venerdì, aprile 18, 2008

Dictatus Papae, II

Ovvero: "Solo il Romano Pontefice può essere giustamente chiamato universale."


"Ogni Stato ha il dovere primario di proteggere la propria popolazione da violazioni gravi e continue dei diritti umani, come pure dalle conseguenze delle crisi umanitarie, provocate sia dalla natura che dall’uomo.

Se gli Stati non sono in grado di garantire simile protezione, la comunità internazionale deve intervenire con i mezzi giuridici previsti dalla Carta delle Nazioni Unite e da altri strumenti internazionali.

L’azione della comunità internazionale e delle sue istituzioni, supposto il rispetto dei principi che sono alla base dell’ordine internazionale, non deve mai essere interpretata come un’imposizione indesiderata e una limitazione di sovranità. Al contrario, è l’indifferenza o la mancanza di intervento che recano danno reale. Ciò di cui vi è bisogno e una ricerca più profonda di modi di prevenire e controllare i conflitti, esplorando ogni possibile via diplomatica e prestando attenzione ed incoraggiamento anche ai più flebili segni di dialogo o di desiderio di riconciliazione.

Il principio della "responsabilità di proteggere" era considerato dall’antico ius gentium quale fondamento di ogni azione intrapresa dai governanti nei confronti dei governati: nel tempo in cui il concetto di Stati nazionali sovrani si stava sviluppando, il frate domenicano Francisco de Vitoria, a ragione considerato precursore dell’idea delle Nazioni Unite, aveva descritto tale responsabilità come un aspetto della ragione naturale condivisa da tutte le Nazioni, e come il risultato di un ordine internazionale il cui compito era di regolare i rapporti fra i popoli. Ora, come allora, tale principio deve invocare l’idea della persona quale immagine del Creatore, il desiderio di una assoluta ed essenziale libertà.

La fondazione delle Nazioni Unite, come sappiamo, coincise con il profondo sdegno sperimentato dall’umanità quando fu abbandonato il riferimento al significato della trascendenza e della ragione naturale, e conseguentemente furono gravemente violate la libertà e la dignità dell’uomo.
Quando ciò accade, sono minacciati i fondamenti oggettivi dei valori che ispirano e governano l’ordine internazionale e sono minati alla base quei principi cogenti ed inviolabili formulati e consolidati dalle Nazioni Unite.
Quando si è di fronte a nuove ed insistenti sfide, è un errore ritornare indietro ad un approccio pragmatico, limitato a determinare "un terreno comune", minimale nei contenuti e debole nei suoi effetti.

Il riferimento all’umana dignità, che è il fondamento e l’obiettivo della responsabilità di proteggere, ci porta al tema sul quale siamo invitati a concentrarci quest’anno, che segna il 60° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.
Il documento fu il risultato di una convergenza di tradizioni religiose e culturali, tutte motivate dal comune desiderio di porre la persona umana al cuore delle istituzioni, leggi e interventi della società, e di considerare la persona umana essenziale per il mondo della cultura, della religione e della scienza.

I diritti umani sono sempre più presentati come linguaggio comune e sostrato etico delle relazioni internazionali. Allo stesso tempo, l’universalità, l’indivisibilità e l’interdipendenza dei diritti umani servono tutte quali garanzie per la salvaguardia della dignità umana. È evidente, tuttavia, che i diritti riconosciuti e delineati nella Dichiarazione si applicano ad ognuno in virtù della comune origine della persona, la quale rimane il punto più alto del disegno creatore di Dio per il mondo e per la storia. Tali diritti sono basati sulla legge naturale iscritta nel cuore dell’uomo e presente nelle diverse culture e civiltà. Rimuovere i diritti umani da questo contesto significherebbe restringere il loro ambito e cedere ad una concezione relativistica, secondo la quale il significato e l’interpretazione dei diritti potrebbero variare e la loro universalità verrebbe negata in nome di contesti culturali, politici, sociali e persino religiosi differenti.
Non si deve tuttavia permettere che tale ampia varietà di punti di vista oscuri il fatto che non solo i diritti sono universali, ma lo è anche la persona umana, soggetto di questi diritti.

