mercoledì, gennaio 27, 2010

MEMORARE

Le fonti storiche concordano nell'indicare quale istigatore delle violenze antiebraiche verificatesi in territorio germanico al tempo della predicazione della Seconda Crociata un tale Raoul, monaco cistercense, cioè, appartenente al medesimo Ordine monastico di San Bernardo abate di Claveux il quale si affrettò a condannare tali atrocità a ad esortare le autorità temporali ad impedire il propagandarsi di consimili violenze.
La eco della gratitudine ebraica verso l'operato del "Dottor Mellifluo" è testimoniata, persino a quattro secoli di distanza da quei luttuosissimi eventi, da una cronaca ebraica "Emeq-ha-bakhà" -ovvero: "La valle del pianto"- composta al dotto medico e storiografo Joseph Ha-Cohen (Avignone 1496 - Genova 1575) tramandata in varie edizioni manoscritte e data alle stampe soltanto durante il XIX secolo:

«Il monaco Rodolfo era venuto in Germania per percorrerla e imporre il segno di croce a coloro che si riunivano per andare a Gerusalemme. Egli diffuse delle falsità contro gli Ebrei. Quando gli Ebrei lo seppero [...] implorarono l'Eterno dicendo: "Ah, Signore ecco che non sono passati tanti anni quanti ne passano da un giubileo all'altro da quando abbiamo sparso il nostro sangue come acqua per la santificazione del Tuo Nome, grande, potente, maestoso, nel giorno della grande carneficina! Ci rigetterai per sempre, Signore? E che cosa farai per il Tuo Nome glorioso? Ci susciterai Tu nuove afflizioni?"
Allora il Signore ascoltò i loro gemiti; si ricordò della Sua Alleanza, si volse dalla loro parte ed ebbe pietà di loro, nella immensità della Sua misericordia.
Egli inviò a questi mascalzoni
San Bernardo di Chiaravalle in Francia, che li chiamò, anch'egli, nelle forme a loro consuete e disse loro: "Andiamo e saliamo verso Sion, al sepolcro del nostro Salvatore ma guardatevi dal parlare agli Ebrei tanto in bene quanto in male, perché toccarli è toccare la pupilla dell'occhio di Gesù. Essi sono infatti sue ossa e sua carne e Rodolfo, discepolo di Gesù Cristo, non ha parlato giustamente, perché è di essi che si dice nei Salmi: Non ucciderli perché il mio popolo non li dimentichi (Sal 59,12)."
Ed essi ascoltarono la sua voce, perché godeva di considerazione tra di loro.
Si ravvidero della loro collera e smisero di fare del male agli Ebrei, come avevano avuto l'intenzione.
E quest'uomo non richiese agli Ebrei alcun riscatto, con cuore sincero egli aveva detto bene di Israele. Per questo io dico: "Ti ringrazio, oh Eterno, perché se Tu sei stato in collera contro di me, la tua collera si è allontanata e Tu mi hai consolato, lasciando di noi un resto sulla terra e conservando la vita a molti in quel giorno. Perché se la misericordia di Dio non avesse inviato questo sacerdote nemmeno uno sarebbe scampato.
Sia lodato Colui che libera e che salva! Amen, amen!".»

lunedì, gennaio 25, 2010

Historia Ecclesiastica Anglorum, XIII


Ovvero: Tratta dal (sempre clerical-chic) "Foglio" di sabato 23 gennaio 2010, di seguito, devotamente trascritta, la seconda parte dell'articolo "Il Convertito eterodosso" nel quale Luca F. Tuninetti enarra della "brillante difesa" che della propria conversione dall'anglicanesimo al cattolicesimo ideò il glorioso John Henry Newman:

«Nel 1864 si offrì a Newman un'altra occasione per dare pubblicamente ragione della sua conversione.
In una recensione, Charles Kingsley, professore di Storia a Cambridge e autore di romanzi di successo oltre che membro del clero anglicano, affermando che per il clero romano la verità non e una virtù, attribuì a Newman l'opinione che ai cattolici e lecito mentire per difendersi dai loro nemici. Quando venne a conoscenza dell'articolo Newman fu estremamente contrariato. Ne segui uno scambio epistolare che Newman, insoddisfatto della replica del suo interlocutore, pubblicò con alcune riflessioni conclusive. Kingsley rispose con un pamphlet in cui sollevava dubbi sull'onesta di Newman.
Al di la degli aspetti personali, in questo scritto emerge la grande distanza tra la mentalità vittoriana e il cattolicesimo. Newman rimase colpito dal fatto che Kingsley insinuava o tacitamente supponeva che egli fosse in realtà più o meno segretamente "romano" quando, ufficialmente, faceva ancora parte della chiesa di Inghilterra. Newman senti che Kingsley dava voce a una accusa, che lo aveva accompagnato fin dal momento della sua conversione, di non aver sempre conformato i suoi comportamenti alle sue convinzioni. Per dimostrare l'infondatezza di tale accusa egli decise di ricostruire quale era stato il suo pensiero in materia religiosa nei diversi momenti della sua vita mostrando come questo spiegasse le decisioni da lui prese di volta in volta.

Per difendere la propria onesta non poteva fare a meno di esporre al pubblico la propria storia.
Questo Newman lo fece in uno scrit¬to che prese la forma di sette fascicoli pubblicati a scadenze settimanali a partire dal 21 aprile. A distanza di due settimane segui una appendice in cui rispose dettagliatamente alle accuse di Kingsley. Nello stesso anno i fascicoli vennero raccolti in un volume con il titolo "Apologia pro Vita Sua".
Newman dovette lavorare freneticamente per dare una risposta alle accuse di Kingsley mentre era ancora vivo nel pubblico inglese l'interesse suscitato dalla controversia e per rispettare le scadenze settimanali nella pubblicazione dei singoli fascicoli. Quello che ne risulta e un libro assai particolare. Non e propriamente ne un'opera di controversia dottrinale ne una autobiografia spirituale. Può dare una immagine unilaterale del processo che ha portato 1'autore alla conversione in quanto si concentra soltanto sugli aspetti intellettuali. Ma e un libro affascinante - e non solo per lo stile o forse in quanto lo stile esprime perfettamente le caratteristiche di un'opera che e insieme serena e appassionata, molto personale ed estremamente discreta. Di fatto la fatica di Newman fu premiata da un grande successo presso il pubblico inglese, sia quello cattolico sia quello non cattolico. Ancora oggi probabilmente 1"`Apologia" e lo scritto di Newman più letto. Newman fu considerato da allora di nuovo e più di prima come una figura di importanza nazionale.
Per rispondere all'accusa di Kingsley, Newman ripercorre i passi che lo hanno portato ad allontanarsi a poco a poco dalla chiesa d'Inghilterra fino ad arrivare alla decisione di entrare nella chiesa di Roma. Al tempo stesso, egli rivendica però la continuità e la coerenza del proprio itinerario. In particolare, rievocando la sua attività nella chiesa anglicana Newman osserva con soddisfazione che il principio fondamentale che la guidava gli e al¬trettanto caro nel momento in cui scrive di quanto to fosse allora. Si tratta di quello che egli chiama "il principio del dogma", 1’idea che la religione non può esaurirsi in un sentimento ma richiede 1'adesione a verità definite. "Sono cambiato in tante cose", dice, "ma non in questo".

L’idea che la conversione non richieda l’abbandono delle convinzioni precedenti viene sviluppata da Newman in un passo della sua "Grammatica dell'assenso" (1870).
Questo libro è il punto di arrivo di riflessioni sulla ragionevolezza della fede che hanno accompagnato 1'autore lungo tutto il corso della sua vita. Newman ha ben presente 1'obiezione del razionalismo moderno secondo cui possiamo credere soltanto a ciò che e dimostrabile. Egli vede che accettare questo significherebbe ridurre la fede alla misura della ragione umana, ma ritiene che occorre allora chiederci come possiamo essere ragionevolmente certi delle verità della fede se non e possibile dimostrarle.
In una pagina della "Grammatica" Newman si sofferma sul fenomeno della conversione da una religione a un'altra. Egli osserva che una religione e un sistema complesso di riti, credenze e norme di comportamento e che un concreto individuo non aderisce a tutte le credenze della religione da lui professata con eguale convinzione. Quando consideriamo il passaggio di un individuo da una religione a un'altra dobbiamo allora chiederci se tali religioni hanno qualcosa in comune e se le credenze di cui quell'individuo era davvero certo quando abbracciava la prima religione erano quelle che essa ha in comune con 1'altra. Chi si converte abbandona talune credenze della sua precedente religione, ma bisogna vedere se tali credenze fossero effettivamente certezze di questo particolare individuo.
In effetti Newman sostiene che normalmente chi passa da una religione a un'altra tiene ferme quelle che erano le sue autentiche certezze e sono anzi proprio queste che lo spingono a superare i confini della propria religione. Per esempio tre protestanti possono diventare 1'uno cattolico, l'altro unitariano e 1'altro ancora ateo, continuando ciascuno a credere ciò che credeva quando si professava protestante: ciascuno di loro "ha fatto delle aggiunte, parecchie e significative, al principio che lo guidava all'inizio, ma non ha perso nessuna delle convinzioni che aveva originariamente" (tad. it. di B. Gallo, Jaca Book, Milano 2005, pag. 194).

