venerdì, agosto 25, 2006
Sacra Conversazione /8
Sul Foglio di giovedì 24 agosto 2006, l'ateo devoto Ruggero Guarini discetta di Cristo e di Maometto.
Ovvero:"SULLA TESTIMONIANZA DELLA FEDE, L’ALDILÀ E L’IRONIA LE DUE RELIGIONI HANNO CONCEZIONI ASSOLUTAMENTE INCONCILIABILI".
«Sulla differenza che passa fra Cristo e Maometto [...] qualche timida glossa su tre temi che giudico essenziali ai fini di qualsiasi riflessione sulla differenza evocata.
I tre temi a cui mi riferisco sono il martirio, la morte e il riso. Incominciamo dal primo, che è anche quello che a ogni cristiano credente dovrebbe sembrare decisivo. Ma che tale sembra anche a me, che appartengo alla specie dei cristiani non credenti.
A proposito dunque del martirio: è da un pezzo che mi chiedo perché mai né questo Papa né il suo predecessore hanno avvertito il bisogno di emanare su questo argomento un’enciclica all’altezza della straordinaria gravità che il tema ha assunto oggi.
All’alba di un secolo ormai sfregiato per sempre dalle imprese del terrorismo islamista ci sono forse compiti più urgenti, per la chiesa, della lotta contro l’empia concezione del “martirio” che glorifica e fomenta lo stragismo suicidario? Certo la chiesa, su questo argomento, ha già detto tutto fin dai tempi in cui l’autore dell’Apocalisse, definendo Cristo “il testimone fedele”, decretò implicitamente che “martirio” vuol dire affrontare la propria morte (non quella altrui) per “testimoniare la fede”. Ora però che va molto di moda, fra i nostri cuginetti maomettani, quell’orribile idea di “martirio” che consiste nel votarsi simultaneamente al suicidio e al massacro, non sarà forse il caso di proclamare alto e forte (non in una comune omelia ma in uno di quei documenti del “magistero ordinario” che sono appunto le encicliche) che non si tratta di martiri bensì di indemoniati?
Si dice che la chiesa esita a farlo per evitare che la collera di Allah si abbatta sui suoi figli, specialmente su quelli sparsi nel mondo islamico. Ma esitare a condannare apertamente come diabolica una così aberrante concezione del “martirio” non comporta la tacita rinuncia a testimoniare la propria?
Mai come in questo caso sarebbe comunque opportuno che la chiesa tornasse a parlare del Diavolo. Potrebbe farlo del tutto legittimamente, visto che non ne ha ancora mai negato l’esistenza. Anzi negli ultimi tempi ne ha spesso evocato il potere per segnalare insidie molto meno manifestamente demoniache del “martirio” in salsa maomettana. O si preferisce pensare che quella pratica ributtante che è la produzione in serie di angioletti-bomba programmati fin dall’infanzia per volarsene al più presto nel paradiso di Allah facendosi saltare in aria con un bel grappolo di infedeli non sia abbastanza infernale per meritare un’enciclica che vi riconosca
l’opera del demonio?
Non meno abissale della differenza fra la loro idea di martirio e il martirio cristiano è quella fra il loro sentimento della morte e il nostro. Del coraggio con cui i terroristi islamici affrontano la morte si dice sempre che nasce dalla certezza di meritarsi il cielo col martirio. Già: ma che genere di cielo?
Un cielo di eterna pace o un cielo di eterna guerra?
Nell’aldilà musulmano c’è spazio sia per l’uno che per l’altro.
L’immagine canonica del primo è il paradiso descritto nella sura 52 del Corano: un giardino in cui tutti i maschietti di provata fedeltà ad Allah se la spassano dalla mattina alla sera con sciami di bellissime fanciulle dette “huri”, liete dispensatrici di incessanti voluttà.
L’immagine più classica del secondo è quella del giudizio universale. Che anche nell’islam, come in tutte le religioni, spacca la massa dei morti nei due gruppi dei beati e dei dannati. Assumendovi, però, un aspetto bellicoso che nelle altre religioni è assai meno accentuato.
Qui i due gruppi contrapposti sono infatti presentati come due schiere votate a una perpetua battaglia. Il loro destino, per sempre diviso, è cioè quello di combattersi a vicenda per tutta l’eternità. La guerra santa, insomma, continua anche nell’aldilà.
Quale di questi due cieli (quello di eterna pace promesso dalle huri o quello di eterna guerra annunciato dalla tromba del giudizio) alletta maggiormente il terrorista islamico?
La parola agli esperti del ramo Psiche & Fede.
Che prima di rispondere al quesito dovrebbero comunque esaminarlo alla luce del famoso predicozzo che Maometto, dopo la battaglia di Bedr, prima sua grande vittoria sui suoi rivali della Mecca, tenne ai nemici morti. Ai quali si rivolse, tuttavia, solo dopo averli fatti gettare in una cisterna. Perché questa precauzione? Il Profeta temeva forse che quei defunti, durante il suo sermoncino, potessero tornare a contraddirlo? O pensava che quegli infami, che quando erano vivi avevano sempre respinto la sua parola, adesso che erano morti si sarebbero invece decisi ad apprezzarla, e che l’avrebbero ascoltata meglio se invece di restare sparpagliati sulla sabbia, si fossero ammucchiati tutti insieme in fondo a una cisterna?
La parola agli esperti del ramo Profeti & Cadaveri.
Ma ecco come Ibn Ishak, il primo biografo di Maometto, riferisce l’episodio: “Dopo la battaglia, Maometto fece gettare in una cisterna i nemici uccisi.
