domenica, maggio 28, 2006

In die Ascensionis Domini 2006




"Prendere la parola in questo luogo di orrore, di accumulo di crimini contro Dio e contro l'uomo che non ha confronti nella storia, è quasi impossibile – ed è particolarmente difficile e opprimente per un cristiano, per un Papa che proviene dalla Germania..."

7 commenti:

Duque de Gandìa ha detto...

Jeff Israely sul Foglio di mercoledì 31 maggio 2006
"...La visita di Papa Benedetto XVI è naturalmente una notizia importante. Vedere il papa tedesco attraversare la soglia del lager è l’immagine più significativa di questi primi quattordici mesi di pontificato.(...) Benedetto XVI ha iniziato una riflessione davvero sorprendente. “Perché, Signore hai taciuto?”. Ha analizzato la soluzione finale di Hitler e vi ha tratto lezioni teologiche valide per la religione in generale e quella cristiana in particolare: “I potentati del Terzo Reich volevano schiacciare il popolo ebraico nella sua totalità; eliminarlo dall’elenco dei popoli della terra. Con la distruzione di Israele, con la Shoah, volevano, in fin dei conti, strappare anche la radice, su cui si basa la fede cristiana, sostituendola definitivamente con la fede fatta da sé, la fede nel dominio dell’uomo, del forte”. Si tratta di un nuovo atteggiamento da parte di un Papa. Il legame tra i cristiani e gli ebrei ha fatto enormi passi in avanti durante il pontificato di Giovanni Paolo II, che ha fatto della sua storia personale un trampolino di lancio per la riconciliazione.

Il discorso che Benedetto XVI ha fatto ad Auschwitz è stato di natura religiosa, con la ricerca, all’interno del mistero del male, di un percorso verso una fede più forte.
Il corteo sotto la pioggia nel lager Benedetto rende servizio alla sua chiesa e all’umanità assumendo un approccio teologico nei confronti della Shoah, anziché cercare di imitare Giovanni Paolo o di lasciare il compito ai diplomatici del Vaticano.
Ciononostante, si può comprendere il senso di disappunto provato da alcuni ebrei per qualcosa che è mancato. Sulla questione della responsabilità collettiva, il Papa sembra avere perso un’ottima opportunità per far fare un passo ulteriore alla riflessione teologica. Il mistero del silenzio di Dio è affiancato da una certezza storica alquanto concreta. La nazione tedesca è stata vittima del regime. Decenni di studi filosofici e storici ci hanno però insegnato che, come minimo, le cose sono più complicate. Esattamente come sul silenzio di Dio, non c’è forse il medesimo genere di mistero religioso sul quale riflettere nel silenzio dei buoni tedeschi?
Non esiste un luogo nel quale pregare per il perdono di coloro che non volevano uccidere ma erano tuttavia troppo deboli per rifiutarsi di collaborare con il regime? La debolezza e la paura, che sono profondamente radicate e caratteristiche dell’uomo, sono forse un segno nel piano di Dio?

Mentre si attendeva l’arrivo del corteo di automobili presso i forni crematori, dove si sarebbe svolta la cerimonia finale, si è alzato il vento ed è iniziata a scendere una pioggia fredda. Il Papa si è fermato presso ogni lapide commemorativa e ha pregato in tutte le lingue del milione e mezzo di persone uccise. Quando è arrivato all’ultima lapide aveva smesso di piovere, e sopra il vasto campo delle baracche in mattoni mezze diroccate di Birkenau è apparso un luminoso
arcobaleno..."

Duque de Gandìa ha detto...

