non si pongano nemmeno il problema di raccontare Benedetto XVI come egli e' in realta'.
Certo, ormai ci sono mezzi alternativi, soprattutto internet, ma la carta stampata dovrebbe fornire riflessioni ed informazioni, non pregiudizi.
Il bilancio di quest'anno e' fortemente negativo non tanto e non solo per quello che si e' scritto ma per come lo si e' scritto: con livore, spesso con superficialita', senza tatto ne' sensibilita'.
Dubito che l'atteggiamento cambiera' nel 2009 anche perche' Benedetto XVI non puo' essere il Papa "benedetto" dai media: egli non e' mediaticamentepoliticamentereligiosamente corretto, non strizza l'occhio ai giornalisti, non manda veline, non ha bisogno che i giornali lo esaltino per ottenere consenso.
In altre parole: e' un uomo libero, profetico, combattivo, a cui piace andare controcorrente.
Esce da tutti gli schemi ed e' imprevedibile.
Questo suo essere "sfuggente" affascina i fedeli ma spiazza i media che, ovviamente, non lo capiscono o fanno finta di non capirlo.
Speriamo di tracciare un bilancio migliore nel 2009."

martedì, dicembre 23, 2008

venerdì, dicembre 19, 2008

Rintrono Papale /2

Ovvero: IL TRONETTO DOVE LO METTO?


Scorrendo la colorita storia della nobiltà papalina un particolare che rimane solitamente impresso è il curioso appellativo di “Marchesi del baldacchino” con cui vengono designate alcune famiglie marchionali romane per il fatto che, gli eredi di tali blasonate prosapie al pari delle famiglie ducali e principesche, avevano il privilegio di poter ricevere le visite di cortesia del Papa. A tal fine quei marchesi (e duchi, e principi) in una acconcia sala dell’appartamento nobile del loro palazzo gentilizio mantenevano perennemente allestito un tronetto, nel caso che la sacra persona del Pontefice si degnasse di far visita ai propri nobili sudditi. L’espressione “Marchesi del baldacchino” dipendeva quindi dal fatto che il trono papale fosse coronato da un baldacchino.

In araldica il baldacchino non è come erroneamente si potrebbe credere un simbolo di regalità quanto piuttosto il simbolo della “sovranità” e della “autorità di giurisdizione”. Nell’Ancien Regime la sovranità –e di conseguenza i simboli della sovranità- non erano appannaggio solo dei re (e quindi del Romano Pontefice in quanto Papa-Re) ma anche di coloro cui era tributata un’autorità di giurisdizione (seppur fittizia) sui principati e sui ducati, sui marchesati, sulle contee e sulle baronìe. Pertanto, quegli stessi principi, duchi e marchesi che nel loro palazzo romano avevano eretto un trono per il loro sovrano pontefice, nei propri rispettivi turriti manieri di campagna -dai quali traevano il titolo di principi, duchi e marchesi- avevano anch’essi allestito un proprio trono (e l’imprescindibile baldacchino) per concedere udienza ai propri sudditi burini.

Ma poiché oltre alla giurisdizione civile vige anche una giurisdizione ecclesiastica evidentemente anche i vescovi, quali detentori dell’autorità spirituale sulle diocesi, era d’uopo che si ammantassero dei medesimi simboli esterni di sovranità, soprattutto dopo che le vicissitudini storiche aveano spesso tributato alla persona del vescovo anche un’autorità politica.
Al pari dei nobili, e ad imitazione delle residenze gentilizie, ogni singolo vescovo nel proprio episcopio aveva il suo “piano nobile” in cui non mancava la “Sala del trono” col suo acconcio baldacchino sotto al quale sedersi -come un papa- per attendere paternamente l’omaggio dei “sudditi”.
Un Papa “aristocratico” come Pio XII abolì definitivamente i ridondanti appellativi di “vescovo principe”, “vescovo conte”, etc, con cui i titolari di molte antiche sedi episcopali erano coronati. Eppure la mentalità feudale che per secoli ha contraddistinto l’esercizio dell’autorità episcopale non si è arrestata nemmeno di fronte al “Decreto sull’ufficio pastorale dei vescovi” del Concilio Vaticano II in cui, dopo pagine dove si traccia un ideale ritratto del vescovo quale maestro comprensivo delle difficoltà dei fedeli e di padre indulgente dei cristiani affidati alle sue cure, ecco che quando si tratta di delinearne i rapporti con l’autorità civile si protesta il diritto del vescovo di liberamente comunicare con la Santa Sede e con le altre autorità ecclesiastiche, e ovviamente anche “coi propri sudditi”.

Poiché il potere di giurisdizione del vescovo è un potere “sacro” che per diritto “divino” abilita il vescovo ad insegnare, santificare e governare i fedeli di quella particolare porzione territoriale detta diocesi, ecco che -ancor più che nella abitazione del vescovo- la simbologia dell’autorità episcopale apparirà con maggior forza proprio nel luogo in cui più eloquentemente si manifesta la sua potestà ierocratica, ovvero all’interno della chiesa Cattedrale dove troneggia l’oggetto simbolo della sovranità spirituale del vescovo: la cattedra episcopale immancabilmente coronata dal baldacchino, come obbligatoriamente prescriveva la secolare legislazione canonica.
Alcune volte di solido marmo, o di bronzo, o in legno scolpito, come a formare un tutt’uno col sottostante trono vescovili, altrove la cattedra episcopale poteva trovarsi addirittura sotto un vero e proprio tempietto, circondato da colonne che sorreggevano una copertura architrettonica, ma nella stragrande maggioranza dei casi il baldacchino era di stoffa: obbligatoriamente verde per i vescovi, così come verde doveva essere il dossale alle spalle del seggio episcopale; purpureo il baldacchino per i cardinali e rosso anche per il Papa.
Erano quindi le norme liturgiche ad obbligare, dal Papa fino all’ultimo abate mitrato, a predisporre un baldacchino sopra il seggio sul quale pontificavano. E non solamente nella cattedrale, dove si trova la sede fissa del vescovo ma anche quando l’alto prelato pontificava in altra chiesa diversa dalla chiesa cattedrale e persino nelle celebrazioni all’aperto, sopra il trono episcopale doveva essere obbligatoriamente eretto un baldacchino.


Non essendo la Basilica Vaticana la cattedrale di Roma al suo interno non vi è una cattedra stabile per il Pontefice, perciò in quelle rare e solenni occasioni in cui la Sua Santità presiedeva un rito nel Tempio Petriano veniva allestito l’alto suo trono munito di debito baldacchino; sia che il trono papale fosse posto al centro dell’abside o a lato dell’abside o in uno dei due transetti si destra o si sinistra, o nella navata centrale o nel portico della basilica, o sul sagrato esterno, mai esso era privo di baldacchino. E questo avveniva –lo ripetiamo con forza- non in omaggio alla “maestà” regale del pontefice -in ossequio alla sentenza dei canonisti medievali secondo i quali “Papa vere imperator est”- ma in ossequio all’autorità spirituale del Vescovo di Roma come altresì prescritto dal Cerimoniale Episcoporum per qualsivoglia altro prelato.
Ecco perché in ossequio alla loro autorità di giurisdizione sulla Sancta Romana Eclesia durante la Sede Vacante (e non per puro vezzo baroccheggiante) i cardinali in conclave sedevano su tronetti adorni di baldacchino; al momento dell’accettazione del neo eletto papa, i cardinali, tirando una cordicella chiudevano e facevano scomparire il proprio baldacchino in modo che rimanesse aperto solo il baldacchino pendente sulla testa del papa nuovo: a significare che a lui solo era riconosciuta la piena diretta e immediata giurisdizione sulla Chiesa Cattolica Romana.

Per questo, quando si dovette allestire la basilica di san Pietro per la celebrazione del Concilio Vaticano II si decise di porre una pedana davanti all’altare papale in modo da occludere parte dell’emiciclo della Confessione per porvici sopra il trono papale. Anche una volta conclusosi il Concilio ogni volta che c’è una messa papale si è continuato ad allestire la pedana posticcia per porvi la bianca poltrona su cui siede il papa perché ci si è accorti che da quel punto esatto la persona fisica del Pontefice gode della massima visibilità. Ma i cerimonieri di Giovanni XXIII che vollero quella pedana davanti all’altare papale lo fecero unicamente per fare in modo che il trono su cui, in faccia ai vescovi di tutto il mondo, doveva sedere l’Episcopus episcoporum si trovasse all’ombra del baldacchino berniniano evitando, così, l’erezione di un ulteriore baldacchino posticcio.


Seguendo le raccomandazioni dei padri conciliari che auspicavano un’aggiornamento dei sacri riti al fine di far splendere in faccia a i fedeli la nobile semplicità di una liturgia trasparente per brevità e senza inutili ripetizioni, il 21 giugno 1968 (eloquentemente nell'anniversario dell'elezione del pontefice allora regnante!) sulla scia della generale opera post-conciliare di revisione dei libri liturgici, l’allora Sacra Congregazione dei Riti promulgava l'Istruzione "Pontificales ritus" che -a soli cento ottant’anni dalla rivoluzione francese- metteva fine all’Ancien Regime liturgico abolendo tutta una minuziosa sequenza di vere e proprie corvé presenti nel Cerimoniale Episcoporum con cui il clero doveva umiliarsi davanti al proprio vescovo pontificante.
Al punto 11 l'Istruzione "Pontificale ritus" aboliva il baldacchino dal numero delle insegne vescovili: "Cathedrae posthac baldachinum non superponatur" (a meno che fosse impossibile smantellare il balacchino senza causare un danno artistico).