La vita della comunità, a livello sia interno che internazionale, mostra chiaramente come il rispetto dei diritti e le garanzie che ne conseguono siano misure del bene comune che servono a valutare il rapporto fra giustizia ed ingiustizia, sviluppo e povertà, sicurezza e conflitto.
La promozione dei diritti umani rimane la strategia più efficace per eliminare le disuguaglianze fra Paesi e gruppi sociali, come pure per un aumento della sicurezza. Certo, le vittime degli stenti e della disperazione, la cui dignità umana viene violata impunemente, divengono facile preda del richiamo alla violenza e possono diventare in prima persona violatrici della pace. Tuttavia il bene comune che i diritti umani aiutano a raggiungere non si può realizzare semplicemente con l’applicazione di procedure corrette e neppure mediante un semplice equilibrio fra diritti contrastanti.

Il merito della Dichiarazione Universale è di aver permesso a differenti culture, espressioni giuridiche e modelli istituzionali di convergere attorno ad un nucleo fondamentale di valori e, quindi, di diritti. Oggi però occorre raddoppiare gli sforzi di fronte alle pressioni per reinterpretare i fondamenti della Dichiarazione e di comprometterne l’intima unità, così da facilitare un allontanamento dalla protezione della dignità umana per soddisfare semplici interessi, spesso interessi particolari.
La Dichiarazione fu adottata come "comune concezione da perseguire" (preambolo) e non può essere applicata per parti staccate, secondo tendenze o scelte selettive che corrono semplicemente il rischio di contraddire l’unità della persona umana e perciò l’indivisibilità dei diritti umani.

L’esperienza ci insegna che spesso la legalità prevale sulla giustizia quando l’insistenza sui diritti umani li fa apparire come l’esclusivo risultato di provvedimenti legislativi o di decisioni normative prese dalle varie agenzie di coloro che sono al potere. Quando vengono presentati semplicemente in termini di legalità, i diritti rischiano di diventare deboli proposizioni staccate dalla dimensione etica e razionale, che è il loro fondamento e scopo. Al contrario, la Dichiarazione Universale ha rafforzato la convinzione che il rispetto dei diritti umani è radicato principalmente nella giustizia che non cambia, sulla quale si basa anche la forza vincolante delle proclamazioni internazionali. Tale aspetto viene spesso disatteso quando si tenta di privare i diritti della loro vera funzione in nome di una gretta prospettiva utilitaristica. Dato che i diritti e i conseguenti doveri seguono naturalmente dall’interazione umana, è facile dimenticare che essi sono il frutto di un comune senso della giustizia, basato primariamente sulla solidarietà fra i membri della società e perciò validi per tutti i tempi e per tutti i popoli. Questa intuizione fu espressa sin dal quinto secolo da Agostino di Ippona, uno dei maestri della nostra eredità intellettuale, il quale ebbe a dire riguardo al "Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te" che tale massima "non può in alcun modo variare a seconda delle diverse comprensioni presenti nel mondo" (De doctrina christiana, III, 14).
Perciò, i diritti umani debbono esser rispettati quali espressione di giustizia e non semplicemente perché possono essere fatti rispettare mediante la volontà dei legislatori."
Benedictus Papa XVI

["Discorso ai membri all’Assemblea Generale dell'Organizzazione delle Nazioni Unite"; New York, venerdì 18 aprile 2008, ]

2 commenti:

Duque de Gandìa ha detto...

Con il sostegno delle religioni: La responsabilità di proteggere l'uomo

"Mai un Papa aveva parlato di fronte ai rappresentanti di tanti Paesi riuniti insieme - quasi duecento, in pratica l'intero pianeta.
Questo ha voluto Benedetto XVI, che alla vigilia dell'inizio del quarto anno di pontificato ha tenuto un discorso all'assemblea generale dell'Organizzazione delle Nazioni Unite. In una circostanza che ha sottolineato come il vescovo di Roma sempre più si rivolga al mondo, portando al culmine una tendenza accentuatasi soprattutto dopo la fine del potere temporale pontificio ed espressa storicamente con lo sviluppo tanto della proiezione mondiale della Santa Sede quanto delle relazioni diplomatiche che essa intrattiene con un numero di Paesi in continua crescita. Svolgendo in questo modo un'azione politica nel senso più alto del termine e che ha tuttavia ben chiara la necessaria e rigorosa distinzione tra la sfera religiosa e l'ambito politico tipica della tradizione cristiana.