Se e vero in generale che tutte le religioni hanno punti in comune, e vero più particolarmente per Newman che la Chiesa cattolica abbraccia ogni verità che gli uomini possono aver cono¬sciuto al di fuori di essa: "Questo è il segreto dell'influenza che la Chiesa esercita, del fatto che essa attiri cosi tanti convertiti dalle religioni più diverse e più conflittuali. Costoro vengono, non tanto per perdere ciò che hanno, quanto per guadagnare ciò che non possiedono; e perche, per tramite di ciò che hanno, venga dato loro di più” (ibid., pagg195-196). Chi si rivolge al cattolicesimo porta con se il suo essere certo e si converte "non per perderlo ma per tenerlo stretto con sicurezza anche maggiore" (ibid.).
Newman arriva a immaginare il caso, certamente bizzarro, di un uomo che partire dal paganesimo arriva al cattolicesimo passando per 1'islam, il giudaismo, l'unitarianesimo, il protestantesimo e l'anglicanesimo, acquisendo sempre nuove certezze senza perdere quelle già possedute.
Per capire perché Newman insista in questo modo nella "Grammatica”, sulla persistenza delle certezze occorre considerare qual è 1'intenzione fondamentale di quest'opera. Sinteticamente, si può dire che Newman vuole mostrare che la certezza non è l’esito più o meno automatico di un procedimento dimostrativo, ma una conquista personale per cui ciascuno deve e può fare affidamento sulle capacità che gli sono date dal Creatore.
La persone ha le risorse che le occorrono per arriva¬re alla certezza e le deve usare.
Se abbandonare le proprie certezze fosse facile come sembra a uno sguardo superficiale, questo, secondo Newman, potrebbe farci dubitare del fatto che sia ragionevole fare affidamento sulla nostra capacità di arrivare alla certezza. In particolare, non sarebbe ragionevole farlo nel caso che si tratti di materie religiose, nelle quali la varietà e variabilità delle opinioni sembra prevalente. Ma secondo Newman in realtà non e cosi: anche in questo ambito le vere certezze sono poche ma resistono ai facili mutamenti.
La conversione può essere ragionevole perche e possibile per l'uomo arrivare a una nuova certezza. Non vedere come attraverso la conversione si mantengano le vere certezze significherebbe pero gettare il sospetto sulla capacità che la persona ha di arrivare a una certezza ragionevole e quindi anche sulla ragionevolezza della stessa conversione.
Ma le riflessioni di Newman nella "Grammatica" gettano anche una Luce interessante sulla condizione paradossale del convertito che lui stesso aveva sperimentato. Mentre gli uni lo accusavano di non essere stato sincero continuando a professarsi anglicano senza esserlo realmente, gli altri sospettavano che la sua adesione al cattolicesimo non fosse stabile e convinta.
Gli uni e gli altri non capivano che la conversione può essere un nuovo inizio senza essere una rottura totale con il passato, che la continuità non e un segno dell'insincerità della conversione ma al contrario fa vedere come essa coinvolga le convinzioni più profonde della persona, che talvolta bisogna cambiare per restare fedeli alla verità gin riconosciuta».

domenica, gennaio 24, 2010

Gran Rabbi nato /13

Il 21 gennaio 2009 il filosofo Jean-Luc Marion prendendo posto del Seggio 4 tra gli "immortali" membri della Accademia di Francia, principava con il solenne panegirico del proprio predecessore tra "Grandi di Francia", ovvero: l'Eminentissimo Jean-Marie Lustiger deceduto il 5 Agosto 2007 ( Arcivescovo di Parigi dal 1981 al 2005).

L'Osservatore Romano nell'edizione 23 gennaio 2010 pubblica la traduzione della parte finale del lungo discorso titolando: "EBREO E CARDINALE. Jean-Marie Lustiger e il «caso serio» della Francia".
A seguire si ripropone la fine della fine, in cui il filosofo propone una autentica "fenomenologia" di quel bambino ebreo di nome Aaron che divenne il Lustiger sommo sacedote dei francesi:

«“Non sia fatta la mia, ma la tua volontà” (Luca, 22, 42).
Nella crisi della Chiesa, Jean-Marie Lustiger vedeva il centro della crisi universale della razionalità, una crisi talmente profonda che il nichilismo rendeva ineluttabile. Vi rispondeva con una sola rivendicazione, per i cristiani naturalmente, ma anche per tutti gli uomini, “il diritto di ricercare la verità e di obbedirle” (Devenez dignes de la condition humaine, p. 66).

Forse il suo destino fu di vivere e di morire come Péguy. Scoprendo un racconto del maresciallo Juin, non ho potuto evitare di associarli. Nel 1953, nel suo elogio di Jean Tharaud, l’amico e collaboratore di Péguy, ricordava la morte del poeta cristiano e socialista, avvenuta il 5 settembre 1914 fra Peuchard e Montyon, “a qualche passo da me”. E raccontava “il miracolo di un nemico, che credevamo vittorioso, che si ferma nel punto preciso in cui egli (Péguy) era caduto, per poi retrocedere nella notte”. L’avanzata tedesca si sarebbe così letteralmente bloccata sulla morte di Péguy, persino a causa di essa. E se, oserei dire, Jean-Marie Lustiger, morto e vivo, segnasse per noi il punto di avanzata ultima del nichilismo, dunque il segno della sua ritirata?
Cosa suggeriva d’altro canto nel ripetere che “siamo all’inizio dell’era cristiana” (Dieu merci, les droits de l’homme, p. 451)?
Corriamo qui nuovamente il ragionevole rischio di credergli.

Noi abbiamo seguito la storia di Jean-Marie Lustiger sulla scia della scelta, ossia della risposta alla parola, essa stessa intesa come una chiamata. Ma, nel suo caso più che in qualsiasi altro, questa parola diceva la parola per eccellenza, poiché si diceva come il Verbo – e questo “Verbo era Dio”. E dunque la scelta si deve qui intendere come la Promessa, fatta dal Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, di scegliere un popolo e, attraverso di esso, adottare l’umanità lasciata a se stessa e smarrita. Nessun caso quindi qui, in risposta al colloquio intitolato Le Choix de Dieu (1987), La Promesse designa un libro pubblicato il più tardi possibile (nel 2002), ma divenuto inevitabile dal 1982 e l’intervista concessa al quotidiano israeliano “Yedot Haharonot”, con il titolo di Puisque’il faut… (ripreso in Osez croire, 1985). Era necessario, in effetti, cardinale Lustiger! Se lei constatava che la sua “nomina era una provocazione; che metteva il dito nella piaga; che obbligava la gente a riflettere e a sapere la verità” (Le Choix de Dieu, p. 401), era perché essa mostrava pubblicamente quello che lei aveva scoperto dal 1936, quando Aron non si chiamava ancora Jean-Marie: “Divenendo cristiano, non ho voluto smettere di essere l’ebreo che ero allora. Non ho voluto sfuggire alla condizione di ebreo”, perché al contrario “l’ebraismo non aveva per me allora altro contenuto di quello che ho scoperto nel cristianesimo” (Osez croire, pp. 56 e 60). Una simile evidenza non solo di una continuità, ma persino di un’identità, anche altri, come Bergson, l’hanno vista; ma essa può, in seno a una lunga storia di conflitti fra le due religioni, sorprendere, anzi scioccare. E, da una parte e dall’altra, non è mancato lo stupore, persino l’indignazione. Testimoniano quanto meno la serietà di un dibattito essenziale fra i due interlocutori, poiché di fatto questi imparano a confrontarsi, ognuno per sé e l’uno in rapporto con l’altro, con la scelta e la promessa che li definiscono e che essi rischiano sempre, sebbene in modi diversi, di disconoscere, e dunque di alterare. Cerchiamo dunque di comprendere quello che Aron Jean-Marie Lustiger voleva far intendere.