Una Curia Romana "sessantottina", con la benedizione di Paolo VI, dava ordine di far sparire il baldacchino dalle celebrazioni episcopali ma innazitutto spariva definitivamente dalle scenografiche liturgie vaticane (così come con la contemporanea riforma della corte pontificia venivano fatti sparire tutta una serie di arcaici personaggi che stazionavano all’ombra del baldacchino papale).
Pertanto, nemmeno il "revival" neobarocco di monsignor Guido Marini potrebbe far comparire all’ombra del cupolone michelangiolesco un rubicondo baldacchino a far da corona del “trono” di quel Benedetto Papa “ccioiosamente regnate”.

Per quanto riguarda invece l’allestimento della sede papale all’esterno della Basilica vaticana -per le celebrazioni presiedute in Piazza San Pietro- sarebbe invece assai auspicabile che venisse predisposta una qualche forma di copertura per mettere il luogo in cui è assiso il Romano Pontefice al riparo degli agenti atmosferici. Ma un simile manufatto per quanto vagamente somigliante ad un baldacchino non potrebbe mai più assumere una qualsivoglia valenza simbolica, né si potrebbe pretendere di scorgervi un dovuto omaggio né di “maestà” spirituale né tanto meno di ossequioso tributo alla “sovranità” temporale del Pontefice. Seppur adorno e baroccheggiante -quanto più aggradasse al più esteticamente controriformato dei cerimonieri pontifici- rimarrebbe semplicemente una tettoia il cui fine assai prosaico sarebbe unicamente quello di riparare il Papa dalla calura di quel sole che splende sui giusti e sugli ingiusti, e di proteggerlo da quella pioggia cade sui buoni e sui cattivi.

Quando nel 1963 papa Giovanni XXIII concesse udienza ai coniugi Agiubey nella sala del tronetto, l’attenzione del genero di Krusciov venne attratta dall’iscrizione latina ricamata sul baldacchino sovrastante la poltrona su cui sedeva Papa Giovanni. Ne chiese il significato al proprio accompagnatore e traduttore, e se la appuntò sulla propria agendina. L’iscrizione sul baldacchino papale recitava “UBI PETRUS, IBI ECCLESIA” e non certo “aut Caesar aut nihil” come auspicherebbero certi sregolati devoti d'una incompresa"tradizione".

lunedì, dicembre 15, 2008

Historia Ecclesiastica Anglorum, X

Ovvero: "Forse verrò frainteso se dico che con il suo amore per gli animali san Francesco ci ha salvati dal buddhismo, e che con la sua passione per la filosofia greca san Tommaso ci ha salvati dal platonismo." (G. K. Chesterton)


"San Tommaso d’Aquino è ricomparso recentemente nella cultura contemporanea delle università e nei salotti in un modo che anche solo una decina d’anni fa sarebbe stato sorprendente. È la reazione che ha prodotto è fuori di dubbio molto diversa da quello che aveva reso famoso san Francesco quasi vent’anni fa.

Il santo è un farmaco perché è un antidoto.
E per vero questo è un motivo per cui spesso il santo è un martire: viene scambiato per un veleno perché è un antidoto. In genere è uno che cerca di ricondurre il mondo alla ragione, mettendo in evidenza le cose che il mondo trascura che non sono certamente sempre le stesse nelle varie epoche.

Eppure ogni generazione cerca istintivamente il proprio santo e non si tratta di ciò che la mente vuole ma di quello di cui ha bisogno.
È questo il significato frainteso delle parole rivolte ai primi santi: “voi siete il sale della terra” che ha indotto l’ex Kaiser con affermare con grande solennità che i suoi robusti tedeschi erano il sale della terra, intendendo con ciò soltanto che erano i più grandi e grossi della terra e di conseguenza i migliori. Ma il sale condisce e conserva la carne, non perché è simile ad essa, ma perché è molto diverso.
Cristo non ha detto ai suoi apostoli che erano persone eccellenti o le sole persone eccellenti, ma che erano persone eccezionali, costantemente fuori dalla norma e incompatibili con la norma; e il messaggio circa il sale della terra è veramente acuto, pungente e gustoso come il sapore del sale. E questo perché quelle erano persone eccezionali che non dovevano perdere la loro eccezionalità.

“Se il sale perdesse il suo sapore, con cosa si potrebbe insaporirlo?” è un problema molto più significativo di qualsiasi lagnanza sul prezzo della cane migliore. Se il mondo diventa troppo mondano la chiesa può rimproverarlo, ma se è la chiesa a diventare troppo mondana il mondo non è certo in grado di rimproverarla per la sua mondanità.
Ne consegue che il paradosso della storia è che ciascuna generazione viene convertita dal santo che le si contrappone più nettamente.

San Francesco esercitava una misteriosa e quasi inquietante attrattiva sui vittoriani, cioè su quegli inglesi del XIX secolo che in apparenza erano oltremodo soddisfatti dei loro traffici e si affidavano al loro buon senso. Non soltanto un inglese abbastanza soddisfatto di se come Matthew Arnold* ma anche i liberali inglesi che lui criticava per il loro autocompiacimento cominciarono a scoprire a poco a poco il mistero medievale attraverso la straordinaria storia narrata dalle piume e dalle fiamme dei dipinti agiografici di Giotto.
C’era qualcosa nella storia di san Francesco che riusciva ad aprirsi un varco tra tutte le più famose e più futili caratteristiche degli inglesi, tra tutte quelle caratteristiche di umanità che gli inglesi tengono celate: un cuore sensibile, una mente vagamente poetica, l’amore per la natura e per gli animali. San Francesco d’Assisi è stato l’unico cattolico medievale a conquistarsi fama in Inghilterra per motivi propri. E questo perché i suoi meriti erano gli stessi che il mondo moderno aveva la sensazione di aver trascurato. Il ceto medio inglese aveva trovato il proprio unico missionario nella figura per cui nutriva maggior disprezzo: un mendicante italiano.

Quindi, come il XIX secolo si era aggrappato alla poetica francescana proprio perché aveva trascurato la poesia, così i XX secolo si sta già aggrappando alla teologia razionale tomista perché ha trascurato la logica.
In un mondo troppo statico il cristianesimo era ricomparso nei panni di un vagabondo, e in un mondo diventato troppo tumultuoso il cristianesimo era ricomparso nei panni si un maestro di logica.

Nel mondo di Herbert Spencer la gente cercava un rimedio contro l’indigestione; nel mindo di Einstein cerca un rimedio contro le vertigini. Nel primo caso aveva vagamente percepito il fatto ch era stato dopo un lungo periodo di digiuno che san Francesco aveva composto il cantico delle creature come inno alla terra prodiga di frutti. Nel secondo caso ha già vagamente percepito che anche solo per cominciare a capire Einstein prima era necessario capire come usare l’intelletto.
Si comincia a capire che, come il XVIII secolo si era identificato come l’età della ragione e il XIX secolo come l’età d buon senso, il XX secolo non più neanche lontanamente identificarsi come altro che l’età di una non comune mancanza di buon senso. In queste condizioni il mondo ha bisogno di un santo, ma soprattutto ha bisogno di un filosofo.

E, tanto per rendere giustizia al mondo, va detto che i due casi di cui sopra dimostrano che sa per istinto di che cosa ha bisogno.
La terra era veramente piatta per quei vittoriani che ripetevano a oltranza che era rotonda, e La Verna delle stigmate era l’unico monte che si ergeva su quella pianura.
Ma la terra è un terremoto, un terremoto senza sosta e apparentemente destinato a non finire mai, per i nostri contemporanei per i quali Newton è stato spazzato via insieme a Tolomeo. E per loro c’è qualcosa di più scosceso e di più inimmaginabile di una montagna: un pezzo di terreno veramente solido, o la posizione di una persona veramente equilibrata.
Ecco che ai nostri giorni i due santi anno affascinato due generazioni, quella dei romantici e quella degli scettici”.

(Gilbert Keith CHESTERTON; Saint Thomas Aquinas, 1933)

mercoledì, dicembre 10, 2008

LA DIVINA PASTORA [11]


Ovvero: "Ce ne han dette tante, o Regina degli apostoli, / Abbiamo perso il gusto per i discorsi / Non abbiamo più altari se non i vostri / Non sappiamo nient’altro che una preghiera semplice.
(Charles Peguy)


L'Eminentissimo Godfried Danneels dal 1979 Arcivescovo di Mechelen-Bruxelles, Cardinale di Sant'Anastasia dal 1983, ha partecipato al conclave del 2005 con la massmediatica nomea di "papabile" -o almeno di occulto manovratore- della fazione "progressista".
Grande esperto di "collegialità epicopale" sin da quando nel 1978 (ancorchè giovane vescovo di Anversa) il neoeletto Giovanni Paolo II lo designerà all'ingrato compito di conpresiedere il Sinodo olandese. Promosso a Primate del Belgio (e quale rappresentante della Conferenza episcopale belga) parteciperà al Sinodo dei vescovi del 1980, che aveva per tema la famiglia, e verrà eletto membro permanente del Segretariato Generale del Sinodo stesso. Giovanni Paolo II lo nominerà poi Relatore del Sinodo staordinario del 1985 in occasione dei vent'anni dalla conclusione del Concilio Vaticano II.
Il Cardianal Godfried Danneels il 4 giugno 2008 ha ragiunto il compimento del fatidico settantacinquesimo anno di vita che lo ha obbligato, come ogni altro vescovo cattolico, ad inviare al Papa la lettera di dimissioni come previsto dalla legislazione canonica. L'Eminentisimo ha spedito la lettera di dimissioni con alcune settimane di anticipo sulla data del proprio genitliaco «che con le poste italiane non si sa mai». E, nell'attesa che Benedetto XVI accettate le dimissioni provveda alla nomina del successore, ha partecipato all'ennesimo Sinodo episcopale (l'ultimo cui prevedibilmente parteciperà) questa volta su un tema particolarmente caro al cardinale belga: la Bibbia.

