venerdì, dicembre 19, 2008

Rintrono Papale /2

Ovvero: IL TRONETTO DOVE LO METTO?


Scorrendo la colorita storia della nobiltà papalina un particolare che rimane solitamente impresso è il curioso appellativo di “Marchesi del baldacchino” con cui vengono designate alcune famiglie marchionali romane per il fatto che, gli eredi di tali blasonate prosapie al pari delle famiglie ducali e principesche, avevano il privilegio di poter ricevere le visite di cortesia del Papa. A tal fine quei marchesi (e duchi, e principi) in una acconcia sala dell’appartamento nobile del loro palazzo gentilizio mantenevano perennemente allestito un tronetto, nel caso che la sacra persona del Pontefice si degnasse di far visita ai propri nobili sudditi. L’espressione “Marchesi del baldacchino” dipendeva quindi dal fatto che il trono papale fosse coronato da un baldacchino.

In araldica il baldacchino non è come erroneamente si potrebbe credere un simbolo di regalità quanto piuttosto il simbolo della “sovranità” e della “autorità di giurisdizione”. Nell’Ancien Regime la sovranità –e di conseguenza i simboli della sovranità- non erano appannaggio solo dei re (e quindi del Romano Pontefice in quanto Papa-Re) ma anche di coloro cui era tributata un’autorità di giurisdizione (seppur fittizia) sui principati e sui ducati, sui marchesati, sulle contee e sulle baronìe. Pertanto, quegli stessi principi, duchi e marchesi che nel loro palazzo romano avevano eretto un trono per il loro sovrano pontefice, nei propri rispettivi turriti manieri di campagna -dai quali traevano il titolo di principi, duchi e marchesi- avevano anch’essi allestito un proprio trono (e l’imprescindibile baldacchino) per concedere udienza ai propri sudditi burini.

Ma poiché oltre alla giurisdizione civile vige anche una giurisdizione ecclesiastica evidentemente anche i vescovi, quali detentori dell’autorità spirituale sulle diocesi, era d’uopo che si ammantassero dei medesimi simboli esterni di sovranità, soprattutto dopo che le vicissitudini storiche aveano spesso tributato alla persona del vescovo anche un’autorità politica.
Al pari dei nobili, e ad imitazione delle residenze gentilizie, ogni singolo vescovo nel proprio episcopio aveva il suo “piano nobile” in cui non mancava la “Sala del trono” col suo acconcio baldacchino sotto al quale sedersi -come un papa- per attendere paternamente l’omaggio dei “sudditi”.
Un Papa “aristocratico” come Pio XII abolì definitivamente i ridondanti appellativi di “vescovo principe”, “vescovo conte”, etc, con cui i titolari di molte antiche sedi episcopali erano coronati. Eppure la mentalità feudale che per secoli ha contraddistinto l’esercizio dell’autorità episcopale non si è arrestata nemmeno di fronte al “Decreto sull’ufficio pastorale dei vescovi” del Concilio Vaticano II in cui, dopo pagine dove si traccia un ideale ritratto del vescovo quale maestro comprensivo delle difficoltà dei fedeli e di padre indulgente dei cristiani affidati alle sue cure, ecco che quando si tratta di delinearne i rapporti con l’autorità civile si protesta il diritto del vescovo di liberamente comunicare con la Santa Sede e con le altre autorità ecclesiastiche, e ovviamente anche “coi propri sudditi”.

Poiché il potere di giurisdizione del vescovo è un potere “sacro” che per diritto “divino” abilita il vescovo ad insegnare, santificare e governare i fedeli di quella particolare porzione territoriale detta diocesi, ecco che -ancor più che nella abitazione del vescovo- la simbologia dell’autorità episcopale apparirà con maggior forza proprio nel luogo in cui più eloquentemente si manifesta la sua potestà ierocratica, ovvero all’interno della chiesa Cattedrale dove troneggia l’oggetto simbolo della sovranità spirituale del vescovo: la cattedra episcopale immancabilmente coronata dal baldacchino, come obbligatoriamente prescriveva la secolare legislazione canonica.
Alcune volte di solido marmo, o di bronzo, o in legno scolpito, come a formare un tutt’uno col sottostante trono vescovili, altrove la cattedra episcopale poteva trovarsi addirittura sotto un vero e proprio tempietto, circondato da colonne che sorreggevano una copertura architrettonica, ma nella stragrande maggioranza dei casi il baldacchino era di stoffa: obbligatoriamente verde per i vescovi, così come verde doveva essere il dossale alle spalle del seggio episcopale; purpureo il baldacchino per i cardinali e rosso anche per il Papa.
Erano quindi le norme liturgiche ad obbligare, dal Papa fino all’ultimo abate mitrato, a predisporre un baldacchino sopra il seggio sul quale pontificavano. E non solamente nella cattedrale, dove si trova la sede fissa del vescovo ma anche quando l’alto prelato pontificava in altra chiesa diversa dalla chiesa cattedrale e persino nelle celebrazioni all’aperto, sopra il trono episcopale doveva essere obbligatoriamente eretto un baldacchino.