Già Paolo VI e Giovanni Paolo II, parlando alle Nazioni Unite, avevano avuto come interlocutori i popoli della terra, a nome di una Chiesa per bocca loro dichiaratasi con umile orgoglio esperta in umanità. Il loro successore ha ripetuto questo concetto nel sessantesimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani.

Uscita dalle macerie spaventose del secondo conflitto mondiale, l'Organizzazione delle Nazioni Unite aveva infatti voluto darsi degli obiettivi ideali validi ovunque. Principi che Benedetto XVI ha riconosciuto come positivi, pur senza nascondere - in un discorso importante e meritevole di attenzione - una forte critica: questi ideali, già non coincidenti con la totalità del bene comune della famiglia umana, dipendono oggi da un consenso multilaterale in crisi perché subordinato alle decisioni di un numero ristretto di Paesi.

Vi è invece una legge naturale iscritta nel cuore di ogni essere umano, fondata sull'origine comune delle persone e che impone oggi alle Nazioni Unite di promuovere la solidarietà verso le zone più fragili del pianeta, di rispettare la vita umana, la famiglia e l'ambiente, intervenendo per proteggere le popolazioni dalla violazione dei diritti dell'uomo. Questa nuova "responsabilità di proteggere" deve riguardare tutti i diritti umani, e dunque anche quello alla libertà religiosa, soprattutto quando questa - che comprende anche la dimensione pubblica della religione e non solo il libero esercizio del culto - viene messa in pericolo da ideologie dominanti e da "posizioni religiose maggioritarie, di natura esclusiva".

Parole molto chiare e impegnative che Benedetto XVI ha voluto sintetizzare in un'altra frase della tradizione ebraica e cristiana, l'espressione latina tratta dal profeta Isaia (e ripresa già da Pio XII) che il Papa ha lasciato in ricordo della sua visita alla sede delle Nazioni Unite come lascito permanente: Erit opus iustitiae pax.

L'esperienza degli ultimi decenni dimostra infatti che gli Stati devono tornare costantemente all'ispirazione iniziale che sessant'anni fa portò alla Dichiarazione universale dei diritti umani, per evitare che essa sia piegata a interessi particolari, in definitiva non rispettosi dell'unità dell'uomo e dell'indivisibilità dei suoi diritti.
Perciò è importante una visione della vita ancorata alla dimensione religiosa; questa può infatti aiutare - insieme al dialogo tra le religioni, "che le Nazioni Unite sono chiamate a sostenere" e che Benedetto XVI ha ancora una volta incoraggiato con la visita alla sinagoga newyorkese di Park East e gli incontri di questi giorni con numerosi esponenti cristiani e di altre fedi - l'impegno comune contro la violenza, il terrorismo, la guerra, insieme alla promozione della giustizia e della pace. Un impegno difficile, certo, ma non impossibile, fondato com'è per moltissimi credenti sulla speranza di Cristo."

Giovanni Maria Vian

(©L'Osservatore Romano - 20 aprile 2008

Duque de Gandìa ha detto...

C'è un islam che benedice Benedetto

"Come musulmani americani abbiamo un interesse vitale nel parlare con lei"

Ha avuto un peso il fatto che per la prima volta il leader di un paese musulmano come il saudita Abdullah abbia definito “fratelli” i cristiani e gli ebrei. Mai il custode della Mecca aveva invitato i non musulmani nella terra santa del Profeta.

Benedetto XVI ha suscitato reazioni di sostegno e di entusiasmo fra gli otto milioni di musulmani d’America. C’è anche chi lo invita in Iraq. Quasi ogni quotidiano americano ha ospitato l’opinione di un commentatore islamico, ciascuno con i propri distinguo, ma la maggior parte a sostegno del Pontefice della libertà religiosa a lungo accusato di islamofobia.