Intervistato dalla rivista "30 Giorni" (Settembre 2008) il Cardinale Godfried Danneels ha tracciato un sapido sunto della propria trentenale esperienza pastorale:"...Il Papa negli ultimi tempi l’ha mandata come rappresentante pontificio alle celebrazioni giubilari di diversi santuari.
DANNEELS: Sono stato a Banneux, al santuario della Vierge des pauvres, poi a Valencienne, ed è stata la stessa cosa, veramente impressionante: cinquemila persone alla messa sulla pubblica piazza, la domenica mattina alle nove. E poi a Reims per san Remigio, e in Lussemburgo per san Willibrordo. È stato un anno in cui mi sono trovato immerso nella devozione popolare. Con grande sollievo. Quello lì è l’humus fecondo. Tutto il resto nella Chiesa vive solo se è piantato in questo humus. Sono le folle di cui parla il Vangelo.

L’unica indicazione pastorale che lei ha dato anche sul bollettino della diocesi, è stata quella di andare in pellegrinaggio ai santuari mariani, anche i più vicini. Come vescovo, lei non è uno che riempie di istruzioni i suoi fedeli. Qualcuno glielo rimprovera.
DANNEELS: Quando ero professore di Teologia, lavoravo su un registro che da me esigeva soprattutto chiarezza e rigore metodologico nel lavoro intellettuale. Da quando sono divenuto vescovo, è la carità pastorale che ha preso il sopravvento. Il teologo ha il diritto e anche il dovere di esprimere le proprie idee su qualsiasi tema. Per il vescovo è un’altra cosa. Non è così importante che esprima il suo pensiero teologico con perspicacia intellettuale.
Da vescovo, ci si accorge che nel mondo, lontano dalle biblioteche e dai libri, succedono tante cose. Si vedono le miserie degli uomini. Si vede la mescolanza sociale e culturale in cui viviamo immersi. È tutto diverso. Il teologo è istallato in un certo status ben definito.
Il pastore, invece, deve vivere una sorta di “bilocazione”: deve camminare davanti, a guidare il suo popolo. Ma deve stare anche in fondo, a chiudere la fila, perché se qualche agnello si ferisce, o si rompe una gamba, tocca a lui prenderlo sulle proprie spalle. Imitando, se possibile, quello che fa Gesù, l’unico pastore del gregge.

Riguardo ai vescovi, il Concilio aveva inteso valorizzare la figura del vescovo. A distanza di quarant’anni, alcuni registrano una specie di appiattimento, di “omologazione” nell’episcopato.
DANNEELS: Agli ultimi Sinodi cui ho partecipato, ho visto tante brave persone, ma il livello non è quello dei vescovi del Concilio. Tutti sono gentili e pieni di buone intenzioni, ma mi sembra che manchi un po’ d’intelligenza, che non guasta mai. Un’intelligenza del cuore.

Lo stesso vale per il modo in cui vengono stabiliti i ruoli nella Chiesa…
DANNEELS: Per essere più elastici, bisognerebbe riprendere la distinzione tra potere d’ordine e di giurisdizione. Adesso, questi due poteri sono indissociabili. Il potere di giurisdizione può essere affidato solo a qualcuno che è ordinato. La teologia del Concilio Vaticano II ha reso ancora più forte questo nesso.
Eppure, nel Medioevo, erano le badesse dei grandi monasteri che concedevano ai preti la giurisdizione per ascoltare le confessioni. Chissà se adesso si permetterebbe di nuovo una prassi del genere."

martedì, dicembre 09, 2008

Pacco, contropacco e contropaccotto / 11

Ovvero:“La storia russa leggila come la vita dei santi
(K.Aksako)



Per i russi la Russia è la “Santa Russia”, anzi, la “Santa Madre Russia” con una identificazone tra la Santa Chiesa Ortodossa e la “Madre Patria” che nemmeno un settantennio di persecuzione ateistica hanno potuto vincere, poiché qualunque storia della Russia avrà il suo inevitabile prologo nel battesimo del santo principe Vladimir –di tutta la sua famiglia, e tutto il proprio esercito, e di tutto il popolo di Kiev- nelle fredde acque del fiume Dniepr, per mano di ecclesiastici appositamente giunti da Costantinopoli, nell’anno 988.

Dalla “Grande Chiesa” bizantina i russi ricevettero, inscindibilmente con la fede, anche i riti liturgici e la disciplina ecclesiastica: questa obbedienza (e sottomissione) del clero russo al Trono Ecumenico consentiva al Patriarca di Costantinopoli di scegliere quale suprema autorità della Chiesa russa un ecclesiastico “greco” che si insediava nel Principato di Mosca col titolo di Metropolita di Kiev e di tutta la Rus’. Il titolo episcopale del capo della Chiesa russa non verrà modificato nemmeno quando dopo il 1326 il Metropolita di Kiev risiederà stabilmente a Mosca in seguito all’invasione polacca di quelle terre poi note come Ucraina.

L’Arcivescovo “greco” Isidoro in quanto Metropolita di Kiev , e in rappresentanza dell’Ortodossia moscovita, partecipò a quel Concilio di Firenze che aveva lo scopo religioso di mettere fine allo scisma tra Chiesa di Roma e Chiesa bizantina (e lo scopo politico di spingere gli Stati dell’Europa occidentale, che allora erano tutti cattolici, ad unirsi in una crociata per salvare Costantinopoli dall’invasione turca).
Premiato dal Papa Eugenio IV con la porpora per l’entusiastico appoggio all’unione delle Chiese, il Metropolita a e “Legato pontificio” in faccia al clero, aristocrazia e popolo moscovita schierati, lesse solennemente il decreto di unione che gli costò l’arresto immediato e l’accusa di alto tradimento. Fuggito dal monastero moscovita in cui era stato segregato, e dopo un rocambolesco viaggio, il cardinale Isidoro arrivava a Roma dove il nuovo Papa Nicolò V gli conferiva un secondo ingrato compito: celebrare solennemente l’unione tra Chiesa latina e Chiesa bizantina nella Basilica di Santa Sofia di Costantinopoli (che solo cinque mesi dopo verrà trasformata in moschea da Maometto II).


Poiché il Gran Principe di Mosca non poteva tollerare che la Chiesa russa fosse in alcun modo assoggettata a quella Chiesa costantinopolitana ormai caduta nelle grinfie dell’eresia latina, nel 1448 fece eleggere un ecclesiastico russo quale nuovo Metropolita. E non bastò che il nuovo Patriarca, di una Costantinopoli ormai capitale di un impero islamico, ripudiasse l’unione con Roma per riottenere la sottomissione canonica delle gerarchie russe poiché per Mosca era inammissibile che il clero della Santa Russia prestasse obbedienza ad un suddito, ed ostaggio, di un tiranno “pagano”.

Un concilio convocato a Mosca nel 1459 proclamerà solennemente la Chiesa russa “autocefala” cioè facente capo solo a se stessa, ovvero indipendente, e che pertanto in avvenire l’elezione del nuovo Metropolita non avrebbe avuto più alcun bisogno dell’ approvazione del Trono Ecumenico. Quando poi si dovette eleggere il nuovo Metropolita non fu più “di Kiev” ma “di Mosca e di tutta la Russia”.


Il cardinale Isidoro non era certo il solo illustre “greco” scampato alla conquista ottomana del 1453 che avesse optato per un dorato esilio romano: i più illustri bizantini che trovarono accoglienza presso la Corte Pontificia furono gli stessi ultimi eredi della corona imperiale. Nel 1462, portando in dono a Pio II la testa dell’apostolo Andrea, fecero il loro solenne ingresso in Roma Tommaso Paleologo, fratello dell’ultimo imperatore Costantino XI, ed i figli Andrea, Manuele e Zoe.
Nel 1472, per i buoni uffici di Sisto IV la principessa Zoe Paleologa verrà data in moglie al Gran Principe di Mosca Ivan III.
Avvenne così che proprio per mezzo dell’odiato Papa di Roma venisse data una legittimità dinastica alle pretese moscovite di essere erede della tradizione autocratica bizantina.

Se il principe moscovita rimaneva l’unico sovrano di un regno cristiano-ortodosso, sposando un’erede (seppur non erede diretta) dell’ultimo Cesare bizantino, accoglieva l’eredità imperiale di Bisanzio. Da quel momento Mosca dovrà essere la “Terza Roma” cioè la capitale di quel medesimo impero che dalle rive del Tevere l’imperatore Costantino aveva trasferito nella “Nuova Roma” fondato sul Bosforo e che i recenti luttuosissimi eventi avevano fatalmente nuovamente traslato sulle rive della Moscova.
L’aquila bicefala che fu simbolo dell’impero costantinopolitano diverrà il nuovo simbolo del sovrano moscovita per il quale essere un “Gran principe” è ormai troppo poco: egli è vero imperatore, è “Cesare”, è “C-zar”!


