Mentre tutti negavano, Pietro disse: «Maestro, la folla ti stringe da ogni parte e ti schiaccia».
Ma Gesù disse: «Qualcuno mi ha toccato. Ho sentito che una forza è uscita da me».(Lc VIII, 45-46)"
Ovvero: racconto agiografico di Maurizio Crippa (Il Giornale, lunedì 25 febbraio 2005) intorno al divoto baciamano di Giuliano l'apostolo apostata al sedici volte Benedetto papa "ccioiosamente" regnante avvenuto tra le sacre mura della Chiesa romana di Santa Maria Liberatrice nella terza domenica di Quaresima dell'anno terzo di pontificato.
«E finalmente in una tiepida domenica mattina di febbraio si sono incontrati. Un semplice parrocchiano un po' speciale del Testaccio, il quartiere un tempo popolare e poi simbolo della Swinging Rome rutelliana, e il vescovo della città venuto in visita alla parrocchia di Santa Maria Liberatrice.
La foto presa al volo dall'Ansa è bella e reticente, come tutte le foto rubate alla cronaca. Il corpaccione esuberante nel cappotto cammello del giornalista laico - anzi ex comunista - e oggi combattente contro l'aborto; e il corpo esile e diafano, bianco come la papalina e la zazzera del gran professore tedesco, il Papa teologo. Alla fine del lungo percorso attraverso il mondo della politica e quello delle idee, dalla noia per l'ideologia alla scoperta della teologia, Giuliano Ferrara è arrivato sotto casa, nella «sua» parrocchia, dove ieri ha incontrato Benedetto XVI, gli ha baciato con rispetto la mano, è brillato un sorriso, si sono scambiati qualche rapida parola. La foto è reticente. Non per le parole che resteranno private, ma perché non dice nulla del lampo degli occhi, che senza dubbio ci dev'essere stato. E chi come me ha consuetudine con il mio direttore, sa che sono lampi eloquenti, spesso felicemente bambini.
Un lungo rapporto a distanza, quello tra il direttore del Foglio che da tempo ha preso il vezzo di definirsi «ateo devoto», mandando fuori di testa tutti quelli che non sanno se prenderlo sul serio, e in brodo di giuggiole gli amici che sanno che è divinamente serio, assolutamente ironico. E il «professor Ratzinger», come Ferrara lo chiama spesso.
Anche se la dietrologia italiana immagina sempre rapporti sotterranei e chissà quali segreti d'Oltretevere, (...) era la prima volta che i due si trovavano vis à vis.
Un lungo avvicinamento, e credo non spiacerebbe ai due se si rubassero a Goethe le sue «affinità elettive».
Quando Joseph Ratzinger si presentò sulla Gran Loggia di San Pietro, il pomeriggio del 19 aprile 2005, i testimoni oculari - io non c'ero, sto a Milano - raccontano di un gran balzo di Giuliano sulla poltrona, e del suo urlo liberatorio «Josephum», con cui faceva eco in tutta la redazione al nome latino appena pronunciato dal cardinale camerlengo.
Il trionfo di una scommessa vinta, di un'anticipazione azzeccata.
Quella mattina, il Foglio era uscito a tutta prima pagina con il titolo «La formidabile lezione del professor Ratzinger» e aveva sbattuto in faccia ai dubbiosi il testo integrale dell'omelia che Ratzinger aveva tenuto prima dell'inizio del Conclave. E che era già un programma di pontificato. Ma un orecchio più fine avrebbe forse avvertito che i gemiti della poltrona del direttore avevano un tono diverso da quelli provocati da Ferrara per un'altra notizia, anche quella pubblicata a tutta prima pagina con un giorno d'anticipo, la rielezione di Bush alla Casa Bianca. Quello era il legittimo orgoglio di una scommessa giornalistica stravinta. Invece il tripudio di quel pomeriggio d'aprile, quello che fece decidere in un istante, come capita sempre al Foglio, di uscire il giorno dopo con la testata modificata in «Il Soglio», con una squillante «S» rossa, era la gioia di un nuovo inizio: quasi l'intuizione di un «adesso cominciamo a divertirci», adesso avremo qualcosa di cui scrivere ogni giorno.
Ferrara ripete sempre che ad appassionarlo alle vicende della Chiesa fu la potenza meravigliosamente spavalda davanti alla modernità di Giovanni Paolo II. Ma già allora, in tempi non sospetti, fu il Prefetto della Fede ad attirare la sua attenzione.
