martedì, luglio 31, 2007

Sonetos Fùnebres, XV



In festo Sancti Ignatii de Loyola - Propongo qui di seguito un tornito ritratto del "Generale" Pedro Arrupe eseguito da Maurizio Crippa
(Il Foglio, sabato 28 aprile 2007)

Ovvero: IL GESUITA TROPPO OTTIMISTA

"...Nel marzo scorso (2007, ndr) la Congregazione per la Dottrina per la fede ha reso nota la condanna di alcune tesi “erronee e pericolose” di Jon Sobrino, gesuita di San Salvador di origine basca e ultimo mohicano della teologia della liberazione.
Oggi il problema principale per la chiesa latinoamericana non è certo la deriva marxista (preoccupa di più la legalizzazione dell’aborto in Messico) e la condanna di Sobrino potrebbe apparire un po’ un accanimento su un reduce. Non fosse che la marginale vicenda del professore gesuita è l’ultima eco di una stagione ecclesiale e teologica che ha sconquassato la chiesa, non solo in Sudamerica, e in modo particolare la Compagnia di Gesù, la milizia scelta dei Papi.

Sullo sfondo si staglia ancora oggi, tutta da indagare, la figura di un altro gesuita basco. Per la precisione il secondo basco a guidare l’ordine, il padre generale del quale i suoi numerosi nemici interni dicevano “un basco ha fondato la Compagnia, un basco la chiuderà”: il padre Pedro Arrupe.

Appassionato di musica, conoscitore di sette lingue, animatore infaticabile e viaggiatore pellegrino nelle più remote province, spirituale e a suo modo romantico, Arrupe era stato in precedenza missionario per ventisette anni in Giappone e testimone della bomba atomica.
Ma è all’America Latina – intesa come idealtipo della terra di missione, del continente dei poveri da privilegiare, del luogo provvidenziale in cui alla chiesa è offerta l’occasione di riscattare se stessa dai suoi compromessi con la Ricchezza e il Potere – che è legato il suo nome e molta parte del suo lungo e controverso “generalato”.


Padre Arrupe riposa dal 1993 nella chiesa del Gesù, ed è noto ai più come intestatario del Centro di accoglienza per rifugiati politici di Roma, o dell’Istituto di formazione politica palermitano da cui, negli anni bui delle guerre di mafia e della stagione degli onesti, pontificavano, nella caricatura nostrana della teologia della liberazione, i gesuiti del padre Bartolomeo Sorge.

Eppure ci fu un tempo in cui il ventisettesimo successore di Ignazio si guadagnava le copertina di Time e dello Spiegel come “uomo dell’anno”, rilasciava interviste ai giornali di tutto il mondo, parlava con l’autorevolezza (e l’audience) che si addicono a un Papa nero. Il primo Papa nero a comparire in televisione, suscitando non poche perplessità dei confratelli per una lunga intervista a ruota libera concessa, poco dopo la sua elezione, a Ugo Zatterin per “TvSette”.

Uomo mite, aperto, coinvolgente e generoso, è stato Preposto generale della Compagnia di Gesù dal 1965 al 1983.
Lo era diventato a sorpresa, eletto dalla trentunesima Congregazione generale, il “conclave” dell’ordine, il 22 maggio 1965, mentre il Concilio ancora era aperto. “Gli stessi gesuiti che lo votarono erano convinti di aver eletto un robusto conservatore”, disse anni dopo padre Sorge.
Di certo la sua elezione fu “un segno di forte discontinuità e di rottura con le aspettative e i desiderata dell’establishment curiale romano e all’interno dello stesso ordine”, scrive lo storico Gianni La Bella.
Del Vaticano II era stato protagonista vivace, seppure non di primissimo piano (intervenne sul tema della lotta all’ateismo, suscitando brividi tra i tradizionalisti e pure tra i moderati).
Dell’“attuazione del Concilio” – “il nuovo inizio” – dentro il suo ordine e nella chiesa fece la sua missione. Ne fu propugnatore spirituale indefesso, sincero, radicale, generoso, profetico. Ottimista.
Una lunga teoria di aggettivi che compaiono più volte nei ventisei saggi che compongono il corposo volume (1084 pagine) edito dal Mulino, “Pedro Arrupe – Un uomo per gli altri”. Non una biografia, ma un mosaico di voci – studiosi e gesuiti testimoni dei fatti – che dopo l’esaustiva introduzione di Gianni La Bella rileggono vita e opere del generale che ha segnato il periodo più controverso e drammatico della Compagnia dal tempo della sua ricostituzione, nel 1814.