Coerentemente con la tradizione bizantina della “sinfonia” tra Stato e Chiesa, se lo C-zar di Mosca è l’erede dell’imperatore di Costantinopoli conseguentemente anche il Metropolita di Mosca dovrà essere l’erede del Patriarca di Costantinopoli. La qual cosa è ben difficile da ottenere perché sotto il tallone del Turco i Patriarchi di Costantinopoli non solo continuano a pontificare ma ricevono dal Sultano il potere d sottomettere tutti i cristiani ortodossi presenti dell’immenso impero ottomano: non solo gli ortodossi serbi, romeni e bulgari ma anche i patriarcati di Alessandria d’Egitto, Gerusalemme ed Antiochia.
Ma se i titolari degli antichi patriarcati sotto il giogo islamico hanno perso la loro libertà non hanno nessuna intenzione di rinunciare anche alla loro autorità e pertanto anche quando, nel 1592 riunitisi a Costantinopoli, ratificheranno solennemente la concessione all’arcivescovo moscovita del titolo di “Sua Santità” e “Patriarca di Mosca e di tutta la Russia” non benediranno affatto il mito della “Terza Roma” e nella gerarchia dei patriarcati non inseriranno Mosca subito dopo Costantinopoli, come invece pretendevano i russi. Alla Santità del Patriarca di Mosca verrà riservato il quinto posto: dopo Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme.

Tanto grande sarà in Russia l’autorità dei Patriarchi di Mosca durante il XVII secolo che non avranno imbarazzo ad usare la (ormai riconosciuta per falsa) Donazione di Costantino a Papa Silvestro per invocare la preminenza della loro autorità spirituale sull’autorità temporale degli C-zar. Alla morte del Patriarca Adrian avvenuta nell’anno 1700 Pietro “il Grande” riterrà quindi opportuno vietare l’elezione di un nuovo patriarca ed “ammodernerà” l’amministrazione del patriarcato russo sul modello delle Chiese di Stato dell’Europa protestante che professavano il principio luterano della sottomissione della Chiesa allo Stato e in cui il monarca era capo della Chiesa.
Continueranno ad essere nominati gli arcivescovi di Mosca ma essi non saranno più patriarchi e nemmeno conserveranno quel prestigio puramente onorifico che invece sarà tributato l’arcivescovo di San Pietroburgo la nuova capitale russa. Seppur umiliata da sovrani “illuminati” come Pietro e Caterina II la Chiesa considererà le guerre espansionistiche zariste come vere e proprie guerre sante ortodosse, e specialmente quelle miranti ad incamerare i dominii polacchi.
Ma sarà nel romantico XIX secolo, quando gli imperatori russi torneranno ad essere più pii ed innalzeranno sulla Piazza Rossa la nuova colossale cattedrale del Salvatore, che la volontà di potenza dello Stato russo sarà tutt’uno con l’affermazione del primato dell’Ortodossia russa sulle altre Chiese ortodosse.
Il lento ed inesorabile sgretolarsi dell’impero ottomano darà all’impero russo la possibilità di presentarsi come paladino dei legittimi moti indipendentistici dei popoli balcanici, fratelli nella comune fede ortodossa. E siccome per i greci, serbi, romeni e bulgari l’indipendenza politica dai turchi era tutt’uno dall’indipendenza ecclesiastica dal Trono Ecumenico, l’impero zarista si proclamò protettore nonchè vendicatore dei cristiani ortodossi sudditi della Sublime Porta.
Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale fece intravedere il miraggio di una storica rivincita dell’Ortodossia bizantina contro un Islam ricacciato definitivamente al di là del Bosforo, e di una Costantinopoli tornata ad essere capitale di un impero cristiano formato da tutte le nazioni slave ed ortodosse dell’Europa orientale sotto lo scettro dei Romanov; e di una Santa Sofia tornata cattedrale bizantina in cui avrebbe pontificato un Patriarca di Costantinopoli non più greco ma finalmente russo circondato da un Santo Sinodo slavo.


Se questi erano i piani della politica estera, tanto più in politica interna gli C-zar erano convinti che per russificare le minoranze etniche bisognasse costringerle a convertirsi alla Chiesa ortodossa russa, provocando per contrappasso il sorgere in quelle popolazioni di un sentimento nazionalistico. Quando durante la Prima Guerra Mondiale l’impero russo invase ed occupò militarmente la Galizia abitata in prevalenza da polacchi il Granduca Nicola comandante delle armate russe lamenterà che egli aveva atteso l’arrivo di treni carichi di munizioni ed invece erano arrivati dei treni carichi di pope (venuti a battezzare i polacchi e gli ucraini).
In questa indistricabile epopea della Chiesa e della Nazione russa l’anno 1917 rimane una data memorabile poiché, tra la rivoluzione di febbraio e la rivoluzione d’ottobre, la gerarchia ortodossa momentaneamente libera dal controllo politico ne approfittò per rieleggere, dopo oltre due secoli, un nuovo Patriarca nella persona di Tichon, Metropolita di Mosca.

Il nuovo regime bolscevico volendo estirpare ogni fenomeno religioso farà della Chiesa ortodossa, non l’unico ma certamente il principale, oggetto della persecuzione anticlericale che si prefiggeva come scopo il totale annientamento del cristianesimo in Russia.
Nel 1922 oltre quaranta vescovi del patriarcato di Mosca furono fucilati e gran parte del clero venne deportato nei gulag mentre le chiese venivano chiuse, spogliate dei loro ornamenti, spesso distrutte e demolite. A fermare le persecuzioni non basteranno le pubblica attestazione di lealismo al governo bolscevico da parte del patriarca Tikhon e la sua presa di distanza dalla "controrivoluzione" interna ed estera. Nel 1925, sul letto di morte San Tikhon profeterà: “La notte sarà molto lunga e buia”.


Con l’avvento al potere di Stalin la precaria situazione della Chiesa non si stabilizza affatto ma tra le improvvise sparizioni e le esecuzioni capitali, o a causa dei maltrattamenti in carcere, nel periodo della “lunga notte” vengono meno 272 vescovi del Patriarcato di Mosca. La Chiesa Russa è condannata a scomparire esattamente così come la cattedrale moscovita del Salvatore che Stalin fa radere al suolo: in sua vece venne eretto un centro sportivo e con il marmo del demolito tempio venne pavimentata la nuova metropolitana di Mosca.

Alla morte del Patriarca Tikhon il metropolita Sergiej Stragorodskij, per il drammatico procedere degli eventi, di fatto ("de jure" solo dal 1936) si trovò nel ruolo di “Locum Tenens” patriarcale, intervallando la sua residenza forzata fuori Moca a periodi di carcerazione. Nel 1927 stilava una solenne “Dichiarazione” in cui la Chiesa Ortodossa riconosceva nell’Unione Sovietica la propria patria civile e giurava lealtà al Soviet Supremo. Tale politica lealista -che era la fedele continuazione di quella del defunto Tikhon- fu oggetto di aspre critiche, soprattutto da parte di quella porzione di clero e fedeli russi nella diaspora che, del resto, già dal 1920 avevano ricevuto da Tikhon la facoltà di crearsi un’amministrazione ecclesiastica autonoma.
Il metropolita Sergio per salvare il salvabile non poteva che affidarsi al più disincantato realismo: impossibile creare in Unione Sovietica una Chiesa clandestina -come molti auspicavano- proprio perché sarebbe stato impossibile sfuggire alle maglie della polizia e dello spionaggio per una gerarchia ecclesiastica organizzata capillarmente in tutto il territorio nazionale.


Nel 1939, quando Hitler invade la Polonia dando inizio al secondo conflitto mondiale, in tutta l’Unione sovietica i vescovi del Patriarcato di Mosca ancora “liberi” sono solo quattro! Stalin però sa che se ha distrutto la Chiesa ortodossa non è riuscito ad estirpare la fede ortodossa dal cuore e dalla mente delle masse. Seppur privato del clero e dei luoghi di culto il popolo continua privatamente nelle proprie devozioni e a celebrare le festività del calendario giuliano.

Quando nel 1941 Hitler dichiara guerra all’Unione Sovietica Stalin decide di mettere alla prova il patriottismo del metropolita Sergio.
Da buon ex seminarista qual è, il leader sovietico sa bene che nella storia della Russia il clero, brandendo le icone della Madre di Dio, ha fomentato il popolo conto gli ogni invasione della “Santa Russia”: contro i tartari, contro i polacchi, contro gli svedesi e contro Napoleone. Lo stesso giorno in cui giunge a Mosca la notizia che l’esercito nazista è penetrato in territorio sovietico, il Locum tenens patriarcale emanava prontamente una lettera pastorale indirizzata a tutti i fedeli ortodossi dell’Unione Sovietica spronandoli, in nome di Dio, ad opporsi all’invasore tedesco.
Ma se Stalin voleva una Chiesa che supportasse la propaganda nazionalistica avrebbe dovuto consentire che l’agonizzante ortodossia russa si riorganizzasse e così migliaia di monaci e di preti riapparvero dopo molti anni di segregazione nei gulag. Vennero ricostituite le 73 diocesi in cui era diviso il Patriarcato di Mosca nell’era prerivoluzionaria e di conseguenza consacrati i nuovi rispettivi vescovi.

