venerdì, aprile 25, 2008

Tristitia Christi /5

"La Legge e tutti i Profeti infatti hanno profetato fino a Giovanni.
E se lo volete accettare, egli è quell'Elia che deve venire.
Chi ha orecchi intenda!
Ma a chi paragonerò io questa generazione?
Essa è simile a quei fanciulli seduti sulle piazze che gridano ai loro compagni e dicono:
Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato;
abbiamo cantato lamenti e non avete pianto."
(Mt XI, 13-17)



Ovvero: la solita "pizza" (ebraica)!

Lo avevo prennunciato di non essere profeta -nè figlio di profeta-; ed infatti con grande rammarico debbo constatare che, pur essendo giunto il tempo in cui oltre che in latino hanno imparato a leggere anche l'italiano, le autorità ebraiche hanno continuato, imperterrite, a dichiarare (contro ogni evidenza!) di non riscontrare nella "Preghiera per gli ebrei" del post-conciliare "Messale di Paolo VI" le medesime cause scatenanti di quei moti di tristezza, delusione, irritazione e protesta che invece sono stati provocati dalla lettura della corrispondente orazione latina del "Messale di san Pio V" non solo prima, ma anche dopo la revisione decretata dal Sommo Pontefice Benedetto XVI in data 4 febbraio 2008.

La colpa di tanto malumore ed incomprensione di fronte al Motu Proprio del 7 luglio 2007 da parte degli ebrei (e protestanti ma anche da parte di tanti cattolici) deve essere imputata alla stessa Curia Vaticana che all'epoca di Papa Montini volle presentare ai non cattolici la riforma liturgica quale "icona" del più generale aggiornamento della Chiesa Cattolica. Ma questa forma di propaganda "ad extra" in realtà ha finito per plasmare "ad intra" gran parte della forma mentis del cattolicesimo post-conciliare per cui solo nel perenne riformismo, aggiornamento ed adattamento dei rituali liturgici si troverebbe la cartina di Tornasole della vitalità del Cattolicesimo stesso!

Di conseguenza, di fronte al'idealistica epopea delle liturgighe "magnifiche sorti e progressive", ecco che venendo al caso particolare del continuo "progresso" della preghiera "pro Judaeis - dalla dichiarazione Sacra Congregazione dei Riti del 16 agosto 1948, alla rifoma dei riti della Settimana Santa approvata definitivamente da Pio XII nel 1955, giungendo all'eliminazione dell'agettivo "perfidus" da parte di Giovanni XXIII nel 1959, al Messale "provvisorio" del 1965 in cui Paolo VI eliminava il "velamen" dagli occhi degli ebrei- fino alla riformulazione completa della "Preghiera per gli ebrei" del Nuovo Messale Romano approvato da Paolo VI nel 1969, appare perciò insensato, reazionario, se non addirittura foriero di sciagure, la riproposizione del Messale di San Pio V.
Per il rabbino Di Segni, vittima eccellente di tale pseudo-ermeneutica: "Si pone un problema serio di credibilità e affidabilità: se la Chiesa è stata capace di tornare indietro su questo punto, ciò può avvenire su qualsiasi cosa. E il passato non è certo un buon modello".

Misurare il progressismo o il conservatorismo del Magistro della Chiesa Cattolica dalla lunghezza del pizzo nelle vesti liturgiche, dall'altezza o meno delle mitre vescovili, dal fatto che un prete che celebra l'eucarestia guardando verso i fedeli sia l'immagine di una Chiesa aperta al mondo moderno mentre se celebra dando le spalle all'assemblea simboleggia una Chiesa reazionaria: è un'impostazine del tutto irreale, insensata e profondamente ignorante! Tale impostazione avrebbe più senso se si stesse giudicando una nuova realtà religiosa nata da uno scisma e che abbia voluto modificare la propria liturgia per sottolineare la propria peculiarità e differenza; eppure è proprio con un simile criterio che gli acattolici (ma anche i cattolici) hanno guarato alla "nuova" Chiesa uscita dal Vaticano II.
Le gerarchie cattoliche -e vaticane in primis- in questi quarantennali "ludi ecumenici" hanno tenuto una atteggiamento "reticente" (come direbbe Riccardo Di Segni) quando si è trattatodi di spiegare all'ecumenico interlocutore quali siano i limiti teologici invalicabili da qualsivoglia "aggiornamento" e qualsivoglia concilio ecumenico. Tale diplomatica "reticenza" che si è voluta erroneamente chiamare "ecumenismo" e "dialogo" ha dilagato nelle pubbliche allocuzioni dei sacri pastori -forse per il sincero desiderio di condividere "le gioie e le speranze di ogni uomo" o forse per calcolarto gattopardismo- finendo per "inpregnare" le menti del gregge con l'idea che ogni seppur vaga esortazione al "volemose bbene" sia più cristiana dell'esortazione di San Pietro che invita a "dare ragione della speranza che è in voi". Lo disse papale papale il cardinale Giacomo Biffi nell'aprile 2005 in faccia a tutto il Sacro Collegio schierato:
«Vorrei dire al futuro Papa che faccia attenzione a tutti i problemi. Ma prima e più ancora si renda conto dello stato di confusione, di disorientamento, di smarrimento che affligge in questi anni il popolo di Dio, e soprattutto affligge i 'piccoli'».
«Qualche giorno fa ho ascoltato alla televisione una suora anziana e devota che così rispondeva all’intervistatore: 'Questo Papa, che è morto, è stato grande soprattutto perché ci ha insegnato che tutte le religioni sono uguali'. Non so se Giovanni Paolo II avrebbe molto gradito un elogio come questo».