Innanzitutto voleva dire che (cosa che non può che provocare i cristiani) per un ebreo senza un’educazione religiosa precisa, in altre parole senza una pratica talmudica né una cultura rabbinica, la lettura dell’Antico e del Nuovo Testamento in continuità fa apparire la Bibbia come un solo blocco. Chiunque conosce la Legge e i profeti, la storia della scelta di Israele e le vicissitudini dell’Alleanza, l’attesa del Messia nella figura del Servo sofferente, può ammettere che il cristianesimo “mi era come già noto. Ero persino sorpreso dal fatto che gli altri non comprendevano quello che io comprendevo” (Le Choix de Dieu, p. 71) . In altre parole, è più utile essere ebreo che non ebreo per comprendere Cristo: “Quando, per la prima volta, mi son trovato veramente dinanzi a dei cristiani, conoscevo meglio di loro quello in cui credevano” (Osez croire, p. 59). Entrare nel secondo testamento non implicava alcuna rottura con il primo né con l’identità ebraica, poiché si trattava della stessa promessa.

“Per me, non si è mai trattato di rinnegare la mia identità ebraica. Al contrario, percepivo Cristo Messia d’Israele e vedevo cristiani che non nutrivano stima per l’ebraismo” (Le Choix de Dieu, p. 51). Questa continuità si può ammettere solo se i cristiani rinunciano, anch’essi e per primi, alla rottura, in altre parole se rinunciano a una perversa teologia del verus Israël, all’eresia di Marcione, sempre viva, che mormora all’orecchio che la Chiesa sostituisce Israele e lo annulla. No! Essa vi s’innesta come l’oleastro s’innesta sull’olivo buono secondo un’orticultura ribaltata che l’Apostolo dice “contronatura” (Romani, 11, 24) intendendo per pura grazia. Un cristiano non può accedere al rango di discepolo di Cristo, ebreo, se non con l’inquieta consapevolezza che la “Chiesa non è un altro Israele, essa è il compimento stesso in Israele del disegno di Dio” (La Promesse, pp. 15, 99, 127). “Nel suo Messia, Dio ha compiuto le promesse fatte a Israele” (La Choix de Dieu, p. 76). “Il Cristo, che Dio ha fatto Signore di tutti e Primogenito dei morti, non si sostituisce a Israele; ne è la suprema figura e il frutto perfetto. Non è la negazione d’Israele, è la sua redenzione” (La Choix de Dieu, pp. 359 e 446). La redenzione d’Israele si è compiuta nella redenzione di tutti gli uomini che Cristo integra in se stesso. Poiché tutti i popoli saliranno a Gerusalemme, purché sia la Gerusalemme che discende dal cielo.

Ne consegue che la Chiesa nasce ebrea e che il primo dibattito ha luogo fra gli ebrei che riconoscevano Gesù di Nazaret come Cristo, il Messia, che ha sofferto ed è stato risuscitato da Dio, e gli ebrei che non lo riconoscevano come tale. La prima divisione, dopo la distruzione del secondo Tempio, separò quelli che riconoscevano il corpo di Cristo come l’unico sacrificio che si potesse rendere a Dio e quelli che ormai senza tempio e senza sacrificio, instauravano il culto sinagogale e la lettura talmudica. Cristo ha provocato innanzitutto l’elezione degli ebrei e la Chiesa si definisce innanzitutto fra gli ebrei, che tutti restano però legati all’unica elezione, destinati all’unica promessa. Poiché mai un ebreo può smettere di restare tale nella sua carne, e questo è uno dei suoi privilegi rispetto al cristiano. In poche parole, come si vanta Paolo di Tarso: “I doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili” (Romani, 11, 29). Se condivisione ci doveva essere, non ci fu tra gli ebrei e i cristiani, ma essenzialmente e prima di tutto fra gli ebrei restati fedeli alla loro elezione e che, per questo, hanno creduto di dover rifiutare a Gesù la dignità di Cristo e gli ebrei che, per restare fedeli all’unica elezione, si sono decisi a riconoscere Gesù come il Messia.

Così si percepiscono la grandezza e la debolezza della Chiesa dei cristiani che la visione di Aron Jean-Marie Lustiger provoca qui fino in fondo. Una volta associati di diritto i pagani alla salvezza venuta attraverso gli ebrei, certamente, la “Chiesa è allo stesso tempo quella degli ebrei e quella dei pagani” (La Promesse, p. 17). Di conseguenza, però, occorre, perché questi pagani diventino anch’essi autentici cristiani, che smettano di comportarsi come pagani e dunque accettino il loro innesto sull’olivo buono, sulla radice ebraica. Rimettere in discussione questo innesto, dunque qualsiasi forma di antisemitismo, equivale a rinnegare Cristo in loro. “Si può dire che l’atteggiamento concreto dei pagano-cristiani nei confronti del popolo d’Israele è il sintomo della loro infedeltà reale a Cristo o della loro menzogna nella loro pseudo-fedeltà a Cristo. È la confessione involontaria del loro paganesimo e del loro peccato” (La Promesse, pp. 74, 80, 162). Oppure: “Al centro della storia, il rapporto con l’ebraismo è un test della fedeltà cristiana” (Le Choix de Dieu, p. 82). E ancora: “Quello che le nazioni fanno degli ebrei verifica quello che esse fanno di Cristo” (ivi, p. 84).

Come non pensare qui alle riflessioni critiche di Lévinas a proposito di Montherlant, che vedeva “alleato di un cristianesimo che è soprattutto il cristianesimo dei pagani e non il cristianesimo degli ebrei” (Carnets de captivité, p. 183)? Come non pensare alle tentazioni e ai tentativi di fabbricare un cristianesimo esplicitamente degiudaizzato, un Gesù “dolce galileo”, persino provenzale o francamente ariano? Se dunque l’antisemitismo diviene “veramente il test assoluto” (ivi, p. 156) dell’apostasia cristiana, allora un cristiano antisemita semplicemente non è più cristiano: “Ai miei occhi, gli antisemiti non erano fedeli al cristianesimo” (Le Choix de Dieu, p. 51). Non si deve dunque confondere l’antiebraismo, disputa fra eredi per sapere chi resta più fedele e merita meglio l’elezione – disputa falsata d’altronde da entrambi i lati, in quanto ogni eletto non può giudicare la propria risposta a un’elezione che gli viene da un altro – confondere, dicevamo, l’antiebraismo con l’antisemitismo, che vuole niente di meno che rifiutare categoricamente quella stessa eredità, e che per riuscire a farlo nega agli ebrei la loro elezione, al punto di annientarli perché incarnano irrimediabilmente la promessa di Dio. La Shoah non costituì solo la più grande violazione dei diritti dell’uomo, essa rappresentò anche la più grande blasfemia contro la legge di Dio, poiché si abbatté sul popolo da Lui scelto, sugli ebrei e, permettetemi di aggiungere, in definitiva anche sui cristiani, sul popolo immenso della promessa universale. L’ateismo moderno, per lo meno nelle sue figure totalitarie compiute, si è voluto non solo anticristiano, ma alla fine anche antisemita, perché “non (poteva) sopportare la presenza “particolare” dell’Assoluto nella storia” (Le Choix de Dieu, p. 84). Non pretese solo di annullare Dio, ma anche di cancellare qualsiasi traccia dell’elezione attraverso la quale Dio si rivela nel mondo.

“Dio è morto”. Certo, ma quale Dio? Nietzsche ha constatato il primo fatto, ma poneva anche la seconda domanda. Per un ebreo “e dunque” un cristiano, la risposta viene da sé: “Il dio rifiutato non è che il dio dei pagani mascherato da Dio dei cristiani” (La Promesse, p. 101), “l’idolo dei pagano-cristiani” (ivi, p. 134), la folla degli “dei degradati, idoli degradanti” (Devenez dignes de la condition humaine, p. 23).
Così meditata da Aron Jean-Marie Lustiger, ebreo e cardinale della Chiesa cattolica, l’elezione non è più un incidente della storia, ma ne fissa il senso e ne schiude le ultime dimensioni.
Certo, si può temere, come il suo predecessore su questo stesso seggio, Pierre Emmanuel, che l’elezione resti spesso incerta: “Il cielo/ È sempre così lontano dalle sue due braccia che tendono/ tutto il peso del dolore dell’uomo verso l’alto/ In una invettiva o in una invocazione, chi può dirlo?”.
Ma, nel profondo di ognuno di noi, sappiamo bene che, persino per noi nelle nostre povere blasfemie, risuona sempre una chiamata, eco persistente dell’elezione di Aron Jean-Marie Lustiger.