L’8 settembre 1943 Stalin premiava il metropolita Sergio concedendogli l’elezione al soglio patriarcale. Quando pochi mesi dopo il Patriarca Sergio moriva Stalin acconsentiva che si procedesse all’elezione del successore nella persona del metropolita di Leningrado Alexij Simansky che si era eroicamente prodigato durante la resistenza leningradese all’assedio nazista.
Il 2 febbraio 1945 con la sua solenne intronizzazione cominciava il pontificato del Patriarca Alessio I.


Stalin non ha concesso al Patriarcato di Mosca altro privilegio se non solo quello di non essere annientato ma nonostante questo, o forse proprio per questo, nelle gerarchie ortodosse si innescò inesorabilmente una specie di “sindrome di Stoccolma” che fa credere possibile di ottenere per mezzo dell’atea Unione Sovietica quel ruolo di guida dell’ortodossia mondiale che non si era riusciti a raggiungere sotto l’autocrazia zarista. Esempio di “sinfonia” tra Stalin ed Alessio I fu la forzata sottomissione al Patriarcato di Mosca della Chiesa bizantina unita a Roma e maggioritaria dell’Ucraina occidentale (Galizia) inglobata nell’URSS con lo smembramento della Polonia.

Nel nuovo clima segnato dagli accordi di Yalta, Stalin cerca tramite il Patriarcato russo di estendere l’influenza sovietica sulle nazioni non ancora allineate; con la benedizione di Stalin e Molotov il neoeletto Alessio I ad appena poche settimane la sua investitura parte per un tour che tra l’aprile e il maggio 1945 toccherà Teheran, Bagdad, la Siria, il Libano, Gerusalemme e l’Egitto, al fine di promuovere presso le antiche Chiese orientali un orientamento filo-russo (sia religiosamente sia politicamente) in sostituzione dell’influenza della filo-occidentale Ortodossia “greca” del Patriarcato Ecumenico e della Chiesa ellenica. Avendo l’appoggio di Stalin e con un Patriarcato Ecumenico straziato a causa del disprezzo del Governo turco nei confronti di tutto quello che fosse greco, Alessio I ritenne che la situazione politico-ecclesiastica fosse la più propizia per sanzionare ufficialmente la preminenza sul Patriarca di Costantinopoli agognata da secoli e a tale scopo convocò a Mosca un concilio a cui invitò tutti i rappresentanti delle Chiese bizantine ma che la dura protesta del Santo Sinodo costantinopolitano, e del Santo Sinodo di Atene, costrinse il Patriarca Alessio a derubricare a semplice celebrazione per i cinquecento anni dall’ottenuta indipendenza (autocefalia) dal Patriarca di Costantinopoli.


Le manovre staliniane non sfuggirono affatto al Presidente americano Truman che costrinse l’alleato turco a permettere l’elezione di un nuovo Patriarca Ecumenico nella persona del capo della Chiesa greco-ortodossa in Nord America: il metropolita Athenagoras che, ad elezione avvenuta, nel 1949 metteva piede ad Istanbul scendendo la scaletta del “Number One” cioè l’aereo personale del Presidente degli Stati Uniti.
Nella Pasqua del 1950, il Patriarca Ecumenico Athenagora I con una enciclica rivolta a tutte le Chiese ortodosse riaffermava solennemente che criterio e discrimine per valutare e definire l’ortodossia di una Chiesa autocefala fosse la sua concordia ed unità con la Sede costantinopolitana, e per meglio significare il proprio ruolo primaziale cominciò con l’andare a far visita agli altri patriarchi mediterranei ed ai leader delle altre Chiese.
L’inatteso disgelo ecumenico di Giovanni XXIII sposterà le schermaglie tra Costantinopoli e Mosca anche sul campo del dialogo con Cattolicesimo romano.

Indirizzata ufficialmente dal buon Papa Giovanni la richiesta alle Chiese Ortodosse di inviare degli osservatori all’incipiente Concilio Vaticano, il Patriarca Ecumenico pensò che fosse opportuno rispondere univocamente e, dopo aver sentito il parere negativo di tutti i leaders ortodossi compreso quello di Mosca, con personale rammarico rendeva noto il rifiuto. Immediatamente dopo il Governo Sovietico annunciava che ecclesiastici del Patriarcato di Mosca avrebbero invece presenziato ai lavori del concilio papista: lo schiaffo al prestigio di Athenagora non poteva essere meglio assestato.

Il Patriarcato di Mosca aderisce al Consiglio ecumenico delle Chiese e partecipa a tutte quelle iniziative internazionali religiose e pacifiste che possando darle visibilità, anche perché gli anni della “distenzione” di Krusciov (uomo personalmente ignoranisimo in materia religiosa) sono anni di ripresa della persecuzione sistematica verso la Chiesa ortodossa la quale considererà la notorietà internazionale dei propri vescovi come l’unica garanzia di salvarsi dal pericolo di improvvisi arresti e sparizioni di cui furono invece vittime gli ecclesiastici degli anni Trenta.
Ultanovantenne Alessio I spira nel 1970.
Nel 1972 muore anche Atenagora.
I nuovi patriarchi Pimen di Mosca e Demetrio di Costantinopoli -che pontificheranno entrambi fino al 1990- pontificano in un'era che si apre assai grigia ed avranno personalità meno estroverse dei loro due predecessori (nonché dei loro due successori).
E mentre la Chiesa di Roma constata il raffreddamento delle ansie ecumeniche bizantine considererà assai più strategico intrattenere cordiali rapporti ufficiali col Patriarcato di Mosca mediante il -sempre calorosamente accolto in Vaticano- Metropolita Nikodim di Leningrado, responsabile patriarcale per i “rapporti esterni”.
La fine repentina ed imprevista della Ostpolitik montiniana è quasi simboleggiata dalla altrettanto repentina morte del metropolita Nikodim fra le braccia di Giovanni Paolo I.


Giovanni Paolo II conosce personalmente la sofferenza dei cattolici sudditi della dittatura sovietica e che i greco-cattolici ucraini sono stati la vittima sacrificale per ottenere cordiali rapporti tra il Vaticano e Mosca.
Papa Wojtyla con una sua lettera pontificia del 1979 indirizzata al cardinale ucraino Josyf Slipy vuole invece rendere pubblico omaggio alla chiesa martire dell’Ucraina nata con l’Unione di Brest nel 1591 ma le cui origini risalgono a quel battesimo del principe Vladimir di cui nell’ormai non lontano 1988 si sarebbe festeggiato il millenario.
Il patriarcato di Mosca rispondenva prontamente annullando l’incontro teologico bilaterale che doveva celebrarsi ad Odessa e tramite il nuovo responsabile per i rapporti esterni metropolita Juvenaly, si domandò al Pontificio segretariato per l’unità dei cristiani di spiegare “il significato esatto” delle parole del papa.

Giovanni Paolo II non solo a parole ma fattivamente si preoccupò della sopravvivenza di quella Chiesa ucraina fedele a Roma il cui Arcivescovo maggiore cardinal Slipy ormai ottantacinquenne viveva in esilio dal lontano 1963. Al fine di dare una chiara continuità storica e canonica alla Chiesa ucraina unita a Roma, nel 1980 convocava in Vaticano la gerarchia greco-cattolica nella diaspora per eleggere colui che alla morte di Slypy gli sarebbe dovuto succedere nella carica di Arcivescovo di Leopoli. Per non aggravare ulteriormente i rapporti con Mosca però Giovanni Paolo II rifiutò di assecondare la richiesta del Sinodo ucraino che insisteva affinchè la propria Chiesa –e il proprio capo- venisse elevata al rango patriarcale.
Ma, d'altro canto, l’insistere pubblico e reiterato di Giovanni Paolo II nel voler pubblicizzare il millenario del battesimo della Russia costrinse il governo sovietico -dopo il 1985 retto nelle mani di Gorbaciov- a consentire ufficiali cerimonie commemorative (in cui ci sarebbe stato quel che più si voleva evitare: l’affluenza popolare) dove al Patriarca di Mosca sarebbe spettato il ruolo di padrone di casa. Epperò il Santo Sinodo ebbe il sospetto (più o meno fondato), nonché il vivo terrore, che Gorbaciov tra gli ospiti internazionali da invitare ai festeggiamenti del 1988 includesse anche il Papa polacco. Il Patriarca Pimen dichiarò preventivamente che il Papa di Roma era assolutamente ospite non gradito poiché non si voleva in alcun modo consentire che si sollevasse nuovamente e pubblicamente la questione degli “uniati” ucraini che per il Patriarcato di Mosca dopo il 1946 esistevano soltanto nei libri di storia.

Se la caduta del muro di Berlino, e l’accelerazione della svolta democratica della poltica di Gorbaciov diede ai russi anche una autentica libertà di culto di cui il Patriarcato sul momento non seppe che farsene -e che prima ancora di consentire agli occidentali sia cattolici sia protestanti di esercitare sgradito “proselitismo”- che diede, invece, la libertà a milioni di ucraini di professarsi cattolici e a migliaia di preti e monaci di uscire in massa dall’obbedienza al Patriarca di Mosca per tornare all’obbedienza al Papa di Roma (mentre l’altra mezza ucraina ortodossa chiedeva anch’essa l’indipendenza ecclesiastica da Mosca).