Uno di questi era fra i firmatari della lettera dei 138 saggi musulmani, Nihad Awad, direttore del Council on american-islamic relations e spesso al fianco del presidente Bush. “Diamo il benvenuto a Benedetto XVI negli Stati Uniti” scrive Awad, in nome di un “desiderio di armonia” i leader islamici hanno il dovere di “mostrare il meglio della fede” al Papa, l’islam deve essere “fonte di riconciliazione e non di violenza”.
Awad scrive che “come americani adoriamo la diversità, non soltanto etnica e razziale, ma anche religiosa”.

E il Papa ieri ha parlato ai rappresentanti di altre religioni al Centro Giovanni Paolo II di Washington.

Ratzinger ha spiegato che “il compito di difendere la libertà religiosa non è mai completato”, il dialogo non deve essere vuoto, deve basarsi sulla “stima per i valori etici raggiungibili dalla ragione umana”.

E’ il cuore di Ratisbona che tanto scandalo ha suscitato. “Benedetto XVI ha posto il pontificato a sostegno della riforma islamica” spiega il teologo George Weigel. Awad di fronte alle parole di Ratzinger dice che “ci aspettiamo che aiuti a costruire un futuro migliore”. All’incontro ha partecipato Muhammad Shafiq, direttore dell’Islamic Center di Rochester. “C’è un risveglio fra i musulmani d’America, sappiamo che non possiamo vivere isolati”.

Shafiq ha definito Ratzinger “un partner globale”. Alla Casa Bianca si sono visti l’imam di Georgetown Yahya Hendi e un altro dei 138, Muzamil Siddiqi, capo del Fiqh Council of North America, che aveva preso parte alle preghiere alla Casa Bianca (una fotografia lo ritrae mentre dona una copia del Corano a Bush). Grande è la presenza dei musulmani americani nella fatidica lettera, da Akbar Ahmed, che detiene la cattedra Ibn Khaldun a Washington, all’iraniano Hossein Nasr. “Papa Benedetto ha dimostrato consistentemente di voler allungare una mano di rispetto alla comunità musulmana” dice Daisy Khan dell’American Society for Muslim Advancement. L’imam sciita di Detroit, Hassan Qazwini, invita Ratzinger in Iraq. “La sicurezza è migliorata, deve far visita all’ayatollah Ali al Sistani”. E’ il leader religioso iracheno che più si è fatto sentire contro il massacro della comunità cristiana da parte di al Qaida. Qazwini è uno dei tre firmatari della lettera che i leader islamici nordamericani hanno consegnato al Papa. “Come musulmani americani abbiamo un interesse vitale nel parlare con lei”. Vi si invoca un “dialogo che non trascuri le reali differenze”. “Salam Alaykum Papa Benedetto” esulta Eboo Patel, fondatore dell’Interfaith Youth Core e all’incontro con Ratzinger. “Dò il benvenuto ai suoi insegnamenti sull’amore e la speranza”. Ciò che ai musulmani d’America piace di questo papato è che non scivola in un relativismo generico tipico di molti incontri interreligiosi, difende la libertà religiosa che i musulmani prediligono contro la sharia. “Il Papa è nella posizione perfetta per colmare il vuoto esistente fra il mondo islamico e l’occidente” dice lo sciita Qazwini.
Bush ha nominato il primo rappresentante americano alla prestigiosa Conferenza islamica. E’ Sada Cumber, musulmano pachistano di confessione ismaelita, la setta sciita da sempre perseguitata dai fanatici letteralisti. Come scrive Stephen Schwartz sul Weekly Standard, l’America ha mandato un preciso segnale a Iran e Arabia Saudita, che dominano la Conferenza islamica: il rispetto inderogabile della libertà religiosa. Come quando inaugurando la più grande moschea di Washington, Bush usò le parole del poeta sufi Rumi, bandito dagli islamisti: “Le lampade sono differenti, la luce è la stessa”. Perfetto esergo all’idea di dialogo di Benedetto XVI.

© Copyright Il Foglio, 19 aprile 2008