Sul Gionale del 31 maggio don Bruno Fasani scrive:

"Hanno stupito le parole di Benedetto XVI, pronunciate nel drammatico scenario di Auschwitz. Più che parole, un grido: «Perché, Signore, hai taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto questo?». Lo stupore del cittadino nasce dal registrare un gesto di discontinuità rispetto a certo stile clericale, quello che ha la risposta sempre pronta per tutti i quesiti della vita. Un argomentare stereotipo che, indossati i panni del moralismo consolatorio, evita la fatica del silenzio e dello spartire le pesantezze del vivere. Ma, nella sorpresa per un Papa che interroga Dio sui suoi silenzi, si celebra probabilmente un processo di identificazione, quello della gente comune, anch'essa incapace di dare risposta ai tanti drammi che si consumano sugli scenari della storia. (...)
Chiedendo a Dio il perché del suo silenzio, Benedetto XVI è come se fosse sceso dalla Cattedra del suo magistero, avesse deposto la tiara, per mettersi a fianco del suo popolo, solidale con esso, come un nuovo Mosè, disarmato e silenzioso.
Eppure, nelle parole di Papa Ratzinger, non è difficile percepire la domanda biblica di sempre, quella di Giobbe davanti alle miserie della vita.
Oggi, come allora, è il silenzio di Dio a fare scandalo.
Come non sentire le parole audaci e virili del salmista: «Svegliati, Signore, perché dormi?». Come non sentire il lamento dei discepoli sulla barca in tempesta, mentre il loro addormentato maestro sembra più intento a farsi gli affari propri, che a prendersi cura dei suoi seguaci?
Con Giobbe, Dio si dimostrò scocciato dei discorsi pii dei suoi amici, quelli che volevano dare risposte solutorie, con categorie razionali. All'uomo sofferente - così ci racconta la Bibbia - si limitò ad elencare tutte le meraviglie del creato, una per una, e ad evocare le «creature del terrore», Behemot e Leviatan, causa del male. Dietro questa risposta, apparentemente illogica ed anche beffarda, sta racchiuso in realtà il mistero del silenzio di Dio. Egli sta, sì, nella storia, come un lievito fecondo, ma non si sostituisce all'uomo nel fare la storia.

Nell'elencazione delle cose buone e di quelle malvagie, messe lì quasi come il paravento della sua presenza, sottolinea piuttosto il protagonismo della creazione e quindi la responsabilità, in primo piano, delle creature.
È un tema importante anche per l'oggi, un tempo nel quale il fascino del miracolismo sembra lambire la coscienza di tanti credenti, privilegiando il sensazionale al senso di responsabilità. Tra richieste di miracoli, come in un super Enalotto della fede, e madonne che piangono, cresce l'individualismo delle coscienze, riducendo il cristianesimo a una specie di lotteria delle grazie, con tanto di classifica dei fortunati.
Ed è invece nel silenzio di Dio che emerge il protagonismo degli uomini, non perché abbandonati la Lui, ma perché responsabilizzati. Una responsabilità che interpella non solo sullo scenario della salvezza individuale, ma più ancora sui processi storici e sui fenomeni culturali collettivi, cioè sulla salvezza sociale.
Lo scandalo della corruzione politica di ieri e quello del mondo sportivo, oggi, non sono forse il termometro di una cultura diffusa, che ha confinato l'idea di bene e quindi di moralità nell'ambito del privato? Dio fa silenzio nelle mura di Tangentopoli e in quelle di Pallonopoli. Ma è da questi spazi inquinati che la sua presenza-assenza interpella, perché la salvezza sociale torni ad essere una priorità, senza la quale il fai-da-te morale privilegia il falso star bene in solitudine. La domanda allora non è: dove sei, Dio? Ma piuttosto: cosa dobbiamo fare, Signore?"

Duque de Gandìa ha detto...

Le domande del Papa a Auschwitz - di Gianni Baget Bozzo da Il Giornale di martedì 30 maggio 2006