Nell’anno 1990, mentre stava per crollare l’Unione sovietica ed al contempo minacciava di sgretolarsi l’unità del Patriarcato a causa delle rivendicazioni separatiste dei vari popoli ed etnie presenti nell’impero sovietico quasi a significare la fine di un'era moriva il Patriarca Pimen cui succedeva, quale quindicesimo Patriarca “di tutte le Russie” il giovane metropolita di Leningrado Alexij Ridiger.
A questo punto comincia un’altra storia: comincia la dolorosa e gloriosa storia dei diciotto anni di pontificato di Sua Santità Alessio II. Una nuova storia che è fatalmente la continuazione di una vecchia storia.
Per valutare il raggio d’azione in cui si è mosso Alessio II bisogna pertanto superare a ritroso non solo il muro di Berlino ma altri muri di separazione assai più duraturi che si sono sedimentati tra le pieghe della cultura russa, almeno negli ultimi cinquecento anni:
1) il presupposto implicito del carattere imperiale della Chiesa russa fatalmente ereditato dall’Impero romano d’Oriente;
2) la gelosa rivendicazione dell’eredità religiosa, culturale e civile del principato di Kiev;
3)l’invincibile diffidenza per l’atavico avversario polacco (nonché cattolico).

Sarebbe davvero opera di sciocchi e di sprovveduti –come del resto si è fatto ampliamente!- voler tracciare un seppur abbozzato profilo del “governo” di Alessio II limitandosi a contare gli abbracci che ha dato o che si è rifiutato di dare, o che non ha fatto in tempo a dare.

lunedì, dicembre 08, 2008

LA DIVINA PASTORA [10]


Ovvero: "HA GUARDATO ALL'UMILTA' DELLA SUA SERVA"

Nel suo secondo concistoro per la creazione di ventitrè nuovi cardinali, Benedetto XVI cooptò tra i membri del Sacro Collegio anche l’arcivescovo di Parigi, monsignor Andrè Armand Vingt-Trois. E poiché il cognome del suddetto prelato suona come il numero ventitrè in lingua francese ciò diede adito negli ambienti ecclesiastici ad allusioni umoristiche e divertiti calambour.

La creazione del cardinal Vingt-Trois in un concistoro in cui i cardinali erano esattamente “ vingt-trois” è stata davvero l’unica nota di vivacità nella biografia di un’Eminenza per molti versi assai grigia: parigino, ha frequentato il Seminario di San Sulpicio, laureatosi in teologia morale all'Institut Catholique per poi tornare a San Sulpicio quale professore di Morale e particolarmente edotto nelle problematiche della morale sessuale e della bioetica (quasi un Tettamanzi alla francese).

La sua fortuna fu di essere mandato a fare il viceparroco di monsignor Jean-Marie Lustiger e quando nel 1981, contro ogni previsione, Lustiger fu prescelto da Giovanni Paolo II quale nuovo arcivescovo della capitale francese lo volle suo "Vicario Generale" e poi Vescovo ausiliare.
Per i buoni uffici del suo patrono divenne membro di un dicastero della Curia Romana (il Pontificio Consiglio della famiglia) e nel 1999 fu elevato ad arcivescovo nella piccola ma prestigiosa cittadina di Tours; l’11 di febbraio del 2005, festa di Notre Dame de Lourdes, la Santa Sede annunciava che il vescovo Vingt-Trois da successore di San Martino diventava successore di Jean-Marie Loustiger del quale, dopo avergli dato personalmente l’estrema unzione, con il concistoro del 24 novembre 2007 ne ereditava anche il Titolo cardinalizio di San Luigi dei Francesi.
Presidente della Conferenza Episcopale francese, nonchè Ordinario militare di Francia, ha cercato di declinare al meglio la nuova dottrina Sarkozy sulla laicità “positiva”, ovvero sul benemerito contributo delle religioni alla costruzione dell’etica pubblica.


Il 6 novembre 2008 durante i lavori dell’Assemblea plenaria dei vescovi francesi, riunita a Lourdes in occasione del giubileo delle apparizioni, il ventitrè volte Presidente dei vescovi gallici è stato la causa di una polemica intra ecclesiale:“cherchè la fame”.
Se, infatti, il presidente Sarkozy ha rischiato di perdere il favore dei cittadini francesi a causa della passione per la bella “Carlà”, il presedente dei vescovi francesi è stato oggetto del giusto sdegno dei cattolici francesi a causa della propria misogenia; ai microfoni di una radio cattolica ha risposto negativamente intorno all’ipotesi del conferimento del sacerdozio alle donne con frasi del tipo: “non basta portare la gonna, bisogna avere qualcosa nella testa” ed “è difficile avere delle donne ben preparate”.

Probabilmente, primi e principali vittime di una cultura “presidenzialista” sono stati i corrispondenti dell’emittente cattolica i quali avranno ritenuto loro dovere -e fonte di salvezza- rendere edotti i fedeli ascoltatori sul “programma di governo” del "presidente dei cattolici francesi". Quasi che, intorno a decisioni su cui si è già, -più volte e diffusamente- solennemente espresso il magistero pontificio, il vescovo della ville lumiere abbia il potere di prendere decisioni più “illuminate”!
Il test sul tasso di progressismo o di integralismo presente nel sangue dei porporati è giochino idiota (e quanto mai inutile) che i giornalisti cattolici dovrebbero lasciar fare a quei commentatori cui l’orgoglio del proprio laicismo è pari solo alla propria ignoranza religiosa. Inoltre non si capisce che bisogno ci fosse nel tirare in ballo il sacerdozio femminile dato che l'argomento dibattuto in quei giorni dall'episcopato francese era la bioetica, o per meglio dire una maggior e migliore preparazione del clero e degli operatori pastorali in genere, nel pernicioso dibattito tra etica e progresso della tecnologia medica! A meno che l'intervistatore non partisse dal presupposto che una donna sia a priori più preparata su argomenti medici e ginecologici in paricolare, e di conseguenza, che per una donna avere un "padre spirituale" femmina sarebbe un gran vantaggio.

La risposta del porporato, per cui il diniego al sacerdozio femminile veniva giustificato da presunta congenita deficienza intellettiva muliebre (oltre che dar prova del pessimo senso dell’umorismo dell’eminentissimo Vingt-Trois), più che sintomo di misogenia è sintomatica dell’autocomprenzione e dell’autorappresentazione del clero francese: il clero gallico non si considera tanto una casta sacerdotale quanto piuttosto un club intellettuale (proprio questo ha impedito al cattolicesimo francese di essere una Chiesa di popolo).

Lo sdegno, lo scandalo ed il raccapriccio per le misogine dichiarazioni del cardinal Andrè Vingt-Trois si sono eloquentemente manifestati nelle migliaia di e-mail e telefonate di protesta che hanno subissato la redazione della radio così come l’arcivescovado parigino, costringendo a pubbliche prese di posizione di esponenti del mondo ecclesiale transalpino.
L’associazione cattolica "Le Reseaux des parvis" ha indirizzato all’Eminentissimo una lettera aperta per esecrare «il disprezzo nei confronti delle donne [che] mette in pericolo l’equilibrio di tutta la società, anche dietro la copertura dell’umorismo». Lo stesso portavoce dell’arcidiocesi di Parigi ha dovuto riconoscere che: «si tratta di una frase maldestra, è vero, ma non si può per questo accusarlo di misoginia». Al colmo dell'ignominia, mercè comunicato stampa, il medesimo Vingt-Trois pubblicamente si batteva il petto invocando il perdono per aver peccato contro l’altra metà del cielo.

La mite sottomissione del porporato alla gogna mediatica non è bastato ad estinguere il fuoco dello zelo per la casa di Dio di un gruppo di devote intellettuali cattoliche che unitesi in un comitato battezzato acconciamente "Comitato in gonnella" ha chiesto che sia un tribunale a condannare il cardinale alle pubbliche scuse.
Ma poichè come ci ammonisce la Sacra Scrittura, la donna sà essere "Terribile come un esercito schierato per la battaglia", il tribunale a cui il "Comitato in gonnella" ha sporto denuncia non è un tribunale dello Stato francese ma il tribunale ecclesiastico dell'Arcidiocesi di Parigi! Il comitato delle pie filosofe e teologhe attende con fiducia che il tribunale ecclesiastico condanni il cardinal Vingt-Trois per aver esposto una dottrina contraria a quello che invece viene solennemente proclamato nei sacri canoni del Codice di Diritto Canonico, ovvero l'uguale dignità di tutti i fedeli cattolici:"che, essendo stati incorporati a Cristo mediante il battesimo, sono costituiti popolo di Dio e perciò, resi partecipi nel modo loro proprio dell'ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, sono chiamati ad attuare, secondo la condizione propria di ciascuno, la missione che Dio ha affidato alla Chiesa da compiere nel mondo" (canone 204).