Un contributo importante per ricostruire “una figura chiave del post-Concilio” e anche per chiarirsi un po’ le idee su come andarono le cose dentro la chiesa, scossa dalle fondamenta dal vento del Vaticano II. Perché il padre Arrupe è stato un autentico paradigma della chiesa conciliare. Così come la crisi che attraversarono con lui i gesuiti è un paradigma di quanto avvenne in pressoché tutti gli ordini religiosi.
La Bella scrive che, “contrariamente a quanto spesso sostenuto”, Arrupe non è “il liquidatore” dell’ordine, il suo “esecutore testamentario”. Ma è lo stesso autore a spiegare che “la compagnia che Arrupe eredita all’inizio del suo mandato è all’apogeo della sua forza e del suo splendore”. Trentaseimila sacerdoti, il maggior numero mai raggiunto, presenti in cento paesi, quattromila scuole, università, case editrici. Un ordine potente e influente, i cui membri sono attivi in qualsiasi campo della vita sociale, ecclesiale, culturale, dalla filosofia all’astrofisica. Eppure, quando Arrupe ne la lascerà la guida, sarà a un passo dalla catastrofe.

Non tutta colpa del generale, certo: Lo splendore degli anni Cinquanta, “questa uniformità, omogeneità e compattezza” è secondo La Bella “sotto molti aspetti soltanto apparente”. I gesuiti erano un secolare albero le cui radici iniziavano a inaridirsi. Arrupe giunse alla guida dell’ordine “dominato da un’ansia di rigorosa e pura, autentica fedeltà agli insegnamenti del fondatore” e con la determinazione di rifondarlo, perché “ciò che è inutile cessa di avere una ragione di essere”. La sua è una “spiritualità antica”, con grande energia, enfasi e sincerità sprona i suoi a tornare alla radici: “Questo bisogna fare: presentare alla Compagnia la situazione nella quale essa si trova nel mondo reale”.

Rimette al centro Ignazio, così come i padri conciliari rimettevano al centro le Scritture e il Vangelo. “Ritorno alle fonti del proprio carisma e adattarsi alle mutevoli condizioni dei tempi” è il suo programma. Una vitalità integerrima, che agisce in varie direzioni: rivitalizzare la vita spirituale dell’ordine; rafforzare il compito della missione alservizio della “nuova chiesa” del Concilio; attuare quella “scelta preferenziale per i poveri” che sembra esserne la sintesi teologico-politica.

E’ un convinto assertore dell’“apertura al mondo”. Al lavoro interno affianca iniziative di grande respiro mediatico. Si batte per la pace, fonda il Jesuit Refugee Service, è in prima fila nelle campagne internazionali contro gli armamenti e contro la povertà. E’ a favore di quella della chiesa (“il contributo più sicuro e più necessario che noi possiamo dare alla riforma della chiesa universale, dice Sant’Ignazio, è di procedere il più possibile sprovvisti di cose”).

La sua è una visione spirituale e ottimista a un tempo: “Dentro, come fuori dalla chiesa, esistono segni di un rinnovamento che condurrà a un futuro migliore per il mondo e per la chiesa”, scrive, spronando a mettersi “al servizio” di questo movimento virtuoso della storia.
Ma è proprio l’esito di questa sua visione, di questa sua cura sincera per il mondo e per i suoi che, letto con gli occhiali della storia, appare oggi anche ai più benevoli esegeti del suo generalato come una sorta di enorme fraintendimento.
Come una delle più colossali eterogenesi dei fini mai realizzatesi nella storia della chiesa.