"Il viaggio di Benedetto XVI ad Auschwitz era il punto più significativo del viaggio in Polonia. Per quanto sia stretta la continuità tra Benedetto e Giovanni Paolo II, la differenza tra le loro personalità è talmente forte da apparire ancora più significativa della stretta collaborazione del cardinale Ratzinger con il Papa polacco.
Il Papa polacco aveva sempre vissuto la tragedia del popolo ebreo all'interno di quella del suo popolo. I nazisti volevano ridurre il popolo polacco a un non popolo, un popolo di schiavi, con la stessa passione con cui volevano cancellare il popolo ebreo dalla faccia della terra. Per questo Auschwitz era una tragedia comune, vissuta all'interno di una medesima passione: e ciò conduceva al fatto che il Papa polacco sentiva l'offesa fatta al popolo ebreo ed anche il peso che il mondo cristiano aveva avuto nel creare i presupposti di tale volontà assoluta di negazione.
Ma Benedetto è un Papa tedesco e non voleva nascondere sotto il manto papale le responsabilità del suo popolo innanzi ai forni crematori. Ha però voluto sottolineare che il nazismo fu anche una violenza contro la cultura e la storia della Germania, una seduzione che si era esercitata contro l'eredità profonda del suo spirito. La Germania ha assunto la responsabilità collettiva del drammatico errore nazista e lo ha pagato con le sofferenze della sconfitta, dell'occupazione e della perdita del territorio.
Distinguere Germania da nazismo è ormai un principio comunemente accettato, visto che lo Stato tedesco democratico ha accettato la sua responsabilità collettiva.
Ma stava al Papa di proporre come Papa quella differenza e ricordare che anche i tedeschi avevano testimoniato contro il nazismo perdendovi la vita.
Benedetto non è fuggito innanzi all'interrogativo storico nato dopo i campi di sterminio “dove era a Dio ad Auschwitz?”. Non ha preteso dare risposte a questa domanda e ha affidato al mistero divino gli accadimenti incomprensibili della storia. Si è rifatto ai testi biblici che ricordano eventi drammatici nella storia di Israele come l'esilio e si rifanno egualmente alla realtà del disegno divino. Difendendo la storia del popolo tedesco dalla sua essenziale connessione con l'evento nazista che ne era invero una radicale censura ha anche difeso la cristianità dall'accusa di essere causa di un sentimento pubblico ostile agli ebrei. E soprattutto egli ha messo in luce la connessione essenziale tra ebraismo e cristianesimo quando, nel suo discorso, ha ricordato come per il nazismo la soppressione dell'ebraismo, fosse la premessa per l'eliminazione del cristianesimo, il vero errore interno alla storia tedesca da cui Hitler voleva liberare la Germania. E' proprio in quel modo, segnato dal nazismo, che il mondo cristiano ha compreso meglio il senso della storia ebraica separata dalla Chiesa dopo il Cristo, come custode della differenza stessa del cristianesimo rispetto a tutte le forme di neopaganesimo totalizzante. Sarebbe giusto che venisse potenziato, nel dialogo cristiano ebraico anche il ruolo del Cristianesimo visto in continuità con l'ebraismo: che cioè avvenisse il passaggio reciproco a quello che sta avvenendo ora nel mondo cristiano per comprendere la permanenza di Israele dopo il Cristo.Un vero problema dottrinale e culturale che dovrebbe essere in parallelo al riconoscimento da parte di Israele di quella sorgente ebraica nel mondo non ebraico che è data dal fatto cristiano. Il viaggio del Papa è stato più problematico di quello del suo predecessore, ma ha anche offerto un quadro bilanciato e non unilaterale dei rapporti tra il mondo cristiano e il mondo ebraico."

Duque de Gandìa ha detto...

«DOV'ERA DIO?»