Mentre vorrei cercare di esprimervi, signore e signori dell’Accademia, la mia gratitudine per l’onore che mi avete fatto ricevendomi fra di voi, un timore più grande mi fa tacere: voi mi avete eletto al seggio che occupava e che occuperà sempre questa figura troppo alta. E, nella sua luce, tutto ci appare più grande e dunque più difficile. Ma anche di questa difficoltà vi sono grato. Che esista dunque, utinam».

martedì, gennaio 19, 2010

Quella Roma onde Cristo è romano [2]

Ovvero: Le "Mirabilia Urbis Romae" nel ricodo autobiografico del barnabita Padre Giovanni Semeria (1867-1931):


"...nel 1883, mettevo il piede per la prima volta nella città eterna. Avevo sedici anni; ero fresco di fervori mistici del Noviziato, lievemente infarinato di studi classici: doppiamente attrezzato per sentire la grandezza umana e divina di Roma.
Correva il mese di ottobre, sacro allora per gli studenti alle vacanza, pei Romani autentici alle magnifiche ottobrate. E realmente, se non imperversava e quando imperversava lo scirocco autunnale colle sue pioggie, risultava fulgidamente razionale l'usanza tradizionale di sudare in città durante il luglio-agosto per respirare poi l'aria fresca in campagna nel settembre-ottobre, o almeno nella seconda parte.
Anche noi studenti barnabiti si stava in campagna a Monteverde, in una villetta graziosa che oggi col resto fu incorporata alla città; allora era tutto all'intorno alberi e viti. Per raggiungerla subito dovetti, appena arrivato, traversare la parte vecchia e bassa della città dove oggi sorge sul Lungo Tevere la Sinagoga.


Ero troppo Piemontese per non essere impressionato di ciò che la vecchia Roma aveva di urtante, colle sue viuzze strette, addirittura chiassiuoli, colla sua pulizia molto ma molto relativa, colla gente tutta fuori di casa o di bottega: troppo poco Romano per sentire la grandezza dell'Urbe. Ma la Roma cristiana la sentii passando davanti alla piccola chiesetta del Crocifisso sacra agli Ebrei convertiti, la sentii traversando il Ghetto.
Anche a Torino c'era un Ghetto, ma ormai scomparso quando io ero giovanetteo: quel di Roma in quel 1883 era ancora in piena efficienza, salvo il non chiudere più all'Ave Maria le ferree porte come prima del '70.
Strano fenomeno ad ogni modo, curioso per un giovinetto un po' riflessivo, il trovare proprio nella città dei Papi un nucleo così forte e ben organizzato di Israeliti, accolti tutt'insieme con un senso di ospitalità, e una dose uguale di diffidenza.
Le persone pie recitavano percorrendo il Corso (che Corso!) di quel lurido Ghetto, il Credo. Lo recitai io pure e sentii di essere nella città della fede «che vince ogni errore»."

Tristitia Christi / 7

OVVERO: "A chi dunque posso paragonare la gente di questa generazione? A chi è simile? È simile a bambini che, seduti in piazza, gridano gli uni agli altri così:
Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato,
abbiamo cantato un lamento e non avete pianto!" (Lc 7,31-32)



"Come hanno seguito gli ebrei che vivono in Israele la visita del Papa al Tempio Maggiore di Roma?
Nonostante la presenza all’evento del vice-premier Silvan Shalom, l’attenzione dell’opinione pubblica è stata abbastanza limitata. Sui siti dei quotidiani di Gerusalemme si è dato spazio a una cronaca molto sobria e – soprattutto – rigidamente ristretta al dibattito sulla figura di Pio XII.
Colpisce – in particolare – lo scarso interesse per le parole pronunciate da Benedetto XVI sul tema più generale del rapporto tra cristiani ed ebrei. «Alla sinagoga di Roma il Papa difende il Vaticano dell’era nazista», è il titolo scelto dal quotidiano israeliano Haaretz. Dove nell’articolo la frase sull’«azione discreta e nascosta» della Santa Sede è l’unica a essere citata del lungo discorso del Pontefice.
Ancora più radicale la scelta del sito di Yediot Ahronot , il più diffuso quotidiano israeliano, che dedica il titolo alle parole del presidente della Comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici: «Il leader degli ebrei romani incalza il Papa sul 'silenzio' di Pio XII » .
Su Arutz Sheva , l’agenzia vicina alla destra religiosa, lo stesso episodio diventa addirittura: «Parole brusche per il Papa durante la storica visita in sinagoga » , un’immagine assolutamente lontana dalla realtà. «Il Vaticano si adoperò per salvare gli ebrei» è infine il titolo scelto dal Jerusalem Post , che curiosamente non pubblica nemmeno la foto di Benedetto XVI in sinagoga: preferisce ricorrere a un’immagine d’archivio, in cui il Papa compare accanto a una grande croce.
Nessuno, dunque, a Gerusalemme ha raccontato agli ebrei israeliani che a Roma il Pontefice domenica ha anche ripetuto le parole scritte da Giovanni Paolo II nel biglietto deposto al Muro Occidentale, ha condannato con parole nette l’antisemitismo, ha invitato i cristiani a conoscere più a fondo l’ebraismo e ha indicato nuove strade per un’amicizia più profonda tra ebrei e cristiani.
[...]
Del resto la prospettiva non è che cambi molto se si analizzano le reazioni nell’altra maggiore comunità ebraica mondiale, quella degli Stati Uniti. Anche sul sito di Forward , la più importante rivista ebraica americana, sulla visita del Papa in Sinagoga non si va oltre un lancio di agenzia in cui l’unica frase citata di Benedetto XVI è sempre la stessa. E nonostante la condanna dell’antisemitismo sia stata tutt’altro che marginale nel discorso del Pontefice, non se ne trova traccia nemmeno nella sezione dedicata ai rapporti interreligiosi del sito dell’ Anti defamation league , l’organismo che si occupa della lotta ai pregiudizi contro gli ebrei."

[© Copyright Avvenire, martedì 19 gennaio 2010
"Da Israele agli Usa, l’occasione perduta dei media ebraici"
di GIORGIO BERNARDELLI ]

domenica, gennaio 17, 2010

Gran Rabbi nato /12

Ovvero: dall'articolo "Pio XII Papa progressista"
di Marco Burini ( © Il Foglio; sabato 16 gennaio 2010)


“...Io andrei molto piano a definirlo un papato reazionario, ebbe dei notevoli spunti di modernità che furono il terreno di coltura del Concilio Vaticano II”, ci dice Paolo Prodi, uno dei nostri storici più insigni, autore di opere fondamentali sul papato come istituzione originaria dell’occidente. Secondo il professore di Bologna, “basterebbe leggere il discorso che tenne il 7 settembre 1955 ai partecipanti al decimo Congresso internazionale di scienze storiche. Ricollegandosi alla riapertura degli Archivi vaticani dall’epoca di Leone XIII, Pacelli poneva tra parentesi un cupo periodo, il cinquantennio della lotta antimodernista, e si apriva alla critica storica riconoscendo i grandi progressi da essa compiuti. La chiesa come realtà storica, affermava, partecipa al mutamento dei tempi e non può essere legata ad alcuna cultura determinata” (“L’Eglise catholique ne s’identifie avec aucune culture; son essence le lui interdit”, nell’originale francese).
Un senso acuto della storia e quindi una libertà intellettuale che in qualche modo Pio XII mostrò sempre di avere, sia quando tolse le briglie agli esegeti con la “Divino afflante Spiritu” (1943) sia quando le mise ai teologi con la “Humani generis” (1950), per citare le sue encicliche più significative. Allora ci fu chi provò a metterle una contro l’altra, o a privilegiare una per svalutare l’altra (vizio ricorrente nel caso di pronunciamenti papali), vietandosi così il gusto della dialettica. In realtà meritano di essere lette per quello che dicono, senza troppi retropensieri.
La prima, in particolare, dà il via libera definitivo a una lettura moderna, scientifica, della Scrittura dopo decenni di diffidenza e qualche timida apertura. Come spesso capita, il testo nasce per celebrare un anniversario, il cinquantesimo della “Provvidentissimus Deus” (1893), l’enciclica di Leone XIII che tentava di rilanciare gli studi biblici cattolici alla fine di un secolo, l’Ottocento, dominato dalle ricerche di area protestante o positivista. Erano anni in cui si respirava un clima di assedio, come ricorda la “Divino afflante Spiritu” nelle prime righe: “Nei tempi più recenti, venendo minacciata da speciali assalti la divina origine dei Sacri Libri e la retta loro interpretazione, con ancor maggiore impegno e diligenza la Chiesa ne prese la difesa e la protezione”. Il “razionalismo dilagante” con cui veniva letta la Bibbia non risparmiava gli esegeti cattolici (esemplare il caso di Alfred Loisy, massimo esponente del modernismo) che andavano richiamati all’ordine; al tempo stesso, bisognava rimettere mano agli studi biblici assicurando uomini e mezzi e riformando i programmi di insegnamento nei seminari.