«Infine vorrei segnalare al nuovo Papa la vicenda incredibile della Dominus Iesus: un documento esplicitamente condiviso e pubblicamente approvato da Giovanni Paolo II; un documento per il quale mi piace esprimere al cardinal Ratzinger la mia vibrante gratitudine. Che Gesù sia l’unico necessario Salvatore di tutti è una verità che in venti secoli – a partire dal discorso di Pietro dopo Pentecoste – non si era mai sentito la necessità di richiamare.
Questa verità è, per così dire, il grado minimo della fede; è la certezza primordiale, è tra i credenti il dato semplice e più essenziale. In duemila anni non è stata mai posta in dubbio, neppure durante la crisi ariana e neppure in occasione del deragliamento della Riforma.
L’averla dovuta ricordare ai nostri giorni ci dà la misura della gravità della situazione odierna.
Eppure questo documento, che richiama la certezza primordiale, più semplice, più essenziale, è stato contestato. È stato contestato a tutti i livelli: a tutti i livelli dell’azione pastorale, dell’insegnamento teologico, della gerarchia».


Così accade che quando la dottrina cattolica viene espressa con diplomatici giri di parole e circonvolute perifrasi non desta quelle protesta e quelle "preoccupazioni" che invece provoca subitanea la medesima dottrina cattolica quando (vedi la "Dominus Jesus") viene esposta con preposizioni brevi e linerai:
«sull'argomento della conversione degli ebrei c'era una certa reticenza, cioè non se ne parlava. Ma questo atteggiamento è stato interrotto bruscamente dalla nuova formula della preghiera per gli ebrei».
Così si angustia Riccardo di Segni!

Quel che sorpende, infatti, nelle allarmate lamentazioni del Rabbino Capo di Roma, e del collegio rabbinico italico tutto, di fronte ad una nuova orazione "pro Judaeis" per il "vecchio" rito di San Pio V è: non che la Chiesa abbia espresso apertis verbis la propria dottrina ma che lo abbia fatto con una terminologia giudicata meno "reticente" rispetto alla preghiera presente del Novus Ordo!

Speculare l'atteggiamento della Chiesa Valdese che all'inizio del Grande Giubileo del 2000 si rifiutò categoricamente di partecipare alla cerimonia ecumenica di apertura della Parta Santa della Basilica di San Paolo fuori le Mura per protestare contro una Chiesa Cattolica rea di non aver ancora fatte proprie la dottrina contro le indulgenze di Martin Lutero, mentre le "pretesse" e le "vescovesse" rappresentanti di ogni più stramba denominazione protestante varcavano piamente la Porta Santa della Basilica Ostiense.
Ora, essendo quella delle indulgenze dottrina costantemente insegnata dalla Chiesa cattolica, a ragion di logica, chi voglia protestare il proprio attacammento alle "tesi" di Lutero dovrebbe farlo non solo ad ogni venticinquennale apertura di Anno Santo ma dovrebbe rifiutarsi perennemente di partecipare ad ogni incontro ecumenico, poichè la così tanto detestabile dottrina romana delle indulgenze è in vigore perennemente e non solo ogni venticinque anni ma anzi: persino le preghiere per l'unità dei cristiani, come tutte le preghiere, sono indulgenziate!

Parimenti non si comprende come mai il rabbino Di Segni nel gennaio 2005, abbia rifiutato di partecipare all'atto commemorativo del quarantesimo della dichiarazione conciliare sulla "Nostra Aetate" a causa del fatto che il relatore vaticano era il Cardinale Jean-Marie Lustiger, un ebro convertito.
Ora, non si pensi che io sia eccessivamente "candido" da non capire il perchè per il rabbino Di Segni la scelta di un cardinale ebreo è parsa "inopportuna" e "preoccuante".
Vorrei solo poter avere risposta al seguente quesito: in che modo avrebbe influito negativamente sull'interpretazione del documento conciliare la presenza di un cardinale ebreo quando il testo della Nostra Aetate già a monte dichiara che per la Chiesa Cattolica: "Come attesta la sacra Scrittura, Gerusalemme non ha conosciuto il tempo in cui è stata visitata"?