Ed in effetti, fossimo Noi i giudici del ventitrè volte grigio arcivescovo parigino, non potremmo far altro che condannare le sue dichiarazioni radiofoniche poichè la teologia cattolica ha sempre insegnato che: alle donne il sacerdozio è negato in quanto donne e non in quanto le donne siano meno intelligenti dei maschi o meno capaci di cogliere, assimilare e trasmettere le verità dogmatiche della fede cattolica. Anzi da un punto di vista che potremmo definire della "intelligenza della fede" lo stesso vertice del Magistero ecclesiastico ha definito solennemente che la dottina secondo cui l'autorità di pascere i fedeli è riservato per diritto divino agli Apostoli ed ai loro successori "non significa in nessun modo una minore stima della sublime missione che la donna ha in mezzo al Popolo di Dio.
Al contrario, la donna, entrando a far parte della Chiesa con il Battesimo, partecipa del sacerdozio comune dei fedeli, che la abilita e le fa obbligo di professare dinanzi agli uomini la fede ricevuta da Dio per mezzo della Chiesa. E in tale professione di fede tante donne sono arrivate alle cime più elevate, fino al punto che la loro parola e i loro scritti sono stati luce e guida dei loro fratelli. Luce alimentata ogni giorno nel contatto intimo con Dio, anche nelle forme più nobili dell’orazione mistica, per la quale San Francesco di Sales non esita a dire che posseggono una speciale capacità": così dichiarava solennemente il Papa Paolo VI nel 1970 proclamando Santa Teresa d'Avila, prima fra tutte le donne, Dottore della Chiesa Universale.

giovedì, ottobre 30, 2008

CASTRUM DOLORIS, XVII


"La cripta dei Cappuccini, via Veneto

Agli spagnoli, i siciliani, i leccesi, i messicani, gli a manti di Halloween di Dario Argento che magnificano le meraviglie del proprio barocco raccapricciante, i romani sono autorizzati a controbattere con lo spettacolo della cripta dei Cappuccini in via Veneto, compreso il sacello dove riposa Padre Mariano (1906-1972), il frate che parlava in televisione al tempo monocolore e monocanale, chiudendo i propri discorsi con l’inamovibile: “Pace e bene a tutti”. *
La cripta è infatti cosa davvero unica, forse nascosta rispetto all’occhio del visitatore ignaro o accecato soltanto dal binomio via Veneto-Dolce Vita, e dunque mignotte, cocaina e attori famosi, ma comunque degna di ogni possibile attenzione.

Se le catacombe palermitane, dove i morti sono attaccati alle nicchie con gli abiti del proprio mestiere, già viste nel film di Francesco Rosi Cadaveri eccellenti, vanno associati alla teatralità espressionistica per la loro ridondanza scenografica, nel caso della sede romana bisogna pensare piuttosto all’astrazione pura, Mondrian piuttosto che Munch, lì infatti le ossa umane sono utilizzate come nel lego, per realizzare una decorazione perietale. Ai cappuccini di via Veneto le vertebre, le costole , i bacini, i femori e quant’altro, cartilagini comprese, servono a comporre l’ornato delle cripte. Qualcuno infatti a suo tempo pensò a incollare, uno dopo l’altro, tanti pezzetti d’ossa alle pareti. Il discorso profondo che se ne deduce riguarda il libro dell’Eccesiaste, serve anzi a smentire i capisaldi di quel testo: non è vero che tu, da morto, non servi più a nulla, guarda bene qui e scoprirai che non si butta niente nella versione più gagliarda del barocco.

Nell’ordine troviamo la cripta della risurrezione, la cripta dei teschi, la cripta dei bacini con un grande baldacchino (di bacini, ovviamente) dal quale pende un fregio di vertebre più il rosone centrale della volta formato da sette scapole con pendagli di altrettante vertebre. La cripta delle tibie e dei femori con un tondo di mandibole ornato di nuovo di vertebre e due grandi fiori laterali formati da scapole con pendagli dempre di vertebre. La cripta dei tre scheletri, dove alcuni piccoli scheletri (amati defunti di casa Barberini) sorreggono con una mano un cranio alato.
Nel sito ufficiale www.cappucciniviaveneto.it, è possibile leggere: “Verso la metà del 1700, con interventi successivi fino al 1870, questo luogo di sepoltura, di preghiera e di riflessione per cappuccini –che vi scendevano ogni sera prima di andare a riposare- è stato trasformato in un’opera d’arte, per trasmettere il messaggio che la morte ferma ferma le porte del tempo e apre quelle dell’eternità”. Giovedì chiuso."

(FULVIO ABBATE; ROMA, guida non conformista alla città; Cooper 2007)



* [Il sarcastico Abbate, che a stento riesce a trattenere il raccapriccio per le manifestazioni del sacro di quella Roma pontificia assoggettata alla da lui definita "vermiglia pantofola chiodata", pone erroneamente il sacello del padre cappuccino Mariano da Torino nella cripta mentre quel gran Servo di Dio è sepolto nella Chiesa della Concezione, sotto lo sguardo del celeberrimo San Michele Arcangelo di Guido Reni, entrando, la prima cappella a destra.]

mercoledì, ottobre 29, 2008

CASTRUM DOLORIS, XVI


Ovvero: Lo spirituale ed il temporale

Vaticanista del Corriere della Sera, Luigi Accattoli la sera di martedì 28 Ottobre 2008, nonchè cinquantesimo anniversario della elezione di Papa Giovanni, si trovava presso la tomba di quel Papa-Re Giovanni Maria compagno di beatificazione del Papa Buono, nella Basilica paleocristiana di San Lorenzo Fuori le Mura. Basilica presso la quale accorse Pio XII dopo essere stata colpita del bombardamento degli alleati anglo-americani che ridusse in cenere la sontuosa decorazione voluta da Pio IX. Papa Mastai Ferretti amava particolarmente la basilica patriarcale del Verano, dove decretò la propria sepoltura, e la volle affidare alle cure spirituali dei frati francescani cappuccini poichè i francescani minori e i francescani conventuali officiavano già rispettivamente le altre basiliche patriarcali del Laterano e del Vaticano.

Nella sobria navata dove le antiche colonne portano evidenti i segni delle bombe, Luigi Accattoli era giunto quale moderatore della tavola rotonda sui “Contenuti elementari del vivere umano”, con padre Giacobbe Elia, Flavio Keller, Tonino Cantelmi, Alessandro Meluzzi, Roberto Fornara, nell’ambito del convegno intitolato “La vita: fragilità e pienezza”, promossa dai padri Cappuccini e dall’Associazione "Identità e Confronti".

Scrive sul proprio blog il "giovanneo" Accattoli:
Prima è andata via la luce e la Basilica di San Lorenzo fuori le Mura era ancora più bella, perchè finalmente la vedevi, senza più quei fari abbaglianti. Ma subito dopo è arrivata l’acqua: un fiume d’acqua che scorreva tra le navate, coprendo con le foglie dei platani e i foglietti della messa i mosaici del pavimento e salendo veloce al livello del primo gradino del presbiterio.
Era appena entrato in Basilica il sindaco Giovanni Alemanno e io l’avevo salutato a nome di tutti, essendo il coordinatore della tavola rotonda sulle “ragioni della vita”. Ed ecco Giancarlo Elena, uno degli organizzatori, che dice al microfono: “C’è un fatto nuovo, l’acqua entra nella Basilica, dobbiamo trasferirci nella sala superiore”.
Alla rinfusa transumiamo a centinaia verso quella sala, ma anche per raggiungere l’uscita che passa per la sacrestia dobbiamo camminare nell’acqua, che subito sulla nostra sinistra precipita a cascata nella cripta, scorrendo sotto la cancellata e scendendo a balzelloni per i gradini verso la tomba di Pio IX. Passando per un corridoio vediamo il chiostro allagato ancor più della Basilica.
Continuano i tuoni e lo scrosio dell’acqua.
Nella sala superiore, il padre Carmine De Filippis, ministro provinciale dei Cappuccini del Lazio, esclama: “Signor Sindaco, forse è un segno che tutto questo sia capitato mentre lei era qui: ci aiuti a salvare la Basilica! Sono 12 anni che frequento questo luogo e sarà già successo quattro o cinque volte un tale allagamento: noi viviamo nel terrore dell’acqua alta, come nella Roma dei secoli passati, dove la memoria delle generazioni era scandita dalle inondazioni del Tevere”.


E mentre il pensiero nostro segue, sgomento, lo scorrere dell'acqua piovana che dal cosmatesco pavimento della basilica medievale precipita giù per le scale che scendono alla cripta dove il beato corpo di Pio IX, dal giorno della Beatificazione del 3 settembre 2000 è felicemente esposto sotto il nuovo altare della sua interrata cappella funeraria che la devozione dei cattolici di tutto il mondo volle completamente e splendidamente decorata a mosaico, pare di sentire nuovamente attorno a Papa Mastai la eco della "pasquinata" trovata nella Basilica Vaticana il 17 settembre 1870, tre giorni prima della Breccia di Porta Pia: "Santo Padre benedetto, ci sarebbe un poveretto/ che vorrebbe darvi in dono/ questo ombrello. E' poco buono,/ ma non ho nulla di meglio./ Mi direte: "A che mi vale?"./ Tuona il nembo, Santo Veglio;/ e se cade il temporale?

martedì, ottobre 28, 2008

Vite Parallele /15

Sive: SUMMORUM PONTIFICUM CURA


“Ammiratori e avversari hanno esaurito tutte le loro risorse per rilevare l’antitesi totale che Giovanni XXIII avrebbe costituito col suo predecessore tanto nelle caratteristiche personali, fisiche e psicologiche, quanto nello stile e nei metodi di governo.
Un gioco anche troppo facile, se non altro per l’imporsi addirittura quasi violenta di certi contrasti, a partire da quello delle relative figure. Ma il cui torto peggiore è quello di voler dimostrare una tesi data per scontata, come se la sua contraria non avesse le minime chanches di farsi valere.