Pio XII non si accontenta di un tributo ai predecessori (Leone XIII, Pio X e Pio XI), capisce che nel frattempo le condizioni “sono grandemente cambiate”. Le esplorazioni archeologiche ormai “sono cresciute enormemente di numero e si praticano con più severo metodo e con arte raffinata dalla stessa esperienza, sicché più copiosi e più certi derivano i risultati”. Ma chi ha il compito di valutarli? “Quanto poi da quelle indagini si tragga lume a meglio e più a fondo comprendere i Sacri Libri, lo sanno gli esperti, lo sanno tutti coloro che si applicano a questo genere di studi”. Gli specialisti sul campo (archeologi, filologi, etnologi, storici) non sono più dei temibili rivali né tantomeno dei fastidiosi scocciatori, ma degli alleati. L’esegeta cattolico, da parte sua, dovrà conoscere le lingue antiche e i testi originali superando, senza abolirla, la Volgata di san Girolamo, la versione latina della Bibbia. Una svolta rispetto al Concilio di Trento che aveva decretato la Volgata come la versione “di cui tutti dovessero valersi come autentica”. Pio XII precisa che “quell’autenticità va detta non critica, in prima linea, ma piuttosto giuridica” perché legittima un uso secolare e dunque non esclude l’uso dei testi originali né la possibilità di traduzioni della Bibbia nelle lingue nazionali. Ben equipaggiato dal punto di vista linguistico e critico, “l’esegeta cattolico si applichi a quello che fra tutti i suoi compiti è il più alto: trovare ed esporre il genuino pensiero dei Sacri Libri”. Per farlo deve individuare il significato letterale del testo; esercizio indispensabile, tra l’altro, “per ridurre al silenzio coloro che, asserendo di non trovare nei commenti biblici nulla che innalzi la mente a Dio, nutra l’anima e fomenti la vita interiore, mettono innanzi, quale unico scampo, un genere d’interpretazione spirituale e, com’essi dicono, mistica”.

In effetti, contro l’esegesi storica si era compattato un movimento spiritualista che scongiurava il magistero di non cedere al metodo scientifico ed esaltava l’ermeneutica dei Padri della Chiesa; d’altronde in quegli anni anche esponenti di spicco del rinnovamento teologico, come Henri de Lubac e Jean Daniélou, prediligevano le allegorie e le tipologie di Origene e colleghi. Ma Pio XII non ha dubbi: “Anche dai nostri tempi possiamo aspettarci che si apporti del nuovo per meglio approfondire e con più accuratezza interpretare le Sacre Carte. Infatti non poche cose, specialmente in ciò che riguarda la storia, a malapena o imperfettamente furono spiegate dagli espositori dei secoli scorsi, mancando ad essi quasi tutte le notizie necessarie per maggiori schiarimenti. Quanto ardui e quasi inaccessibili agli stessi Padri siano rimasti alcuni punti, ben lo mostrano, per tacer d’altro, i ripetuti sforzi di molti fra essi per interpretare i primi capi della Genesi, ed anche i ripetuti tentativi di San Girolamo per tradurre i Salmi in guisa che il loro senso letterale, cioè espresso nelle parole stesse del testo, chiaramente trasparisse. In altri libri o testi solamente l’età moderna scoperse difficoltà prima insospettate, poiché una conoscenza ben più profonda dei tempi antichi fece sorgere nuove questioni, per le quali si getta più addentro lo sguardo nel soggetto. A torto perciò alcuni, mal conoscendo lo stato della scienza biblica, vanno dicendo che all’odierno esegeta cattolico nulla resta da aggiungere a quanto ha prodotto l’antichità cristiana; al contrario bisogna dire che il nostro tempo molte cose ha tirato fuori, che nuovo esame richiedono le nuove ricerche e non leggero sprone mettono all’attività dell’odierno scritturista”.

L’enciclica cita la teoria dei generi letterari che era un po’ l’ultimo grido in fatto di esegesi. Da allora, di strada se n’è fatta: abbiamo sentito parlare di Formgeschichte (storia delle forme), Redaktionsgeschichte (storia delle redazioni), di ipotesi documentale, di critica delle fonti, critica formale o critica canonica, e tutte le infinite ramificazioni. Forse qualcuno ha perso di vista la meta, magari perché confonde i piani.
Nel “Rapporto sulla fede” (1985) l’allora prefetto della congregazione per la Dottrina della fede, Joseph Ratzinger, sosteneva che “grazie al lavoro dell’esegesi, noi percepiamo la parola della Bibbia in modo nuovo, nella sua originalità storica, nella varietà di una storia che diviene e che cresce, carica di quelle tensioni e di quei contrasti che costituiscono contemporaneamente la sua insospettata ricchezza”; ma senza una teologia biblica all’altezza, che sappia decifrare con l’occhio del credente i risultati dell’esegesi, la Bibbia rimane un “libro chiuso”.
Nella prefazione al documento della Pontificia commissione biblica “L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa” (1993), Ratzinger dice che a suo tempo Pio XII fece bene ad accettare il metodo storico-critico ma che il dibattito sulla sua “utilità” e sulla sua “giusta configurazione” non si è affatto concluso, anche perché “nel frattempo la gamma metodologica degli studi esegetici si è ampliata in un modo che non era prevedibile trent’anni fa. Nuovi metodi e nuovi approcci vengono proposti, dallo strutturalismo all’esegesi materialista, psicanalitica e liberazionista”.

Di recente Benedetto XVI è tornato sull’argomento, più nei panni di teologo che in quelli di Papa. Nell’introduzione al suo “Gesù di Nazaret” mette in guardia dai limiti e dai rischi che nascono dalle distinzioni sempre più sottili di tradizioni stratificate e dalle trasformazioni di ipotesi in verità indiscutibili: l’ibrido Gesù della storia/Cristo della fede è l’emblema di questa deriva. Come per lo scriba evangelico, dunque, la vera sapienza sta nell’estrarre dal tesoro della Scrittura cose vecchie e cose nuove insieme. Certo, senza vagheggiare un futuro in cui tutti gli enigmi saranno sciolti. Pio XII nella “Divino afflante Spiritu” lo dice bene: “Non vi sarebbe pertanto motivo di meravigliarsi se a questa o quell’altra questione non si avesse mai a trovare una risposta appieno soddisfacente, perché si ha da fare più volte con materie oscure e troppo lontane dai nostri tempi e dalla nostra esperienza, e perché anche l’esegesi, come le altre più gravi discipline, può avere i suoi segreti, che rimangono alle nostre menti irraggiungibili e chiusi ad ogni sforzo umano”.

A dare man forte a Pio XII nella stesura dell’enciclica fu un personaggio straordinario, Augustin Bea.
Gesuita tedesco, aveva insegnato Sacra Scrittura prima di diventare, nel 1930, rettore di quel Pontificio istituto biblico che era il fiore all’occhiello del rinnovamento esegetico e per questo bersaglio di attacchi molto duri. Nella primavera del 1941 era stato spedito a tutti i vescovi italiani un libello anonimo e il cardinale di Napoli, Alessio Ascalesi, lo aveva portato al Papa. Il titolo diceva tutto: “Un gravissimo pericolo per la chiesa e per le anime. Il sistema critico-scientifico nello studio e nell’interpretazione della Sacra Scrittura. Le sue deviazioni funeste e le sue aberrazioni”. Lo aveva scritto un prete, don Dolindo Ruotolo, coagulando il malumore e la diffidenza di molti. Prendeva di mira il Pontificio istituto biblico dove si insegnava un’esegesi scientifica che causava la “rovina delle anime” e una “profonda decadenza”. Ma l’attacco ebbe l’effetto opposto. Pochi mesi dopo, la Pontificia commissione biblica scrisse una lettera per difendere con vigore l’esegesi storica. Il Papa era pienamente d’accordo e due anni dopo, il 30 settembre, “nella festa di San Girolamo, Dottor Massimo nell’esporre le Sacre Scritture”, firmò la “Divino afflante Spiritu”, frutto della stretta collaborazione con Bea che, due anni dopo, diverrà anche il suo confessore.