QUEGLI INTERROGATIVI DEL PAPA


Gianfranco Ravasi

Una sera, al ritorno dai lavori forzati, gli internati di un lager nazista scoprono sul piazzale interno tre impiccati. Sono due adulti e un bambino, "l'angelo dagli occhi tristi". Le guardie costringono i prigionieri a guardare in faccia gli impiccati, come monito contro ogni velleità di ribellione. I due adulti sono già morti: il ragazzo è ancora vivo, la lingua rossa gli fuoriesce dalle labbra e gli occhi non sono ancora spenti. Ecco, allora, la terribile domanda di uno dei prigionieri: "Dov'è il buon Dio? Dov'è?".
Mentre ascoltavo le domande di Benedetto XVI ad Auschwitz ("Dov'era Dio in quei giorni? Perché Egli ha taciuto? Perché ha potuto tollerare tutto questo?"), spontaneamente mi è venuta davanti agli occhi la scena che Elia Wiesel aveva evocato nel suo noto romanzo "La notte" con lo stesso implacabile interrogativo. Un interrogativo che ha tormentato i credenti al punto tale da aver dato avvio a un modello di pensiero detto appunto "la teologia dopo Auschwitz". Una domanda che sembra infrangersi davanti alle porte del palazzo della trascendenza di Dio e lasciare la creatura umana sconcertata e abbacinata.
Ho qui davanti un fascio di ritagli dei giornali italiani e stranieri sulla visita del Papa ad Auschwitz. Tante sono le questioni affiorate, come è stato testimoniato anche dal nostro giornale, ma su questo problema così radicale si è solo balbettato qualcosa. E giustamente, perché chi ha diritto di interpellare Dio è solo Giobbe o quell'antico orante ebreo del Salmo 44, citato dal Papa, che era stato "messo a morte, considerato solo come carne da macello", oppure le vittime di Auschwitz. Loro solo possono persino rasentare la soglia della blasfemia, protestando contro un Dio che pare sordo e indifferente alle sue creature come un imperatore impassibile, "un leopardo che affila gli occhi", un gener ale trionfatore, per usare le terribili immagini giobbiche.
Sì, questo dev'essere per noi il tempo del silenzio, un silenzio che sarebbe da imporre anche ai teologi chiacchieroni, convinti di essere in grado di allestire una difesa d'ufficio per il loro Signore, incapaci di rispettare il mistero del "Dio nascosto", misterioso, cantato da Isaia (45, 15).
Eppure questo può essere anche il momento di una parola. È una confessione: prima di mettere Dio sul banco degli imputati, bisogna ricordare che quell'orrore nasce dalle mani dell'uomo, da quella libertà che è dono mirabile ma che può essere un esplosivo dirompente. Dio ha preso sul serio questa qualità che ci ha assegnato creandoci. Non la smentisce per comodità sua e nostra, non ci blocca come un sasso a leggi obbligatorie e a meccanismi fissi quando traligniamo.
Eppure la sua non è un'assenza o un silenzio assoluto, anche se la sua voce è inascoltata dalle coscienze accecate e dalla libertà impazzita e impazzata. E alla fine una risposta Dio a suo modo l'ha data. Vorrei ancora ritornare a Wiesel: anch'egli era tra quei prigionieri e quando aveva sentito la domanda: «Dov'è il buon Dio? Dov'è?», aveva confessato: «Io sentivo in me una voce che rispondeva: "Dov'è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca!"». Paradossalmente quella dello scrittore ebreo è la risposta cristiana che sulla forca vede Cristo, il Figlio stesso di Dio che, rompendo l'isolamento perfetto della sua trascendenza, non è solo accanto alle vittime come un consolatore magnanimo, ma è lui stesso vittima e impiccato.
E, allora, valgono le parole di un altro martire dei nazisti, il teologo Dietrich Bonhoeffer, che nel lager di Flossenburg scriveva: "Dio non ci salva in virtù della sua onnipotenza. Egli ci salva in virtù della sua impotenza in Cristo Gesù crocifisso e morto". Lassù, infatti, sulla croce non cessa di essere Dio e quindi di essere Salvatore.
(AVVENIRE mercoledì 31 maggio 2006)

Duque de Gandìa ha detto...