Nel 2000 il Foglio aveva già pubblicato con risalto la Dominus Jesus, la «dichiarazione circa l'unicità e l'universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa», contestata dai progressisti, con cui Joseph Ratzinger faceva punto e a capo di tutte le possibili confusioni sulle diverse religioni. Analoga attenzione aveva attirato nel 2004 la Lettera ai vescovi sulla collaborazione dell'uomo e della donna nella chiesa e nel mondo, scritta sempre dal Custode della Fede. Altra clamorosa bomba messa sotto la mentalità corrente, che non a caso interessò maggiormente le femministe inquiete che tante anime belle della Chiesa chiacchierante, quella istituzione trasversale che tanto Papa Ratzinger quanto Ferrara detestano apertamente. Erano i primi segnali, che lasciavano a bocca aperta molti in redazione, di un interesse crescente. Ma segnali che venivano da lontano.
Ferrara semplicemente si è accorto che la sapienza della Chiesa, Agostino e Tommaso, Wojtyla e Ratzinger, ha spesso molte più cose interessanti da comunicare all'uomo (post)moderno - sull'amore umano, sulla nascita e la morte, fino al «supremo scandalo del nostro tempo», l'aborto - di quanto non l'abbiano tonnellate di filosofia corrente e di scadente pensiero unico laico. E da allora il Foglio è stato un tripudio di iniziative che Ferrara ama definire «ratzingeriane», come anche gli Appunti per il dopo pubblicati la scorsa estate.
Vista da (abbastanza) vicino la fascinazione di Ferrara per Ratzinger («siamo il giornale del Papa», è battuta su cui in redazione si può scherzare, ma fino a un certo punto) è fatta sostanzialmente di due cose. L'interesse per un uso della ragione «illuminista», che si interroga su tutto e non rinuncia alla ricerca della Verità. L'altra è il sacrosanto amore per il linguaggio, la parola cristallina che chiama le cose con il loro nome, che scandaglia il vero e lo rende comprensibile anche ai laici.
Di contro c'è l'odio per il fumo dell'ecclesialese, il linguaggio indigeribile che invece sembra essere il codice segreto del cattolicesimo contemporaneo. Quello «aperto al mondo», ma che al mondo non riesce a dire niente di interessante. E figurarsi a un uomo di mondo come Giuliano Ferrara.
Da qui il grande rilancio del discorso «illuminista» di Ratisbona, e la passione con cui il Foglio ha discusso le encicliche di Benedetto XVI: passione intellettuale per un uomo che ha qualcosa da dire, e sa splendidamente dirlo, sottolinea sempre Ferrara. Fino alla pubblicazione a tutta prima pagina del grande discorso negato alla Sapienza, sbattuto in faccia all'ignoranza di professori piccini e censori.
Da anni in tanti si interrogano sui rapporti tra Giuliano Ferrara e la Fede, tra il direttore del Foglio e il Papa. Su quel suo stare «sulla soglia» di Santa Romana Chiesa. Chi ha la possibilità di frequentare la faccenda un po' più da vicino, potrebbe testimoniare davanti al Sant'Uffizio soltanto di quel che vede: una stupenda, inconsueta, avventura intellettuale e umana. Vissuta con amore e buonumore dal suo protagonista. Fino all'ultima partita, quella che Giuliano Ferrara ha intrapreso della lista per la moratoria contro l'aborto. Su questo, il Papa ha già detto quel che doveva dire: riprendendo, nel discorso al corpo diplomatico di inizio anno, il filo del parallelo ferrariano tra la moratoria della pena di morte e il necessario impegno a favore della vita.»
1 commento:
Un poco (ma solo un poco) più prosaico Lorenzo Salvia sul Corrierone:
ROMA — «Tu sei la mia vita altro io non ho. Tu sei la mia strada, la mia verità...». Il coro sta cantando Symbolum '77 quando Giuliano Ferrara entra nella chiesa di Santa Maria Liberatrice. Otto e venti del mattino, all'arrivo del Papa manca più di mezz'ora. Il candidato premier della lista «Aborto? No grazie» non voleva far tardi.
Viene a piedi da casa, 300 metri da questa piazza che è il cuore di Testaccio, quartiere rosso di Roma un tempo popolare, oggi chic. Passa dal retro attraversando la sagrestia, al braccio la moglie Anselma. E si va a sistemare proprio lì, in prima fila, vicino al corridoio centrale dove tra poco passerà Benedetto XVI.