Scrive Mauro Pesce, docente di Storia del cristianesimo all’Università di Bologna che ha studiato a lungo la questione biblica: “Bea fu forse il principale artefice del rinnovamento dell’esegesi cattolica romana. Egli perseguì instancabilmente questo rinnovamento, anche se in un modo estremamente accorto e cauto che consisteva nell’occupazione di precise posizioni nelle istituzioni romane e nella costruzione di una fitta rete di rapporti personali e mediazioni diplomatiche. A partire dal 1949, quando cessò di essere rettore del Pontificio istituto biblico, Bea cercò di instaurare un rapporto di collaborazione e di fiducia con il cardinal Ottaviani, prefetto del Sant’Uffizio, e con il cardinal Pizzardo… I suoi numerosi commenti ai documenti ecclesiastici sulla Bibbia e gli sviluppi degli studi biblici sono un capolavoro di diplomazia che tende a evidenziare, nei documenti di Pio XII, i passi che costituiscono effettivamente delle novità, senza tuttavia sottolinearne la discontinuità col passato”. Un paziente lavoro di tessitura che fu prezioso anche in seguito, quando Giovanni XXIII lo fece cardinale e presidente del neonato Segretariato per la promozione dell’unità dei cristiani, autentica centrale dell’ecumenismo e del dialogo con gli ebrei. In quegli anni di fermento che sfoceranno nel concilio, Bea non dimenticherà il magistero illuminato di Pio XII: “Ci sarebbero da dire tante cose belle che molti forse non sospettano”. Senza dubbio la “Divino afflante Spiritu” ha preparato il terreno alla “Dei Verbum”, vertice teologico del Vaticano II, sgombrando il campo da malintese letture spirituali – cioè astratte – della Bibbia. Perché la parola di Dio è incarnata in una storia, quella di un ebreo fedele fino in fondo al patto tra Dio e il popolo d’Israele. Promuovere lo studio storico dell’Antico Testamento, cioè la radice giudaica della fede cristiana, e farlo solennemente, con un’enciclica, mentre gli ideologi del nazismo sollecitavano i cristiani a rinnegare la Torah e riconoscere in Gesù il Signore della razza ariana, non è stato certo sintomo d’ignavia."

sabato, gennaio 16, 2010

Mirabilia Urbis Romae

Ovvero: "di quella Roma onde Cristo è romano"


"Ecco quanto viene tramandato.
Chanoch ben Esra viveva negli anni in cui si susseguirono disastrosi terremoti. In quel tempo a Roma molti Ebrei furono tricidati perché si credeva che con i loro magici scongiuri avessero evocato le forze degli inferi per condurre alla rovina la città da cui Gerusalemme era stata vinta. (E' noto infatti che, secondo una profezia di S.Benedetto, Roma non potrà cadere che per violenza di elementi ed è questo il motivo per cui i Romani s'abbandonano ad un folle e selvaggio terrore alla minima scossa tellurica ben più che alla vista di interi eserciti di barbari.)

In quei giorni, come già seicento anni prima per ottenere la cessazione di una terribile epidemia di peste, si tolse dalla cappella del palazzo del Santo Padre un'icona di Cristo (quella che S.Luca dipinse con le sue proprie mani) e la si portò in solenne tridua processione per tutte le vie della città.
Nel momento in cui la testa del corteo con la croce dorata usciva dai vicoli stretti e bui dirigendosi verso il bianco ponte sul Tevere detto "Pons Senatorum", la terra sussultò di nuovo così violentemente che il ponte precipitò sotto gli occhi di quelli che stavano per porvi il piede. Allora nacque tra i fedeli un tumulto spaventoso: alcuni caddero come morti per il terrore mentre alcuni invocavano i Santi e altri ancora ripensavano agli Ebrei e gridavano che bisognava punirli lapidandoli con le macerie da loro stessi prodotte.
Quelli che portavano le croci e gli stendardi ne piantarono le aste nel terreno, afferrarono come gli altri le pietre dei distrutti pilastri del ponte crollato, così armati, tutti si precipitarono nelle vicine contrade degli Ebrei. (Il Pons Senatorum, come si sa, segue da vicino il Pons Judeorum presso il quale abitano, sulle due rive del fiume, molti Ebrei.)
Uno di quelli che caddero subito nelle mani di quei forsennati fu appunto Chanoch ben Esra, un degno vegliardo che, spaventato dal terremoto, era uscito dalla sua casa. Egli poté però divincolarsi e, con le vesti a brandelli, sanguinante orribile a vedersi, fuggì lungo la schiera dei fedeli che i moniti dei sacerdoti erano riusciti a frenare. I più vicini all'immagine sacra circondata d'oro e di candidi drappi pregavano ancora quando l'Ebreo, sempre aizzato dalle pietre lanciategli dai suoi inseguitori, penetrò tra di essi. Si levò allora improvviso, quasi più per dolore che per ira, un grido: "Sacrilegio! Sacrilegio!". Chanoch ben Esra portato ben più dal terrore della morte che dai suoi vecchi piedi oltrepassò i sacerdoti le cui dalmatiche bianche e dorate formavano come un baluardo e andò a cadere tutto intriso di sangue ai piedi del Papa.

Il Santo Padre che teneva l'immagine di Cristo tra le sue mani ed era assorto in preghiera e oppresso dall'oro delle sue corone e dei suoi manti così da parere egli stesso figura irreale al servizio della sacra Icona, indietreggiò senza volerlo d'un passo; ma il vecchio, disperato, sulle ginocchia tremanti, si trascinò vicino e nascose la testa sotto i lembi purpurei del suo manto.
Ci fu più tardi chi affermò che il Papa per un'improvvisa illuminazione riconoscesse allora, attraverso il proprio mantello, nel volto nascosto di quel vecchio Ebreo il modello originario sul quale il Creatore aveva forgiato le sembianze di S.Pietro e che questo fosse il motivo per cui aveva protetto il disgraziato. In realtà però era avvenuto il contrario: era stato cioè l'Ebreo e il popolo romano a ritrovare per la prima volta nei lineamenti del loro Papa l'apostolica maestà di S.Pietro. [...]
Non una visione egli ebbe ma pensò al comando della misericordia cristiana e alle disposizioni dei suoi santi predecessori che avevano prescritto alla Chiesa primitiva di considerare intangibili corpo e vita degli Ebrei affinché potessero convertirsi o, se ciò non avveniva, continuassero ad essere a modo loro testimonianza della crocifissione di Cristo.
I Romani non osarono toccare le sacre vesti pontificali, ma chiesero a gran voce al papa che aprisse il suo manto e consegnasse loro il malfattore affinché cessasse il terremoto. Intanto i più lontani e più minacciosi già accusavano i più vicini di troppi riguardi e chiedevano se fossero paralizzate le mani che un tempo si erano levate contro Benedetto IX.

Il Santo Padre sentiva il proprio cuore tremare poiché anche lui era un uomo e il popolo era sfrenato: nei tempi passati si era visto più d'un Papa percosso rudemente dai laici, più d'uno vittima delle violenze subite. Molti poi gli erano avversi, lo sapeva, perché non tollerava che si vendessero le cariche ecclesiastiche. Ma portava tra le mani l'immagine di Colui che morì anche per gli Ebrei e doveva essere disposto a morire a sua volta, se era necessario, per questo Ebreo. Non pronunciò una parola, tenne lo sguardo fisso all'Immagine che egli stesso reggeva e solo la sollevò un poco più in alto in modo che sovrastasse la folla e gli nascondesse il volto. Così rimasero insieme, quasi legati ad un'unica radice, di fronte al popolo fremente il Papa con la sua corona e il vecchio Ebreo ai suoi piedi.

La folla esitava: avrebbe attaccato il Papa ma l'Immagine sacra gli incuteva timore. Però non indietreggiò. Rimase dov'era, minacciosa, simile a una muraglia di silenzio e di corpi che ad ogni istante può crollare addosso uccidendo.
A un tratto si levò da sotto il manto del Santo Padre la voce dell'Ebreo, quasi implorazione di pietà: "Credo in Deum Patrem omnipotentem, Creatorem caeli et terrae!".
E il Papa proseguì tranquillo, annunciando Colui di cui serrava tra le mani l'Immagine (e parve che la sua voce si confondesse con quella che proveniva dall'uomo ai suoi piedi): "Et in Iesum Christum, Filium eius unicum, Dominum nostrum, qui conceptus est de Spiritu Sancto...". Per un momento il silenzio all'intorno fu così assoluto come se nessuno potesse respirare. Si sarebbe detto che si udiva il silenzio. Poi da esso un grido si sciolse: "L'Ebreo recita il Credo! L'Ebreo si è convertito! Un miracolo ai piedi del Santo Padre!".
La muraglia cedette, il popolo si inginocchiò.
Intanto alcuni chierici trasportarono via l'Ebreo svenuto.