Di Andrea Monda sul Foglio del 31 maggio 2006

Il 18 novembre del 1965, pochi giorni prima della conclusione del Concilio, Paolo VI annunciò al mondo l’avvio della causa di beatificazione dei suoi due predecessori: Giovanni XXIII e Pio XII. Il giorno dopo chiamò il padre gesuita Paolo Molinari, e gli propose di diventare postulatore di entrambe le cause ma il padre declinò l’offerta dicendosi disponibile solo per una delle due e proponendo per la causa relativa a papa Roncalli il padre Cairoli. Nella decisione pesò anche il parere del grande amico di Padre Molinari, il confratello Peter Gumpel: “Scegliemmo insieme per Pio XII, per una serie di motivi” ricorda oggi l’austero gesuita tedesco, “innanzitutto la causa di Giovanni XXIII era una causa relativamente semplice, il Papa aveva regnato per nemmeno cinque anni in un periodo di pace, a fronte dei diciannove anni tormentati di Pacelli che aveva conosciuto il fascismo, il nazismo e il comunismo, inoltre, mentre il favore popolare e mediatico di quest’ultimo era già stato incrinato dall’uscita nel 1963 de “Il vicario”, il dramma teatrale di Hochhuth, la popolarità, se mi permette questa espressione, di Roncalli era all’epoca fortissima e destinata a rimanere tale. Inoltre data la complessità della vita di Pacelli è stato positivo il fatto che tra me e padre Molinari parlassimo sette lingue e che io in particolare, essendo tedesco oggi di 82 anni conosca approfonditamente la storia della Germania del ’900”.
Pur criticando il discorso di BenedettoXVI ad Auschwitz, lo storico della chiesa Alberto Melloni, nota con sollievo che “viene meno l’equivoco secondo cui il Papa si accingesse a porre le basi teoriche di una beatificazione di Pio XII. Su questo punto il discorso di Auschwitz è felicemente esemplare, nel senso che non se ne parla affatto”.
Lei cosa ne pensa? “Ritengo che si tratti di due problematiche diverse, di due fatti completamente avulsi e non collegabili tra loro.
Non vedo alcun motivo per cui il Papa avrebbe dovuto parlare ad Auschwitz della causa di beatificazione di Pio XII”.
Sono oltre quarant’anni che padre Gumpel segue la causa di beatificazione di Pio XII di cui mi mostra la positio raccolta in quattro grandi volumi e me ne spiega il contenuto: “Nel primo volume di oltre mille pagine vi è la vita documentata di Eugenio Pacelli; nel secondo la cosiddetta informatio che invece di essere soltanto suddivisa secondo il criterio delle singole virtù come tradizionalmente avviene nelle cause dei santi cerca di rispettare l’unità della vita di PioXII senza spezzettarla in mille sfaccettature. E’ in questo secondo volume che viene sottolineato il suo influsso sul Concilio (più di 200 sono i richiami al magistero pacelliano nei documenti conciliari) e infine vengono evidenziati tutti gli attacchi e le relative confutazioni che in questi anni si sono accumulati sulla sua figura.
Il terzo volume contiene le deposizioni dei testi che sono ben 98, tra chierici e laici, dai cardinali ai vescovi fino al cameriere e all’autista. Infine l’ultimo volume raccoglie i documenti essenziali e la bibliografia composta da oltre 740 titoli sui 10.000 esistenti su Pio XII”.

E’ sul versante delle novità editoriali su Papa Pacelli che Padre Gumpel concentra la sua attenzione: “Il vento sta cambiando, lo dimostrano questi volumi per lo più americani e tutti molto recenti. A partire dall’intervista rilasciata dallo storico ebreo sir Martin Gilbert è fiorita una ricca pubblicistica tutta a favore di Pio XII . In particolare vorrei sottolineare che il saggio ‘The Myth of Hitler’s Pope’ del rabbino americano David Dalin apparso nel 2005 ha ricevuto una recensione elogiativa dalla rivista israeliana Jerusalem Post, per la prima volta favorevole al pontefice romano. Un altro piccolo episodio di cronaca mi conferma questa sensazione: il 27 aprile scorso un quotidiano israeliano aveva riportato la notizia che il custode di Terra Santa, padre Pizzaballa, aveva criticato Pio XII. Il primo maggio, dopo che, soprattutto negli Stati Uniti, si erano sollevate molte proteste, padre Pizzaballa ha smentito categoricamente.
E’ un piccolo episodio ma significativo”.

Padre Gumpel, insieme al forte accento tedesco, ha il dono della nettezza: “L’attacco a Pio XII è un attacco alla chiesa e alla sua autorità morale che ancora si rivela un punto di riferimento per oltre un miliardo di cattolici sparsi nel mondo. E’ questa autorità che dà fastidio, che viene messa sotto accusa, non la condotta del Papa durante la guerra, i suoi presunti silenzi o, peggio, la complicitàcomplicità col regime nazista, tutte assurdità spesso smentite dagli stessi accusatori.