Il parroco don Manfredo, che lo conosce bene, sembra non aver lasciato nulla al caso. È stato lui ad invitarlo per questa messa, festa per i 100 anni della consacrazione della chiesa.
L'attesa è lunga. Ferrara si slaccia il giaccone color cammello e parla con la moglie che resta chiusa nel suo cappotto scuro mentre fuori le vecchiette fanno la fila davanti ai metal detector.
Poi si avvicina Camillo Ruini. «Cardinale, come sta?», stretta di mano calorosa. «Devo andare a Reggio Emilia — dice il direttore del
Foglio —, mi farebbe piacere rivedere sua sorella».
Chiacchiere fra amici. Nemmeno un cenno alla lista antiabortista lanciata da Ferrara. Neanche una parola su quell'intervento del direttore di Avvenire, il giornale della Cei, che parla di progetto che «rischia di sottrarre voti importanti ad altre liste già affermate». In compenso grandi sorrisi.
Il brusio aumenta, il Papa sta arrivando. Ferrara si sporge dal suo banco, come si fa quando là in fondo sta entrando la sposa.
Benedetto XVI attraversa lentamente la navata centrale: sorride, benedice, stringe mani. Ma continua sempre a camminare.
Si ferma solo quando arriva davanti a Ferrara: «Oh, finalmente — dice il Papa —, è la prima volta».
Il candidato premier si china a baciare l'anello. «Sono molto felice di incontrarla, Santo Padre. Le presento mia moglie».
Nemmeno un minuto, ma anche nei film la scena madre non deve durare per forza un'eternità.
«Nel nome del Padre, del Figlio...». Niente segno della croce per Ferrara. Non recita le parole della liturgia, a differenza della moglie non fa nemmeno la Comunione. Al momento della Consacrazione è l'unico a non inginocchiarsi nelle prime cinque file riservate agli invitati. China il capo però, sguardo rivolto verso terra. Si unisce all'applauso della chiesa, piena ma non gremita, alla fine dell'omelia.
Dieci minuti in cui Ratzinger ha invitato i fedeli a «pregare per la famiglia » e li ha messi in guardia dal «rischio di una religiosità non autentica ».
Batte di nuovo le mani quando la messa è finita e dai banchi in fondo un ragazzo urla «Viva il Papa». Ma c'è ancora tempo per un altro incontro ravvicinato. Benedetto XVI gli passa di nuovo davanti prima di uscire e si ferma anche stavolta. Parlano del libro di Ratzinger, ma è davvero un sussurro. Un altro baciamano.
Ferrara lascia sfollare, poi guadagna l'uscita incassando due strette di mano con incoraggiamento («Continua così»). Sul sagrato si accende una Ms, si infila il cappello di lana anche se oggi a Roma sembra primavera. E poi entra nel Bar Testaccio per un caffè.
«Sì, mi sono emozionato. Era la prima volta che lo vedevo faccia a faccia, anche se così, per pochi istanti...».
Non male per un ex comunista oggi considerato ateo devoto.
«Macché! Io sono credente, un uomo di molta fede. Anzi, dopo aver schivato gli scogli del cinismo adesso devo schivare quelli del fanatismo ».
Però niente Comunione, niente segno della croce...
«Credo di non essermi mai confessato. Assisto con deferenza alla messa ma non partecipo, per farlo bisogna saper pregare e io non sono capace. Quando tutti si mettono in ginocchio mi sento pure in imbarazzo».
Anche lui dice che qui della lista antiaborto non ha parlato con nessuno: «Questa non era un'occasione per cercare sponsorizzazioni. Sono venuto perché mi ha invitato il mio amico don Manfredo, il parroco».
Il caffè è finito, si torna nella piazza piena di sole. Dice Ferrara che questo per lui non è un debutto: «A parte i funerali, praticamente tutti quelli del terrorismo a Torino, alla messa ho assistito ma non partecipato diverse volte. E poi la figura del Papa mi ha sempre affascinato. Ricordo da ragazzino a Ponte Milvio. C'era Paolo VI, avrò avuto 16 anni, quelle bellissime Mercedes nere di una volta... ». Ecco, anche Papa Benedetto è appena salito su una Mercedes nera. Nuova, lucida, targa Scv 1. I finestrini sono aperti, Ratzinger saluta con la mano aperta. Ferrara ha già preso la strada del Foglio: «Ma il giornale non c'entra. Devo lavorare per le candidature della mia lista».
© Copyright Corriere della sera, 25 febbraio 2008
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