La sera stessa già s'era diffusa per tutta Roma la persuasione che il terremoto non si sarebbe più ripetuto perché uno degli Ebrei che ne erano stati causa per miracolosa illuminazione s'era improvvisamente convertito a Cristo [...] e quei Romani stessi che al mattino volevano lapidarlo si affollavano ora alle porte dei monasteri, dove supponevano fosse ospitato il miracolato, per baciargli le mani"
GERTRUD VON LE FORT
("Il Papa del Ghetto. La leggenda dei Pierleoni")

lunedì, gennaio 11, 2010

Pro Missa bene cantata [14]

Sive: OREMUS ET PRO PERFIDIS EPISCOPIS




In data mercoledì 3 ottobre 1984, anno sesto del pontificato di Giovanni Paolo II, l'allora Sacra Congregazione per il culto Divino inviava ai Presidenti delle Conferenze Episcopali una lettera circolare che gode della peculiarità d'esser notoria per l'incipit latino "Quattuor abhinc annos": una singolarisima titolatura latinegginte nel post-conciliare cartaceo, e volgare, mare magnum con cui la Santa Sede ha sommerso l'orbe cattolico.
Nell'incipit si ricordava che "quattro anni prima", nel 1980 il Santo Padre, profondamente consapevole delle lacerazioni ancora ben presenti nel clero e nei fedeli intorno al divieto di celebrare i riti tridentini, aveva chiesto alle Conferenze Episcopali un dettagliato resoconto sulla ricezione della riforma liturgica a dieci anni della entrata in vigore della "Messa di Paolo VI". Il resoconto doveva inoltre indicare "le difficoltà apparse nell’attuazione della riforma liturgica" nonché prospettare soluzioni "circa il modo di superare eventuali resistenze".

Quattro anni dopo, il Sommo Pontefice, mercé la circolare della Congregazione per il Culto divino, sbugiardava l'episcopato: "In base alle loro risposte sembrava fosse quasi interamente risolto il problema di quei sacerdoti e fedeli che erano rimasti ancorati al cosiddetto rito tridentino." Invece Papa Wojtyla, perfettamente al corrente dell'esistenza di (seppur marginali) resistenze all'introduzione del "Novus Ordo", decretava un "indulto" (in deroga alla normativa liturgica generale) "di poter celebrare la S. Messa usando il Messale Romano secondo l'edizione del 1962" per tutti quei sacerdoti e fedeli "che saranno indicati nella lettera di richiesta da presentare al proprio Vescovo". Dunque, fatta salva "la legittimità e l’esattezza dottrinale del Messale Romano promulgato dal papa Paolo VI nel 1970", il Pontefice, con la suddetta circolare, concedeva ai vescovi diocesani piena facoltà e liberalità di affidare dei luoghi di culto a quel clero e a quei fedeli che avessero mendicato la celebrazione dei sacri riti "more antiquor". E per meglio evitare "ogni mescolanza tra i riti e i testi dei due messali" si chiedeva ai vescovi di concedere ai devoti della "Messa di S. Pio V" luoghi di culto che non fossero la Chiesa parrocchiale: "in modo da non recare pregiudizio alcuno all’osservanza della riforma liturgica".

Grazie all'indulto pontificio del 1984 vennero così costituiti dell'orbe cattolico dei legittimi "ghetti" dove poter celebrare il rito tridentino, compresi perciò i riti del Venerdì Santo in ottemperanza del Missalem Romanum promulgato da Giovanni XXIII nel 1962.
In seguito alla scomunica a monsignor Lefebvre: "nell'anno 1988 poi Giovanni Paolo II di nuovo con la Lettera Apostolica Ecclesia Dei, data in forma di Motu proprio, esortò i Vescovi ad usare largamente e generosamente tale facoltà in favore di tutti i fedeli che lo richiedessero" (Summorum Pontificum).
Pertanto, per ben ventidue anni consecutivi, dal Venerdì Santo del 1985 fino a quello del 2007, i "tradizionalisti" (all'interno del loro ghetto liturgico) godettero della più aplia libertà di pregare "Pro Judeis", nella più totale indifferenza sia del mondo cattolico e tanto più del mondo ebraico. Infatti, i professionisti del dialogo interreligioso, sia da parte cattolica che da parte ebraica, sostenevano che l'orazione "pro judaeis" del Messale del 1962 era oramai recitata così tanto raramente da non essere più considerata un impedimento al dialogo fra cattolici ed ebrei. E questo spiega come mai Benedetto XVI e i suoi stretti collaboratori apparvero sorpresi, spiazzati, ed impreparati di fronte al generale ebraico stracciamento di vesti (e ancor di più di fronte alle pubbliche lamentazioni provenienti da eminetissimi prelati cattolici) per la liberalizzazione della preghiera per la conversione degli ebrei.
La polemica, rintuzzata dai cattolici corifei delle "magnifiche sorti e progressive" della mitologia vaticanosecondista, porterà nel 2008 (venendo incontro alla richiesta ufficialmente formulata dai due massimi rabbini d'Israele: sefardita e askenazita), alla sostituzione dell'Oremus da cui Giovanni XXIII aveva cancellato il riferimento alla "perfidia", con una nuovissima versione; orba di ogni possibile riferimento alla cecità spirituale del popolo ebraico; composta dal Benedetto vicario in terra del "Rex Judeorum".

Or dunque, se il "Summorum Pontificum" del 7 Luglio 2007 ha liberalizzato la messa tridentina, persino da una superficiale lettura appare evidente che il suddetto Motu proprio non promuova affatta una maggior diffusione dell'uso dell'«Oremus et pro Judeis». Il Motu Proprio, infatti, se ha "liberalizzato" la " vecchia messa in latino" lo ha fatto non già rispetto alla Costituzione Apostolica Missale Romanum del 1969, con cui Paolo VI imponeva alla Chiesa cattolica tutta "la messa nuova", bensì all'indulto "Quattuor abhinc annos". Infatti per clero e fedeli (i quali nel frattempo non erano affatto diminuiti ma anzi aumentati rispetto al 1984) lo scoglio insormontabile all'utilizzo del Messale tridentino veniva proprio dell'Episcopato che accusava i "tradizionalisti" di non essere ubbidienti al magistero pontificio quando chiedevano quella messa tridentina che Giovanni Paolo II aveva dichiarato essere loro diritto di chiedere (cioè, ottenere!).
Benedetto XVI ha "liberalizzato" nel senso che ha eliminato l'impedimento principe: la (scarsissima) condiscensenza episcopale.

La dottrina canonico-liturgica sviscerata da Benedetto XVI nel Motu Proprio è chiara e lineare: nonostante l'introduzione massiccia e capillare del "Nuovo Messale Romano", il Messale di S.Pio V seppur fatto scomparire "de facto", non è stato mai abolito "de jure" (né poteva esserlo: i riti muoiono di morte naturale) esso rimane perciò un legittimo formulario del Rito Romano. Per meglio dire: "forma straordinaria" del Rito Romano, legittimo e valido quanto il rito post-conciliare. Ragion per cui, come qualunque sacerdote di "rito romano" non necessita di "exequatur" da parte del legittimo vescovo diocesano per celebrare secondo il messale di Paolo VI, allo stesso modo non ne avrà bisogno nemmeno per celebrare secondo il messale di S.Pio V, quando sia un congruo numero di fedeli a richiederli di celebrare nella "forma straordinaria".
Poichè "la salvezza delle anime è la legge suprema della Chiesa", i sacerdoti, e cioè specialmente i parroci, debbono assecondare la richiesta di quelli che vogliono "la messa in latino". Ecco che il Summorum Pontificum fa uscire la messa tridentina dal ghetto in cui l'avevano confinata la "Quattruorum abhic annos" e la "Ecclesia Dei afflicta": dal 14 settembre 2007 il rito antico può tornare nelle chiese parrocchiali (senza pericolo la più recente liturgia "riformata") e i parroci potranno -dietro espressa richiesta dei fedeli- celebrare con il messale tridentino del 1962 una delle messe domenicali.

Ma se il Motu Proprio auspica la liberalizzazione della messa tridentina non promuove affato la liberalizzazione del Rito tridentino! Infatti, il "Summorum pontificum" si guarda bene dall'equiparare i due riti (cioè le due forme del medesimo rito romano): "Il Messale Romano promulgato da Paolo VI è la espressione ordinaria della lex orandi della Chiesa cattolica di rito latino". Questo spiega il perchè nell'Articolo 2 si proibisca espressamente l'uso del rituale tridentino durante il Triduo Pasquale, quando si deve svolge un'unica celebrazione parrocchiale della messa "In Coena Domini" del Giovedì Santo, unico il rito della commemorazione della Passione del Venerdì Santo ed una è la veglia pasquale del Sabato Santo. In quel caso il parroco è obbligato a celebrare il Triduo pasquale nella forma "ordinaria" e cioè post-conciliare.
Per assurdo: persino nel caso che la maggioranza assoluta dei parrocchiani anelasse vehementemente ad un Sacro Triduo secondo il Missalem Romanum del 1962, e con tanto di orazione "Pro Judeis" riscritta da Benedetto XVI, il Parroco non avrebbe la discrezione di preferire il rito antico al rito "ordinario".
Pertanto l'affermazione secondo cui "Benedetto XVI ha liberalizzato la preghiera per la conversione degli ebrei del Venerdì Santo" è un'affermazione falsa e priva di qualsiasi riscontro sia nella lettera e tanto più nello spirito del Motu proprio Summorum Pontificum!