Che l’obiettivo sia la chiesa contemporanea lo si capisce se si osserva da dove arrivano questi attacchi: a parte i comunisti ed ex comunisti, che ancora non perdonano a Pio XII la condanna e l’impegno speso in Italia anche a livello politico, le accuse più gravi provengono da ambienti massonici ostili alla chiesa, da alcune frange locali del mondo ebraico che trovano grande eco mediatica, e infine da qualche cattolico ultraliberale particolarmente critico della chiesa attuale e del presunto tradizionalismo di Giovanni PaoloII soprattutto in campo di morale sessuale”.
Padre Gumpel non si tira indietro fa anche i nomi: “Questo per esempio è il caso del sedicente cattolico ed ex seminarista John Cornwell, autore del saggio ‘Hitler’s Pope’ che però, e questo mi sembra doppiamente rivelatore, nel suo più recente volume ‘Pope in the Winter’ smentisce le precedenti accuse a Pio XII e attacca direttamente Giovanni Paolo II sui temi etici. Come a dire: è la chiesa di oggi il mio vero obiettivo. Insomma, il vento ha girato e il fatto che ciò avvenga negli Stati Uniti mi sembra un segnale incoraggiante: quando si arriverà alla beatificazione di Pio XII, e i tempi almeno per quanto riguarda la positio sulle sue virtù eroiche sono maturi, sono sicuro che ci saranno comunque delle polemiche ma inferiori a quelle del passato. La strada è ormai in discesa, siamo all’inizio della fine”.

Duque de Gandìa ha detto...

Sergio Soave
Il Foglio di martedì 30 maggio 2006:
"Ipocrisia e pregiudizio"
Se l’islam non è identificabile con la
minoranza fondamentalista, perché il
popolo tedesco è assimilabile a Hitler?

Benedetto XVI ha pronunciato nel tremendo panorama di Aushwitz un discorso che qualcuno, a cominciare da Furio Colombo ha accusato di “revisionismo”.
L’accusa è talmente infondata che non vale neppure la pena di confutarla: per farlo basta leggere il testo del discorso papale. Piuttosto è interessante analizzare le ragioni o i pretesti che vengono impiegati per attaccare il Papa. Si tratta, ovviamente dei temi di carattere storico e politico, non di quelli religiosi.
Il primo punto riguarda il fatto in sé, il pellegrinaggio del Pontefice tedesco nel luogo simbolo della strage del popolo ebraico. Joseph Ratzinger ha detto che, da tedesco, non poteva non venire qui, e in questo c’è la consapevolezza della responsabilità, di un “dovere davanti a Dio”. La lettura della storia di Benedetto XVI è improntata all’umiltà del fedele, “noi non possiamo scrutare il segreto di Dio – vediamo soltanto frammenti e ci sbagliamo se vogliamo farci giudici di Dio o della storia”, ma non è una lettura puramente provvidenziale. Sul popolo tedesco, ha detto “un gruppo di criminali raggiunse il potere mediante promesse bugiarde, in nome di prospettive di grandezza, di recupero dell’onore della nazione e della sua rilevanza, con previsioni di benessere e anche con la forza del terrore, cosicché il nostro popolo poté essere usato e abusato come strumento della loro smania di distruzione e di dominio”. Imputare a Ratzinger di aver voluto dar conto del percorso che portò i tedeschi alla catastrofe e all’abominio è un’operazione culturalmente e politicamente infondata. Se si rifiuta pregiudizialmente, giudicandola come una sorta di revisionismo giustificazionista, l’analisi delle cause che portarono alla vittoria del nazismo, resta solo un’interpretazione al limite del razzismo al contrario, che attribuirebbe ai tedeschi in quanto tali una pulsione irresistibile verso l’oppressione e persino lo sterminio di intere popolazioni.
In realtà le cose, storicamante, non stanno così.
L’antisemitismo razziale, che è cosa assai diversa dall’antigiudaismo religioso, ebbe larga diffusione in Francia, già ai tempi dell’affaire Dreyfus, per non parlare dei pogrom ricorrenti nell’impero zarista. Non ne fu esente neppure l’America, ove il grande industriale Henry Ford se ne fece portavoce e propagandista, e neppure il movimento operaio, al punto che Karl Marx definì l’antisemitismo“il socialismo degli imbecilli”.
Assistiamo così al paradosso di un Papa che storicizza, prendendosi ovviamente tutti i rischi culturali di questa operazione di razionalizzazione, contrastato da sostenitori di una visione che rifiuta di guardare ai caratteri concreti di un processo che ha portato alla peggiore catastrofe dell’umanità, leggendola quasi come un fatto metafisico.