Gioco per gioco, ma con la speranza che non sia altrettanto futile, vorrei individuare se, nonostante le opposte e così vistose apparenze, essi avevano invece qualche elemento in comune o addirittura, nonostante tutto, una certa affinità. […] ho preso come punti di riferimento quattro caratteristiche fondamentali del modo di essere di papa Pacelli: l’impassibilità, la chiarezza delle idee e delle scelte, il senso di autorità e la ieraticità. Esse possono benissimo essere valide nel confronto essenziale che mi limiterò ad abbozzare.

Quanto all’impassibilità, trovo che il termine lascia molto a desiderare e che potrebbe meglio essere sostituito da quello di imperturbabilità. La impassibilità è più una dote fisica che morale, al contario dell’imperturbabilità. Ora ammetto che non sarebbe facile un discorso sull’impassibilità di Giovanni XXIII, mentre non è affatto arduo quello sulla sua imperturbabilità; ma anche il discorso su Pio XII riesce non solo più agevole ma anche più adeguato e preciso nel secondo caso. […]
Parlando del Pacelli infatti, veniva più spontaneo porre l’accento su quella caratteristica traduzione esterna, fisica, della sua interiore imperturbabilità che definivo la statuarietà o la marmorizzazione della sua figura. Lo stesso stato interiore, invece in papa Roncalli si traduceva non già in un’impassibilità immobilistica, ma, al contrario, in una mobilità contenuta ma significativa e a volte persino in vivacità.
Quello che conta è che ambedue i pontefici vivessero il loro ruolo di papi con una profonda tranquillità di spirito, senza turbamenti e senza ansie interiori, o con turbamenti e ansie subito fugati, senza agitazioni o oscillazioni d’animo. Ciò che in un’indole più fredda e dominata da una prevalente determinazione della volontà come quella di Pacelli, si traduceva in un self-control naturale il cui risultato era appunto l’imperturbabilità esteriore, e cioè l’impassibilità; in un’indole invece più sentimentale ed effusiva, come quella di Roncalli, si traduceva in una serenità rivelatrice di quiete e persino di gioia interiore, donde addirittura gli sfoghi di buonumore di letizia, ecc.

E perché la chiaroveggenza e la sicurezza delle scelte, sia teoriche che pratiche, tipica di Pio XII, non si accorderebbe idealmente, fino ad identificarsi nel suo nucleo primordiale, con la sicurezza intuitiva di Giovanni XXIII?
Quello che per l’uno era deduzione irresistibile e cristallina per via di ragione, per l’altro era percezione per così dire intuitiva; comunque sia nell’uno che nell’altro caso ne derivava per i due pontefici un senso intimo di sicurezza, di solidità, di saper appoggiare le proprie vedute e le proprie decisioni sulla roccia e non sulla sabbia. Senso si sicurezza fondamentale, per capi come essi erano, che li assisteva nell’assunzione delle responsabilità di governo e che si trasmetteva anche nei loro sudditi i quali si aspettavano da loro una guida sicura, senza tentennamenti e senza pentimenti.

Anche il senso di autorità emanante da Pio XII non può essere messo in sostanziale contrasto con quello di Giovanni XXIII, al contrario. Se il primo naturalmente lo rivestiva delle note caratteristiche del proprio temperamento autocratico e assolutista, e il secondo invece di quelle proprie del suo temperamento democratico ed egualitario, esso era però sostanzialmente identico nella sua convinzione interiore, nella sua efficacia, nella sua influenza. Solo aveva un fascino e un’attrazione diversa, l’autorità del Pacelli essendo qualcosa che fondeva, per così dire, le qualifiche del suo altissimo ruolo con le doti della sua eccezionale personalità e quella del Roncalli presentandosi con l’incontro tra la virtù evocatrice del profeta e l’ansia scrutatrice delle moltitudini, il cui istinto vitale non fallisce se toccato da autentiche virtù taumaturgiche.

Infine la ieraticità di Pio XII non contraddiceva in nulla la semplicità del suo successore. Pacelli, infatti, al sentirsi papa univa uno sforzo di concentrazione e un’acquisizione di consapevolezza interiore che si traducevano in un’assunzione di atteggiamenti esteri conformi alle funzioni eccezionali del suo ruolo; il Roncalli, a sua volta, viveva il proprio ufficio per se stesso e non in funzione della propria persona, ciò che mentre eliminava le complicazioni di intrusioni personali, faceva emergere in tutta la sua purezza il significato e l’essenza della sua funzione di sommo pontefice…”

[CARLO FALCONI, Ritrattazioni, 1972]

venerdì, ottobre 24, 2008

Non è bene che un profeta muoia fuori da Gerusalemme /3

Isaac Herzog Ministro per gli Affari Sociali del Governo israeliano, che ha anche l’incarico dei rapporti con le comunità cristiane, in un'intervista rilasciata al quotidiano Haaretz ha bollato come «inaccettabile» l’intenzione della Santa Sede di procedere alla ratifica del decreto sulle virtù eroiche esercitate dal Servo di Dio Eugenio Pacelli: «Durante il periodo dell’Olocausto – ha detto Herzog – il Vaticano sapeva molto bene quello che stava accadendo in Europa». E «Non c’è ancora nessuna prova di alcun provvedimento preso dal Papa, come avrebbe dovuto suggerire la statura della Santa Sede. Il tentativo di canonizzarlo è uno sfruttamento dell’oblio e una mancanza di consapevolezza. Invece di agire in base al versetto biblico “Non coopererai alla morte del tuo prossimo”, il Papa è rimasto silenzioso e forse ha fatto anche di peggio».

Isaac Herzog è il figlio di Chaim Herzog che fu Presidente della Repubblica di Israele dal 1983 al 1993, nonchè omonimo nipote di Isaac HaLevi Herzog che fu Gran rabbino ashkenazita di Gerusalemme il quale, omonimo nonno, il 9 ottobre 1958, in morte di Papa Pacelli, ebbe a dichiarare:
«La morte di Pio XII è una grave perdita per tutto il mondo libero.
I cattolici non sono i soli a deplorarne il decesso».

DEVOTIO MODERNA [12]

Ovvero: Come avvenne che un bambino genovese battezzato nella confessione della Fede Cattolica, per inappellabile decreto della Suprema Corte di Cassazione della Repubblica Italiana, debba assumere il gloriosissimo nome di un Santo Pontefice Romano.


Quando il 3 settebre dell'anno di Nostra Salvezza bismillesimo sesto, nella "superba" Genova i neo genitori Roberto e Mara -gestori di un bar nella centralissima Piazza Caricamento- si recarono all'Anagrafe per registrare la nascita della propria creatura si sentirono opporre dell'addetto preposto il metto rifiuto di obbedire alla genitoriale volontà di imporre all'ignaro infante il nome "Venerdì".
E spiegando agli increduli genitori che "Venerdì" era nome improprio per un bambino, l'impiegato dell'Ufficio Anagrafe ha, quindi, seduta stante registrando il neonato con il nome del santo menzionato sul calendario in data 3 settembre, ovvero: del Santo pontefice Gregorio Magno.

Il Tribunale di Genova ha ratificato l'operato del Comune e motivato il diniego del nome "Venerdì" ai sensi dell’art. 34 del Dpr 396 del 2002 in base al quale «è vietato imporre al bambino nomi ridicoli e vergognosi». Il nome di Venerdì, diceva la motivazione della sentenza, «evocava il personaggio romanzesco creato dallo scrittore Daniel Defoe nell’opera "Robinson Crusoe", una figura umana caratterizzata dalla sudditanza e dall’inferiorità che non raggiungerebbe mai lo stato dell’uomo civilizzato». Di qui il diniego in previsione di un futuro «disagio per il bambino e il futuro adulto, facilmente esposto al senso del ridicolo, in ragione di quel richiamo al personaggio letterario».

Roberto e Mara non si sono dati per vinti appellandosi alla Cassazione, portando ad esempio dell'infondatezza della sentenza del Tribunale di Genova il caso concreto di nomi altrettanto "inappropriati" come "Chanel" (la figlia di Francesco Totti e Ilary Blasi) o Oceano (rampolla di Lavinia Borromeo e Jaki Elkann). Ma per la inappellabile sentenza 25452 del 23 ottobre 2008 la Suprema Corte di Cassazione ha decretato che «il ricorso non ha precisato quale sia stato il fatto controverso in relazione al quale assumono rilievo le censure relative alla motivazione della decisione impugnata». Cioè: la Cassazione ha praticamente confermato e ratificato la decisione del Tribunale di Genova per cui il primogenito dei signori Roberto e Mara, nato a Genova il 3 settembre 2006, in nome della democratica Repubblica Italiana dovrà essere chiamato "inappellabilmente" Gregorio.

Immaginabile la costernazione dei genitori che, ancora inceduli e trasecolati, hanno dichiarato ai giornalisti: «il bimbo a gennaio è stato battezzato in chiesa e nemmeno il sacerdote ha avuto nulla da ridire».