Investito dal vento del Concilio, Arrupe ne finì travolto fino al totale fallimento, simboleggiato dalla malattia che lo colpì negli ultimi anni, ma soprattutto sancito dalla doppia censura di due Papi (Luciani e Wojtyla), costretti loro malgrado a mettere le mani dove non avrebbero voluto, pur di salvare il salvabile dell’ordine che Paolo VI considerava, nonostante i dolori e i grattacapi che gli dava, una “colonna della chiesa”.

La grande accelerazione di cambiamento che Arrupe impresse alla Compagnia portò presto alla frattura tra conservatori e suoi progressisti, ma anche il “centro moderato” rimase perplesso e divenne sempre più critico. Arrupe fu accusato, più ancora che per le idee progressiste, prima ancora che per l’eccesso di visibilità pubblica, per la mancanza di chiarezza e di energia nel governo dell’ordine. Il suo stile improntato al dialogo personale, al “discernimento comune”, all’autorità “come servizio”, ebbe in quegli anni turbolenti l’effetto di un “liberi tutti” che non avrebbe potuto essere più deleterio. E non avrebbe potuto essere più lontano, soprattutto, dallo spirito e dalla tradizione dell’ordine abituato all’obbedienza “perinde ac cadaver”.

Fu soprattutto sul fronte dell’impegno teologico-politico che il “liberi tutti” divenne devastante, in un periodo in cui il cambiamento faceva premio sulla dottrina, in cui il marxismo faceva breccia ovunque.
Per un ordine così costituzionalmente impegnato nell’evangelizzazione dei paesi lontani e poveri, la tentazione della teologia della liberazione fu forte.
Arrupe non è imputabile di aver condiviso o benedetto questa deriva, che anzi contrastò con nettezza, se non proprio con efficacia. Ma è certo che le sue prese di posizione, come la famosa “Lettera sull’apostolato sociale” indirizzata nel 1966 ai gesuiti dell’America Latina (“l’enciclica di Arrupe”, la salutarono i mass-media) furono determinanti per il clima politico ed ecclesiale di quegli anni.
Nemmeno si possono contestare la buona fede e il contributo che i gesuiti hanno dato in quei decenni nei più diversi luoghi del mondo. Anzi, colpisce notare che la storia dei gesuiti, a partire proprio dal generalato di padre Arrupe, è anche una tragica e luminosa storia di martirio.
In appendice al libro del Mulino sono elencati i padri uccisi per la loro attività di missione negli ultimi trent’anni. Sono una cinquantina. Soprattutto in Africa e in America latina. Come i sei confratelli uccisi nel 1989 nell’università del Salvador (al massacro Jon Sobrio sfuggì per puro caso), uno degli episodi più gravi subiti della chiesa cattolica negli ultimi vent’anni.

Ma fu soprattutto la sua ingenua visione ottimista, a minare alle basi la Compagnia con effetti che in pochi anni si sarebbero rivelati macroscopici.
E’ un suo stretto collaboratore, Maurice Giuliani, a ricordare: “Optava per il mondo così com’era, secolarizzato, umano a tal punto da non far apparire alcun riferimento religioso… questo è il mondo d’oggi, occorre prenderlo così com’è con atteggiamento positivo”.
L’idea della secolarizzazione come un bene e l’eterno mito dello spogliarsi di sé e della tradizione sono del resto un tratto comune di molto pensiero cattolico propedeutico e successivo al Concilio. Così
la fine degli anni Sessanta segna l’esplosione della crisi per un ex esercito della fede ormai senza controllo, in cui opposte visioni si fronteggiano.