Non essendo la Basilica Vaticana la cattedrale di Roma al suo interno non vi è una cattedra stabile per il Pontefice, perciò in quelle rare e solenni occasioni in cui la Sua Santità presiedeva un rito nel Tempio Petriano veniva allestito l’alto suo trono munito di debito baldacchino; sia che il trono papale fosse posto al centro dell’abside o a lato dell’abside o in uno dei due transetti si destra o si sinistra, o nella navata centrale o nel portico della basilica, o sul sagrato esterno, mai esso era privo di baldacchino. E questo avveniva –lo ripetiamo con forza- non in omaggio alla “maestà” regale del pontefice -in ossequio alla sentenza dei canonisti medievali secondo i quali “Papa vere imperator est”- ma in ossequio all’autorità spirituale del Vescovo di Roma come altresì prescritto dal Cerimoniale Episcoporum per qualsivoglia altro prelato.
Ecco perché in ossequio alla loro autorità di giurisdizione sulla Sancta Romana Eclesia durante la Sede Vacante (e non per puro vezzo baroccheggiante) i cardinali in conclave sedevano su tronetti adorni di baldacchino; al momento dell’accettazione del neo eletto papa, i cardinali, tirando una cordicella chiudevano e facevano scomparire il proprio baldacchino in modo che rimanesse aperto solo il baldacchino pendente sulla testa del papa nuovo: a significare che a lui solo era riconosciuta la piena diretta e immediata giurisdizione sulla Chiesa Cattolica Romana.

Per questo, quando si dovette allestire la basilica di san Pietro per la celebrazione del Concilio Vaticano II si decise di porre una pedana davanti all’altare papale in modo da occludere parte dell’emiciclo della Confessione per porvici sopra il trono papale. Anche una volta conclusosi il Concilio ogni volta che c’è una messa papale si è continuato ad allestire la pedana posticcia per porvi la bianca poltrona su cui siede il papa perché ci si è accorti che da quel punto esatto la persona fisica del Pontefice gode della massima visibilità. Ma i cerimonieri di Giovanni XXIII che vollero quella pedana davanti all’altare papale lo fecero unicamente per fare in modo che il trono su cui, in faccia ai vescovi di tutto il mondo, doveva sedere l’Episcopus episcoporum si trovasse all’ombra del baldacchino berniniano evitando, così, l’erezione di un ulteriore baldacchino posticcio.


Seguendo le raccomandazioni dei padri conciliari che auspicavano un’aggiornamento dei sacri riti al fine di far splendere in faccia a i fedeli la nobile semplicità di una liturgia trasparente per brevità e senza inutili ripetizioni, il 21 giugno 1968 (eloquentemente nell'anniversario dell'elezione del pontefice allora regnante!) sulla scia della generale opera post-conciliare di revisione dei libri liturgici, l’allora Sacra Congregazione dei Riti promulgava l'Istruzione "Pontificales ritus" che -a soli cento ottant’anni dalla rivoluzione francese- metteva fine all’Ancien Regime liturgico abolendo tutta una minuziosa sequenza di vere e proprie corvé presenti nel Cerimoniale Episcoporum con cui il clero doveva umiliarsi davanti al proprio vescovo pontificante.
Al punto 11 l'Istruzione "Pontificale ritus" aboliva il baldacchino dal numero delle insegne vescovili: "Cathedrae posthac baldachinum non superponatur" (a meno che fosse impossibile smantellare il balacchino senza causare un danno artistico).

Una Curia Romana "sessantottina", con la benedizione di Paolo VI, dava ordine di far sparire il baldacchino dalle celebrazioni episcopali ma innazitutto spariva definitivamente dalle scenografiche liturgie vaticane (così come con la contemporanea riforma della corte pontificia venivano fatti sparire tutta una serie di arcaici personaggi che stazionavano all’ombra del baldacchino papale).
Pertanto, nemmeno il "revival" neobarocco di monsignor Guido Marini potrebbe far comparire all’ombra del cupolone michelangiolesco un rubicondo baldacchino a far da corona del “trono” di quel Benedetto Papa “ccioiosamente regnate”.

Per quanto riguarda invece l’allestimento della sede papale all’esterno della Basilica vaticana -per le celebrazioni presiedute in Piazza San Pietro- sarebbe invece assai auspicabile che venisse predisposta una qualche forma di copertura per mettere il luogo in cui è assiso il Romano Pontefice al riparo degli agenti atmosferici. Ma un simile manufatto per quanto vagamente somigliante ad un baldacchino non potrebbe mai più assumere una qualsivoglia valenza simbolica, né si potrebbe pretendere di scorgervi un dovuto omaggio né di “maestà” spirituale né tanto meno di ossequioso tributo alla “sovranità” temporale del Pontefice. Seppur adorno e baroccheggiante -quanto più aggradasse al più esteticamente controriformato dei cerimonieri pontifici- rimarrebbe semplicemente una tettoia il cui fine assai prosaico sarebbe unicamente quello di riparare il Papa dalla calura di quel sole che splende sui giusti e sugli ingiusti, e di proteggerlo da quella pioggia cade sui buoni e sui cattivi.

Quando nel 1963 papa Giovanni XXIII concesse udienza ai coniugi Agiubey nella sala del tronetto, l’attenzione del genero di Krusciov venne attratta dall’iscrizione latina ricamata sul baldacchino sovrastante la poltrona su cui sedeva Papa Giovanni. Ne chiese il significato al proprio accompagnatore e traduttore, e se la appuntò sulla propria agendina. L’iscrizione sul baldacchino papale recitava “UBI PETRUS, IBI ECCLESIA” e non certo “aut Caesar aut nihil” come auspicherebbero certi sregolati devoti d'una incompresa"tradizione".

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