lunedì, dicembre 28, 2009

Carenza di Bosforo / 5

Dall'alto delle colonne della Stampa di domenica 27 dicembre 2009, con la perfidia degna di una basilissa, la bizantinologa Silvia Ronchey recensisce il saggio del politologo statunitense esperto di strategie militare Edward Luttwak, definendo benevolmente il tomo, tradotto e pubblicato dalle edizioni Rizzoli: "un esercizio di erudizione di più di 500 pagine, in cui prenda a parlare non più dell’impero romano, su cui a suo tempo ha scritto un libro molto discusso, ma di un impero studiato da pochi e conosciuto da ancora meno: l’impero bizantino."

"La grande strategia dell’impero bizantino" è stato un ingegnoso esercizio di attualizzazione della politica bizantina attraverso attraverso cui Luttwak paradgmaticamente interpreta l'insuccesso statunitense nell'esportazione armata della democrazia occidentale nei paesi islamici: "così da spiegare da un lato il fallimento della recente strategia di quest’ultima e predire dall’altro la sua continuazione quale massimo impero mondiale. Ecco che Bisanzio diventa la ricetta per il futuro dell’America[...]".

Per la "basilissa" Ronkey: "L’idea di Luttwak di studiare la strategia di Bisanzio è geniale oltre che attuale, poiché il fantasma di quel millenario impero multietnico aleggia sulle aree geopolitiche interessate dai conflitti del XXI secolo, e non solo su quelli scatenati dalle dottrine strategiche dell’amministrazione Bush — Iraq, Afghanistan, Pakistan — ma di fatto su tutte le zone nella cui odierna proliferazione bellica la strategia militare americana (e non solo) è intervenuta dopo la fine della Guerra Fredda: dai Balcani al Medio Oriente, dalla Mesopotamia al Caucaso.
Per questo, e per molte altre ragioni, le riflessioni di Luttwak sarebbero più che legittime. Se non partissero, tuttavia, da premesse sbagliate.
"Se fa come Bisanzio, l’impero americano durerà ancora a lungo”.
Ma l’America non è mai stata un impero.
Del particolare e peraltro desueto sistema di governo del territorio basato sulla dialettica fra centro e periferie anche remote, dunque sulla reciproca interazione di culture, geografie, etnie, linguaggi, élites, l’America non ha la storia, le tradizioni, l’apertura, che sono state invece proprie di poteri oggi in declino e in passato più o meno funzionali, ma certamente imperiali, come la Gran Bretagna o la Francia, la Turchia o la Russia. Ancora meno ha quelle di Bisanzio.

Conferire all’America status di impero significa da un lato alimentare un equivoco storico e dilatare un paragone incongruo fino al paradosso, dall’altro implicitamente giustificare ex post proprio quel ruolo di invadente gendarme internazionale che è stato causa dei fallimenti e dell’impopolarità dell’amministrazione Bush nel mondo e presso i suoi stessi cittadini.
Oltre all’equivoco di fondo, vari equivoci più circostanziati contribuiscono alla deformazione generale di un quadro che per altri versi Luttwak ha còlto (l’uso delle armi per contenere o punire piuttosto che per attaccare con spiegamento di forze; l’alleggerimento del potenziale militare e l’uso della diplomazia o della “dissuasione armata”; le varie forme di incentivo date agli stati satelliti sotto forma di sussidi, doni, onori, e così via). Ma, ad esempio, affermare che il punto di forza dei governanti bizantini sia stata “la fiducia indiscussa di essere gli unici difensori dell’unica vera fede”, presentare i rapporti con il nascente mondo arabo in termini di accesa contrapposizione religiosa, parlare addirittura, a proposito del califfato, di “offensiva jihadista”, spingersi a considerare “guerre sante” le iniziative militari bizantine — tutti questi sforzi di attualizzazione sono arbitrari e dunque insidiosi.
Non può essere certo paragonato all’islamismo odierno il tollerante e multireligioso mondo arabo ommayyade e abbaside preso in considerazione da Luttwak.

E, anzi, proprio nella periodizzazione si registra il maggior limite del libro, che lo colloca, come quello sull’impero romano, nel peraltro interessante genere dell’esercitazione storiografica praticata dal personale politico di ogni epoca. Nel definire quello che chiama il “codice operativo” della strategia di Bisanzio, Luttwak si basa su una “continuità” effettiva, che tuttavia attinge ai vari periodi in modo incostante. Se avesse approfondito di più l’età macedone, e quella comnena e paleologa, si sarebbe dovuto misurare con paradossi strategici ancora più significativi per il presente: ad esempio, l’ambiguo rapporto tra la potenza marittima bizantina e le repubbliche mercantili, la compenetrazione con i turchi osmani e così via. Come scrive nel suo Strategikon un bizantino dell’XI secolo, Cecaumeno: “Se prendi un libro, leggi tutte le pagine e non limitarti a estrarre solo le cose che ti piacciono di più”.

1 commento:

Duque de Gandìa ha detto...

"...In effetti l’idea di scontro di civiltà nasce proprio dalla dissoluzione di quell’unica, ininterrotta linea di mediazione tra popoli e culture che dall’impero multietnico romano, continuato per undici secoli in quello bizantino, si biforcherà, a partire dal XV, da un lato nell’impero ottomano, dall’altro in quello russo, poi sovietico.
“Gli imperi sono collusivi”, sintetizza Goodwin. “E’ per questo che gli americani non ne hanno uno. Essere imperialisti non significa sapere cosa sia un impero”. L’unico vero, quello romano-bizantino, è caduto solo all’inizio e alla fine del Novecento, con il crollo, rispettivamente, della Sublime Porta e del Muro di Berlino.

E’ un fatto che il XXI secolo si sia aperto con il conflitto etnico. E non è un caso che oggi le sue maggiori zone di crisi siano quelle in cui aleggia il fantasma di Bisanzio...."

Silvia Ronkey; La Stampa del 21 novembre 2009http://www.silviaronchey.it/materiali/lastampa_211108.pdf