Arrupe, nel giro di pochi anni, si vede costretto a fronteggiare la crisi della “Humanae Vitae”, con i suoi maggiori teologi e riviste che attaccano apertamente e duramente la promulgazione dell’enciclica di Paolo VI. Poi la crisi degli abbandoni: tra il 1961 e il 1970 lasciano oltre mille gesuiti, compresi alcuni padri provinciali, mentre i novizi crollano a meno della metà. A Roma, tre padri della Gregoriana si dichiarano pubblicamente a favore della legge sul divorzio prima di lasciare la Compagnia.


Arrupe è debole nel reagire
Nel 1970 un preoccupato padre Gabriele De Rosa gli scrive: “Mi sembra che i nostri giovani non vengano sufficientemente formati secondo il nostro ‘stile’, all’impegno, al lavoro duro, al sacrificio, alla rinunzia a fare ciò che piace… Tutti sognano di lavorare nel campo sociale o di consacrarsi a opere che ‘suscitino scalpore per la loro novità o orginalità’. Nessuno intende dedicarsi alla predicazione della parola, alla educazione cristiana dei fanciulli e alle opere di carità”.
Le denunce che piovono al generalato e in Vaticano sono tante e tremende: si va dai conventi dove ormai si vive come in albergo alle riviste che criticano il Papa, dalle università dove continuano a insegnare come nulla fosse preti ridotti allo stato laicale, fino al giornale dei gesuiti di Newark accusato di aver pubblicato poesie blasfeme sulla Madonna.

Ma il momento forse più drammatico è la rivolta spagnola che scoppia nel 1969 in reazione al lassismo di Arrupe.
Diciotto autorevoli gesuiti chiedono formalmente di potersi staccare dalla provincia di appartenenza per continuare a vivere secondo le antiche regole della “vera” Compagnia. E’ una svolta che arriva al limite dello scisma interno e innesta una crisi profonda anche con il Vaticano, con il segretario di Stato Jean-Marie Villot che, nei primi anni Settanta, pensa seriamente alla necessità di rimuovere Arrupe.

Il 3 dicembre 1975 Paolo VI, ricevendo una delegazione di gesuiti, tiene loro un accorato discorso. Li interroga sulla loro origine: “Chi siete? Donde venite? Dove andate?”. Ricorda loro che “essere religiosi significa ancora dedizione a una vita austera”, pone infine la domanda della fede: “E allora, perché dubitate?”.

Per paradosso, il colpo definitivo alla ormai traballante posizione di Arrupe, arrivò da papa Luciani, il pontefice sorridente cui una vulgata frettolosa ha cucito addosso soltanto l’immagine del (mancato) progressista. Invece Giovanni Paolo I, fra le prime e poche cose che poté fare, scrisse un discorso di severo richiamo ai gesuiti, che non riuscì a pronunciare. Fu il suo successore a trasmetterlo, condividendolo in pieno, alla curia generalizia dell’ordine.

Giovanni Paolo II e Arrupe si incontrarono due volte nel 1981. Furono due confronti piuttosto duri. Gli eventi precipitarono.
Il 13 maggio dell’81 l’attentato al Papa; il 7 agosto, al rientro da un viaggio in estremo oriente, padre Arrupe fu colpito da un ictus cerebrale.
Fu designato al suo posto il suo vicario, il super progressista americano padre O’Keefe, “libero pensatore del momento” (Andreotti) e fresco reduce da una pessima intervista rilasciata a un giornale olandese in tema di morale. Così il Papa intervenne personalmente e “commissariò” l’ordine imponendo come “delegato pontificio” il padre Paolo Dezza, paladino dell’ala più “tradizionale” dell’ordine, incaricato di predisporre una nuova Congregazione generale, quella che nel 1983, accettate le dimissioni di Arrupe, eleggerà il padre Peter-Hans Kolvenbach.

Quel che era stato il paradigma della rivoluzione conciliare finiva non tanto per effetto di una controrivoluzione, ma per l’esausto ricadere su se stesso dell’ottimismo di un generale basco ammaliato dal Concilio."

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