Un processo iniziato col terrore giacobino

In un passo del suo discorso Ratzinger ricorda che i nazisti “con la distruzione di Israele volevano, in fin dei conti, strappare anche la radice, su cui si basa la fede cristiana, sostituendola definitivamente con la fede fatta da sé, la fede nel dominio dell’uomo, del forte”. Non si tratta soltanto della “volontà di potenza” della filosofia irrazionalista e della predicazione della “morte di Dio”, ma di un processo storico che viene da più lontano, almeno dal terrore giacobino e dell’idealizzazione della nazione “virtuosa” alla quale tutto, a cominciare dal senso di umanità, doveva essere sacrificato.
E’ curioso che negli stessi ambienti nei quali domina la lettura “politicamente corretta” del fondamentalismo islamico, quella che insiste nell’attribuire solo a “piccole minoranze” la scelta di una guerra santa contro l’occidente e Israele, si tenda invece a identificare senza residui tutto il popolo tedesco con il nazismo. Si è poi voluto imputare a Benedetto XVI anche il fatto di aver ricordato, insieme allo sterminio degli ebrei, quello subito da altri popoli. E’ davvero meschino non rendersi conto dell’importanza delle parole del Papa sullo sterminio dei Rom, popolo sottoposto tuttora a rischi di persecuzione in vari paesi, dalla Romania all’Ungheria. In generale quello che colpisce è il tentativo di trasformare una limpida e profonda assunzione di responsabilità del Papa tedesco nel suo contrario. Poiché questa operazione non ha basi razionali né storiche, se ne deve dedurre che nasca da un atteggiamento puramente pregiudiziale.

Duque de Gandìa ha detto...

Giorgio Israel
( Il Foglio di martedì 30 maggio 2006)
“Un gran discorso”
Perché, soprattutto da parte
ebraica, non si può addossare
una colpa a tutto un popolo

"C’è qualcosa di superficiale e di esagerato se, dopo un discorso meritevole di una riflessione distaccata e seria, come quello di Benedetto XVI ad Auschwitz, inizia una corsa alla dichiarazione sdegnata e all’invettiva.

Per ragioni di coerenza occorrerebbe tenersene fuori, se non fosse che certi argomenti sgangherati – e quindi pericolosi – meritano una risposta. Sono felice di sapere che una persona autorevole e rappresentativa come Marek Edelman abbia detto che “è stato un discorso di grande forza sentimentale ed emotiva”, aggiungendo: “Il Papa è venuto ad Auschwitz, e là sulla terra ancora bagnata dal sangue dei morti ha detto che Dio allora non era là. Che cosa doveva dire di più?”.

Sono felice di saperlo perché il discorso di BenedettoXVI a me è piaciuto e, come a Edelman, è parso “una eccezionale sequenza di emozioni per la Memoria di oggi”. Sono passati pochi decenni da quando autorevolissime voci della chiesa auspicavano come una “liberazione” la morte di tutti i giudei e interpretavano Auschwitz come “conseguenza dell’orribile delitto che perseguita il popolo deicida ovunque e in ogni tempo”. Oggi la massima autorità della Chiesa dice che i nazisti “con la distruzione di Israele volevano strappare anche la radice su cui si basa le fede cristiana”.
Misuro questa distanza e sono colpito e commosso dallo straordinario passo avanti
che è stato compiuto.
Si è detto che il Papa ha parlato troppo del silenzio di Dio e poco delle colpe degli uomini. Dai Salmi citati dal Papa al Libro di Giobbe, il tema del silenzio di Dio percorre tutto l’Antico Testamento e le riflessioni del pensiero religioso ebraico. “Non ti farai idoli davanti alla Mia faccia”, dice il secondo comandamento; e un midrash lo interpreta nel senso: “Quale che sia il volto che Io ti presento, per quanto esso possa essere per te incomprensibile e anche terribile, tu non dovrai rinnegare la fede in Me”. Mille riflessioni sono state e possono essere sviluppate su questo tema. Perché mai esse escluderebbero il tema delle colpe degli uomini?