Di contro a tale lamentabile reiterata lamentazione ebraica, avremmo desiderato cordialmente che una tale ovvietà l'avessero additata gli eccellentissimi e gli eminentissimi professionisti del dialogo ebraico-cristiano, sin dal luglio 2007.

domenica, gennaio 10, 2010

Ecclesia Dei afflicta, VI


Ovvero: "O papa Bonifazio,
eo porto tuo prefazio
d'emmaledizione
e scommunicazione"

«Alberto Melloni non ritiene sia corretto parlare di riforma liturgica nel pontificato di Ratzinger.
Dice al Foglio che “i cambiamenti portati dal Papa nella liturgia sono quelli di un pastore che intende usare tutte le libertà che il messale concede al fine di reinterpretarle in senso restauratore”.
La sua, dunque, “non è la volontà di riformare la liturgia così come il Concilio l’ha consegnata, bensì è il tentativo legittimo di addattare la liturgia al proprio gusto”.
Secondo Melloni in molti cadono oggi nel tentativo di interpretare Benedetto XVI a proprio piacimento.“Ma se il Papa avesse in mente una riforma della riforma lo direbbe apertamente. Non è un Papa che maschera le proprie azioni, anzi è sempre chiaro ed esplicito nelle sue decisioni. E’ vero: l’abbiamo visto in Tv celebrare rivolto a oriente: ma l’ha fatto nella sua cappella privata, non in pubblico”.
© Copyright Il Foglio, 9 gennaio 2010 »

martedì, gennaio 05, 2010

DEVOTIO MODERNA [16]

Ovvero: leggiamo sul Foglio di martedì 5 gennaio 2009 come avvenne che in Melesia i cristiani possano pregare "Allah"

I cristiani possono chiamare il loro Dio col nome di Allah: cosi ha deciso il 31 dicembre [2009, ndr]l'Alta Corte della Malesia, accogliendo il ricorso del Catholic Herald. Un settimanale in inglese, cinese, tamil e malese, questo, la cui sezione malese era stata messa al bando dal governo il 10 dicembre del 2007, per aver violato questo copyright teologico. L'allora premier Abdullah Badawi da ministro dell'Interno, nel 2002, aveva invece bloccato un sequestro, per ragioni analoghe, di copie della Bibbia cristiana in malese e dayak "Colpa di burocrati troppo zelanti", aveva spiegato. Ma poi l'agitazione islamista a montata, il governo si a lasciato condizionare, e ora lo stesso Najib Tun Razak, successore di Badawi alla testa del governo, annuncia ricorso contro la decisione dell'Alta Corte. La sentenza a stata invece elogiata dal capo dell'opposizione Anwar Ibrahim, ex vicepremier che, dopo aver rotto con l'allora uomo forte Mahathir, fini in carcere con l'accusa di "sodomia": e tomato l'anno scorso in Parlamento, nelle elezioni che hanno visto una spettacolare avanzata della sua coalizione, ma ora a di nuovo sotto processo.
A decidere il caso del Catholic Herald e stata Lau Bee Lan, giudice cristiana, a suo tempo nominata da Badawi.
In arabo, in effetti, Allah e nome generico di Dio, per tutte le fedi. Al massimo i cristiani specificano a volte Allah al Ab, "Dio il Padre"; accanto ad Allah al Ibn, "Dio il Figlio", e ad Allah al Ruh al Quds, "Dio lo Spirito Santo". I malesi, che con una proporzione del 98 per cento sono il popolo più cattolico della Terra, parlano una lingua che deriva dall'arabo e pregano pero anche loro Allah. La cosa diventa diversa in altri paesi islamici di lingua non araba. Ma anche in indonesiano, lingua strettamente imparentata al malese, e normale che i cristiani chiamino Dio Allah col vocabolo arabo: lì, semmai, a la prassi imposta nel 1945 dal Padre della patria Ahmed Sukarno a "consigliare" il termine Maha Esa, "Essere Supremo", a tutte e cinque le religioni riconosciute: islamismo, cattolicesimo, protestantesimo, buddismo e induismo. "In malese i cristiani possono dire Tuhan, `Signore', o Isa, `Gesu"', argomentano in Malesia i sostenitori del copyright teologico. Il direttore del Catholic Herald, padre Larence Andrew, ha avuto però buon gioco nel mostrare un dizionario malese-latino del 1631 e un libro di preghiere cattolico stampato a Hong Kong nel 1631, entrambi con traduzioni inequivocabili: Dio = Allah.
I musulmani accusano però i cristiani di voler "creare confusione" tra i "bumiputra". E' questo il nucleo del problema. In Malesia, paese multietnico, un 54 per cento di malesi convive con un 25 per cento di cinesi, un 7,5 per cento di indiani e un 11,8 per cento di altri malesi che si considerano a parte, in quanto estranei all'islamizzazione (in malese sono detti "orang asli", aborigeni). Sebbene la Costituzione li distingua dai malesi doe, le leggi poi li mettono tutti assieme nella categoria dei bumiputra "figli della terra", un'etnia pin uguale delle altre, che non soltanto ha diritto di precedenza nei posti pubblici. Gli stessi cinesi, che hanno in mano 1'economia, sono obbligati sempre ad assumere un certo numero di bumiputra, e addirittura di fame soci nelle loro society. Dopo aver nel 1965 espulso Singapore dalla Federazione per mettere i cinesi in minoranza, i malesi hanno cercato di assimilare gli "aborigeni", proprio per mantenere quel primato numerico che giustifica i loro privilegi. Ma per gli aborigeni a stato proprio il cristianesimo la bandiera contro 1'assimilazione: 9,1 per cento della popolazione malese, i cristiani sono il 7,7 per cento degli indiani, it 9,6 dei cinesi, ma oltre la meta degli "aborigeni". Per essere riconosciuti malesi puri, la Costituzione prescrive la fede islamica.

domenica, gennaio 03, 2010

Carenza di Bosforo / 7

Ovvero: COSE TURCHE! (di Francesco Colafemmina)

«Il Ministro della Cultura turco ha annunciato alla stampa locale che è sua intenzione procedere alla richiesta ufficiale della restituzione delle ossa di San Nicola, venerate nella Basilica Pontificia di Bari.Lo ha fatto in occasione del Meeting degli Albergatori del Mediterraneo, un incontro d’affari, tenutosi ad Antalya, nei pressi dell’antica Myra, città nella quale San Nicola esercitò il suo episcopato e morì intorno all’anno 343 d.C..Il Ministro Ertuðrul Günay ha spiegato ad Hurryet che chiederà all’Italia ed al Vaticano la restituzione delle ossa del Santo, in Turchia chiamato “Noel Baba” (Babbo Natale). Questa restituzione si inquadrerebbe nel tentativo di realizzare un “Museo della Civiltà Licia” a Myra (Demre): “abbiamo realizzato un museo in questa città, ora chiederemo le ossa di Babbo Natale per il museo”, ha affermato il Ministro. D’altra parte – ha proseguito – : “Babbo Natale o San Nicola ha nomi diversi per diverse religioni, pure questo nome appartiene ad un uomo nato a Patara e vissuto a Demre (Myra). Le sue ossa furono rapite intorno all’anno mille da alcuni corsari di una città italiana, Bari. Ora devono ritornare per essere esposte nel loro luogo d’origine.”
.Sono evidenti assurdità quelle pronunciate dal ministro turco che ha accusato i 62 marinai baresi del 1087 di "rapimento corsaro" [...] : come a dire che tutto ciò che è stato su quella terra prima dell'invasione ottomana è da considerarsi senza ombra di dubbio "turco"!
[...]
Il recente richiamo del Ministro della Cultura turco affinché vengano “restituite” alla Turchia le ossa di San Nicola è da inquadrarsi quindi all’interno di questa opera di riscrittura della storia incessantemente operante in Turchia. Non è un caso se questa richiesta è stata preceduta qualche anno fa dalla trasformazione in Museo della chiesa di San Nicola a Myra (Demre). Una trasformazione che ha impedito la possibilità di celebrare messe in quel luogo, come auspicato da una potente lobby pseudo pacifista denominata Santa Claus Peace Council. »