Ovvero: "L'eminenza grigia" e "L'abate arcobaleno"
"L'Abate ci ha lasciato alle 05:25" così Martin Hirsch, presidente di "Compagnons d'Emmaus", ha annunciato la morte dell' Abbè Pierre: da tutti definito il simbolo del cattolicesimo francese; il «prete della Repubblica» come veniva anche apostrofato.
Ed in vero, il defunto cappuccino, al secolo Henri Groues, è stato la prosopopea di un cattolicesimo che si declina come solidarietà, un cristianesimo che è vero e "puro" solo se è sinonimo di "spirito umanitario", che pertanto rifugge da ogni "sovrastruttura" dogmatica.
Il novantaquattrenne religioso è deceduto all'alba di lunedì 22 gennaio 2007 nell'ospedale Val de Grace di Parigi dove dal 15 gennaio precedente era stato ricoverato per una infezione polmonare.
Il presidente Jaques Chirac, si è fatto voce del cordoglio della Nazione per l'uomo più amato di Francia e che per i suoi indubbi meriti umanitari era stato insignito della Gran Croce della Legion d'Onore: "Tutta la Francia è profondamente commossa. Abbiamo perso un'immensa figura, una coscienza, un uomo che impersonificava la bontà. Sacerdote impegnato nella Resistenza e la lotta in favore di diseredati, l'abbè Pierre ha fatto parte di tutte le lotte giuste"
L'eminentissimo cardinal vice-decano Roger Etchegaray, suo concittadino nonchè abilissimo diplomatico ha dichiarato: "La gente lo apprezzava e si riconosceva in lui e anche se non era perfetto, si può considerare un discepolo del Vangelo. Una persona che ha messo in pratica la carità e l'amore".
Esce, pertanto, dalla scena di questo Mondo, tra mille applausi e qualche critica, il cappuccino più famoso nella Storia di Francia, ovviamente, subito dopo il padre Giuseppe da Parigi.
1 commento:
Epitaffio di Maurizio Crippa sul Foglio di martedì 23 gennaio 2007:
IL FRATE DEI POVERI CHE PIACEVA ANCHE ALLA LAICA FRANCIA
"Un homme de combat”. Lo ha detto persino Nicolas Sarkozy, non proprio un profeta dei diseredati delle banlieue. Ma i francesi amano i grand’uomini, anche in versione sant’uomini, figurarsi uno che l’anno scorso s’era piazzato terzo in un sondaggio sul “più grande francese di ogni tempo” dietro a De Gaulle e Pasteur.
Così anche Jacques Chirac non s’è tirato indietro: “Rappresenterà sempre lo spirito rivoluzionario contro la miseria, la sofferenza, l’ingiustizia”.
Ai grand’uomini, anche in versione sant’uomini, si possono pure perdonare le scivolate. Così oggi quasi nessuno in Francia insiste su quella brutta faccenda del 18 aprile 1996, quando l’Abbé Pierre aveva già ottantaquattro anni e il suo grande amico di una vita Roger Garaudy – ex gauchiste di recente conversione all’islam versione radical-negazionista – si presentò in rue de Scribe accompagnato da Jacques Vergès, vecchia pellaccia d’avvocato per anime nere, per difendere dalle accuse di antisemitismo il suo libro “I miti fondatori della politica israeliana”. Garaudy cavò di tasca una lettera di accorato sostegno firmata dal suo amico, l’Abbé Pierre: “Ti prego di trarre da queste righe la forza e l’amicizia della mia affettuosa stima e del mio rispetto per l’enorme lavoro del tuo nuovo libro. Confonderlo con quello che fu chiamato ‘revisionismo’ è un’impostura, una vera e propria calunnia da incoscienti”.
Poi anche i nemici giuratigli riconobbero le attenuanti generiche, non aver letto il libro ed essere stato mal consigliato da alcune persone del suo ambiente che un settimanale collocò tra i superstiti del “brigatismo rosso italiano alla deriva”.
Il buon frate cappuccino incassò anche le reprimende del cardinale Lustiger, e alla fine fece ammenda e dietrofront.
Del resto la chiesa francese, figlia prediletta, quando si guarda indietro, in queste materie non sempre ritrova idee chiare e distinte, e a volte fa pasticci maggiori di quelli dell’Abbé.
E allora perché prendersela con un frate cappuccino che durante la guerra era stato arrestato dai tedeschi e aveva partecipato alla resistenza dandosi da fare per salvare ebrei e perseguitati politici?
E come si fa ad appendere a un episodio novantaquattro anni di vita di un uomo folgorato da san Francesco all’Eremo delle Carceri a soli sedici anni, tanto da entrare nella clausura dei cappuccini, non dopo aver distribuito ai poveri la sua parte di eredità, lui nato benestante, quinto figlio di un mercante di seta di Lione.
In realtà, quel che dell’Abbé Pierre, al secolo Henri Antoine Grouès, ha sempre diviso animi e anime è stata la sua vocazione contestataria dentro la chiesa e la società.
La chiesa degli anni Cinquanta versava in Francia in condizioni non migliori di quella italiana. E non è singolare che il percorso – zigzagante – tra la resistenza, la politica e la tonaca sia stato una caratteristica peculiare di molti spiriti profetici del cattolicesimo di quella generazione. Così, dopo la Liberazione, sulla strada di casa, aveva deciso di non tornare in clausura e di dedicarsi a mettere su case per i senzatetto.
Per poi diventare anche deputato all’Assemblea nazionale, per poi uscirne ben presto “disgustato” e tornare al suo Vangelo e ai suoi poveri. Per l’Abbé Pierre, la data del 1954 – quando rivolse alla nazione il suo famoso appello per aiutare i senzatetto di Boulevard Sebastopole – fu insomma molto di più dell’inizio di una pastorale della strada; era l’inizio di una spiritualità diversa.
E se i senzatetto a Parigi ci sonoancora, cinquantadue Natali dopo, erano diversi i tempi della chiesa. Erano i tempi esperienze di vita comunitaria che “sbocciavano dai semi di un desiderio di Vangelo più autentico”. In cui la “giovane chiesa” sognava i luoghi dove quei semi sembravano sbocciare: come Taizé, la comunità ecumenica fondata in Francia da Frère Roger che, assieme all’Abbé Pierre e alla sua Comunità Emmaus, oggi diffusa in cinquanta paesi, diventò presto il mito in versione cristiana del “vento francese”.
E’ stato, l’Abbé Pierre, uno dei testimoni di quel cristianesimo “rinnovato”. Era anche l’onda d’urto di una chiesa che, per amare i poveri, si avviava in più d’un caso a perdere la Trebisonda per il pauperismo, e a varare scandalose amicizie con filosofi della gauche, come accadde tra l’Abbé e Garaudy.
Un’onda d’urto che, per amore dell’amore universale, in qualche caso perse la Trebisonda anche per una sottana. Lo confessò l’Abbé, ormai novantaduenne, in un libro di memorie, e lo scandalo ci fu solo per quelli che volevano che scandalo fosse.
Ma ai grand’uomini, agli homme de combat, è concesso ogni tanto scivolare: sul libro maledetto di un vecchio amico o su un libro di memorie che meritava più silenzi.
Prima di scivolare “nell’infinità dell’Amore del Padre”, come gli ha augurato il presidente della Conferenza episcopale francese, il cardinale Jean Pierre Ricard."
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