Solo uno di essi fu sepolto sotto terra e pietre poiché era tanto gonfiato che non gli si poteva facilmente levare la corazza. Così rimase solo e lo si lasciò a giacere. Appena gli altri furono gettati nella cisterna, Maometto vi si pose dinanzi e gridò: ‘O voi, uomini della cisterna! Si è compiuta la promessa del vostro Signore? Io ho trovato vera la promessa del mio!’ I suoi compagni allora dissero: ‘Oh, inviato di Dio, ma sono cadaveri!’cadaveri!’ Maometto, rispose: ‘Essi sanno lo stesso che la promessa del Signore si è compiuta’”.
A questo edificante episodio Elias Canetti, in una pagina di “Masse e potere”, dedica queste sobrie osservazioni: “Così egli ha radunato coloro che prima non volevano ascoltare le sue parole. Nella cisterna essi sono ben sistemati e stretti gli uni agli altri.
Non conosco alcun esempio più impressionante di questo resto di vita e di questo carattere di masse attribuiti al gruppo dei nemici morti. Essi non minacciano più, ma possono ancora essere minacciati. Ogni infamia verso di loro rimane impunita. Ne abbiano o meno la percezione, si suppone che essi effettivamente se ne accorgano, perché così si può meglio innalzare il proprio trionfo”. Lo stesso Canetti, in un altro suo libro (“La provincia dell’Uomo”) scrisse che “nell’islam il comando di Allah ha in sé molto di una condanna a morte”. Dal che ognuno può dedurre che il cielo che hanno in testa i terroristi islamici, sia esso un cielo di eterna pace o un cielo di eterna guerra, è innanzitutto un cielo di eterna morte.
Per scorgere infine l’abisso che separa Cristo da Maometto anche nell’attitudine al riso basta tornare a chiedersi quando, dove e perché esplose la prima guerra fra musulmani ed ebrei. Sospetto tuttavia che la vicenda sia nota soltanto a pochi esperti del ramo Maometto & Cº.
Io stesso, del resto, l’ho appreso soltanto di recente, leggendo l’eccellente saggio su Maometto di Maxime Rodinson (“Maometto”. Einaudi 1995, pp. 348, euro 8,50). Eppure l’episodio (che Rodinson riferisce riassumendo il racconto riportato nella prima biografia ufficiale del Profeta: quella redatta nell’ottavo secolo dallo storico arabo Ibn Ishak) è fragorosamente gravido di senso.
Correva l’anno 622. Il primo, cioè, dell’Egira.
L’anno dunque del trasferimento di Maometto e dei suoi primi seguaci dalla Mecca, dove erano stati a lungo osteggiati e derisi, nella città-oasi di al-Madinah (la Medina), dove furono accolti garbatamente dai diversi gruppi religiosi (ebrei, cristiani, pagani) che da un pezzo vi convivevano in santa pace. I primi due anni passarono senza incidenti.
La predicazione del Profeta, il suo inflessibile monoteismo, la sua implacabile lotta contro le tre dee femminili allora venerate da tutti gli arabi insieme ad Allah, non suscitarono alcuna protesta.
I medinesi, insomma, si rivelarono assai tolleranti.
Ma a rovinare tutto provvide un bel giorno un semplice pezzo di stoffa: quel velo che Maometto (il quale aveva in orrore, com’è noto, le audacie vestimentarie delle infedeli) aveva subito imposto alle donne convertite alla sua fede.
L’incidente avvenne nel suk, presso la botteguccia di un orafo ebreo. Arriva una donna beduina, naturalmente velata, e alcuni ragazzi ebrei, prendendola un po’ in giro, la invitano a togliersi il velo. La donna protesta. I ragazzi insistono. L’orefice, inoltre, le fa lo scherzo barbino di fissarle a terra, di soppiatto, un lembo della veste. Sicché, quando lei fa per andarsene, la sottana si strappa lasciandola col didietro scoperto. La donna si mette a urlare invocando vendetta.
Un maomettano accorre e ammazza l’artigiano. Arrivano altri ebrei e ammazzano il maomettano. Mentre la zuffa si allarga altri arabi corrono ad avvertire il Profeta. Questi s’infuria, minaccia di far massacrare tutti gli ebrei dell’oasi e provoca in tal modo lo scoppio della prima guerra araboebraica.
Che dopo una serie abbastanza convulsa di scontri, agguati, battaglie e massacri, si concluderà con l’espulsione di tutti gli ebrei e il trionfo dei maomettani. I quali diventarono così i nuovi padroni della Medina, ossia della stessa città che soltanto tre anni prima li aveva accolti benignamente come fuggiaschi sprovvisti di tutto e bisognosi di comprensione e di aiuto.
Tutto dunque incominciò con uno scherzo.
E con l’incapacità del Profeta e dei suoi seguaci di sopportarlo. Giacché a provocare i massacri gli scherzi da soli non bastano. Occorre il contributo di qualcuno che sia ben deciso a far progredire la Storia opponendo la serietà dell’eccidio alla fatuità del dileggio, la dignità della strage alla frivolezza dello scherno, la gravità del bagno di sangue alla leggerezza della beffa. Spremendo insomma sangue dai pernacchi. E magari dalle vignette. Il che richiede – è evidente – gusti intellettuali, estetici e morali bissalmente diversi da quelli che oggi permettono al nostro povero Gesù di Nazareth di sorridere cristianamente di un mondo che pur professandosi cristiano, e onorandolo in innumerevoli forme, e dedicandogli affettuosissime cure, non soltanto sacre ma anche profane, tuttavia non soltanto permette che si dubiti del suo supposto rango divino, ma anche di contestare le sue pretese teologiche, e a volte persino di farsi beffe del suo messaggio».
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