L’insostenibile accusa di revisionismo

Abbiamo letto sull’Unità che il Papa si è reso colpevole di revisionismo per non aver menzionato le responsabilità collettive del popolo tedesco. Si tratta di una critica priva di fondamento sotto il profilo morale e storiografico.
Dal punto di vista morale, rendere un intero popolo responsabile di una colpa collettiva è un’aberrazione in cui soprattutto gli ebrei – vittime del mito del deicidio – non possono cadere. Essi debbono essere fedeli al precetto del Deuteronomio secondo cui nessuno può essere punito se non per il proprio delitto. Durante la cena della Pasqua ebraica è d’uso leggere un “rituale della rimembranza” della Shoah, in cui si parla di coloro che furono sterminati “da un tiranno malvagio” e dagli “esecutori del suo perfido progetto”. Sembrano le parole del Papa.

Per quanto estesa sia la responsabilità, essa resta soggettiva e non può essere estesa al concetto di responsabilità collettiva di un “popolo” – concetto eminentemente razzista. Nessuno può responsabilmente parlare di responsabilità collettiva del popolo italiano per il fascismo, o dei popoli sovietici per i crimini dello stalinismo. L’entità del coinvolgimento della popolazione tedesca nella Shoah – così come di altre popolazioni in altri crimini di massa – è una questione eminentemente storiografica che deve essere mantenuta su questo terreno e non può essere usata come una mazza per condanne morali. Porre la questione nei termini: “O dici che tutti erano responsabili oppure sei corresponsabile morale”, è un ricatto inaccettabile che uccide ogni possibilità di libera riflessione. E’ assolutamente sconcertante che l’attacco a pretese interpretazioni riduttive dell’adesione del popolo tedesco al nazifascismo venga da pulpiti che per decenni hanno propinato una storiografia secondo cui il fascismo in Italia era opera di pochi mascalzoni che erano riusciti a irreggimentare un intero popolo che vibrava di sentimenti antifascisti repressi dal tallone dei tribunali speciali. Il peso di questa storiografia è tale che ancor oggi viene demonizzato come “revisionista” Renzo De Felice, per aver messo in luce l’entità dell’adesione degli italiani al fascismo. E ci tocca leggere uno scritto di Furio Colombo – evidentemente ignaro di quanto in Germania sia stato approfondito il tema delle colpe del nazismo, senza reticenza e in modo persino spietato, come qui non ci siamo neppure lontanamente sognati di fare, viste le recenti vergognose reazioni al libro “I redenti” di Mirella Serri, perché ha osato ricordare i trascorsi antisemiti di alcuni mostri sacri dell’intellettualità italiana – che si permette di parlare di “molti cittadini tedeschi” che avrebbero trovato “una scorciatoia per non convivere con un passato vergognoso”, magari “parlando più di Stalin che di Hitler”. Di certo, Colombo di Stalin ha poca voglia di parlare, visto che riesuma una logora retorica su chi ha abbattuto i cancelli di Auschwitz, come se il merito tecnico di essere arrivati per primi contasse di più del trattamento criminale che Stalin riservò agli ebrei resistenti.
E’ comprensibile l’attenzione spasmodica con cui, da parte ebraica, si analizza ogni affermazione concernente la Shoah. Ma essa non giustifica un atteggiamento che, anziché guardare al senso generale di certe affermazioni, indugia su dissezioni meticolose e persino cavillose (Quante volte è stata pronunziata la parola Shoah? Perché non è stato pronunziato il nome di Hitler?).

Del tutto inaccettabile è poi pretendere che quando si parla di Shoah sia vietato persino accennare a ogni altro crimine di massa: in tal caso, spesso non è più l’ebreo che parla ma l’inconsolabile vedova del comunismo."