La Nostra Aetate infatti non è un "concordato" - o meglio ancora un "trattato di non aggressione"- siglato tra la religione cattolica e la religione ebraica ma è un documento unilaterale della Chiesa Cattolica in cui si proclama infondata ed erratta l'accusa di "deicidio": la tesi teologica secondo cui tutti gli ebrei sono oggetto di punizioni e castighi da parte di Dio in quanto discendenti di quegli ebrei che non hanno riconosciuto in Gesù il Messia.
Ma per il fatto che agli ebrei contemporanei non può essere imputata nessuna colpa ( e pertanto nessuna punizione!) per la crocifissione di Gesù non significa certo che la Chiesa Cattolica, a seguito delle dichiarazioni conciliari contenute nella Nostra Aetate, debba rinunciare- o che perfino abbia per sempre rinunciato- ad insegnare che: "Come attesta la sacra Scrittura, Gerusalemme non ha conosciuto il tempo in cui è stata visitata"!

Non si può certo rimproverare da parte ebraica ad un singolo papa, ad un singolo cardinale, ad un singolo fedele cattolico di professare quella dottrina che però poi i medesimi ebrei non ritengono degna di biasimo quando la trovano formulata nella Preghiera per gli ebrei del "più ecumenico" Messale di Paolo VI:
“Preghiamo per gli Ebrei: il Signore Dio Nostro che li scelse primi tra tutti gli uomini ad accogliere la sua parola, li aiuti a progredire sempre nell’amore del suo nome e nella fedeltà alla sua alleanza.

“Dio onnipotente ed eterno, che hai fatto le tue promesse ad Abramo e alla sua discendenza, ascolta la preghiera della tua Chiesa, perché il popolo primogenito della tua alleanza possa giungere alla pienezza della redenzione”.


Preghiera che, nonostante ciò che possa dire Di Segni, è, e rimane, una preghiera per la conversione degli ebrei. Esattamente come lo è anche la nuova versione approvata per l'antico rito (che non è una preghiera che inviti il singolo fedele cattolico ad insistere "opportune et importune" e fare pressioni di qualunque sorta; fosse anche utilizzare infidamente i dialoghi interreligiosi come "aggiornate" prediche coatte affinchè il singolo ebreo accetti il battesimo, come di voluto insinuare):
"Preghiamo per i Giudei, affinché Dio Nostro Signore illumini il loro cuore, affinché riconoscano Gesù Cristo salvatore di tutti di gli uomini.”
“Onnipotente eterno Dio, che vuoi che tutti gli uomini siano salvi e giungano al riconoscimento della verità, concedi propizio che con l’ingresso della pienezza delle genti nella Tua Chiesa tutto Israele sia salvo.”


Anche la preghiera del Messale di Paolo VI è una preghiera in cui si chiede a Dio di convertire -perchè è Dio che solo ha il potere di converte!- tutto il popolo ebraico affinchè "possa giungere alla pienezza della Redenzione".
Ora, in cosa consista questa "pienezza" e di cosa trattavano "le promesse" fatte ad Abramo lo sappiamo benissimo sia io, sia Riccardo Di Segni sia Benedetto XVI, sia tutti gli ebrei e sia tutti i cristiani: l'avvento del Messia.

Perciò il rabbino Di Segni si duole di tanta mancanza di reticenza teologica e auspicherebbe che i cristiani pregassero affinchè gli ebrei possano giungere "alla pienezza della redenzione" ma solo al momento della fine dei tempi, cioè così come lo predisse Gesù a Caifa: "vedrete il Figlio dell'uomo seduto alla destra di Dio, e venire sulle nubi del cielo".
Anche in quel caso, però, si tratterebbe della riproposizione della stessa e medesima dottrina cattolica sulla necessità salvifica, e per tutti gli uomini di tutti i tempi, della mediazione dell'Uomo-Dio Gesù (seppur contestualizzata in un futuro il più futuribile possibile) ma che, comunque, per nulla rassomiglierebbe a quella dottrina della "salvezza parallela" come l'ha vagheggiata Riccardo Di Segni:
"I cristiani dovrebbero arrivare ad ammettere che gli ebrei, in virtù della loro elezione originaria e irrevocabile, e del possesso e dell'osservanza della Torà, possiedono una loro via autonoma, piena e speciale verso la salvezza che non ha bisogno di Gesù. Non basta dire, come si è fatto proprio recentemente e con un lodevole sforzo di elaborazione dottrinale, che la nostra "attesa non è vana" perché serve a stimolare i cristiani; bisogna dire che noi valiamo in quanto tali e nessuno deve giustificare la nostra fede in funzione di altre."

Delle post-conciliari continue e reiterate manifestazioni cattoliche di rispetto e stima per l'ebraismo non rimane pertanto che l'irrazionale accusa ai cattolici ,che scaturisce dalla atavica paura per i battesimi "forzati", che il "dialogo" sia solo una scusa per arrivare alla "soluzione finale" con altri mezzi.

In data 10 aprile 2008 il cardinale Walter Kasper Presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso ha risposto diplomaticamente al generale quanto immotivato stracciamento delle vesti rinnovando le solenni dichiarazioni di rispetto per l'Ebraismo, come sono enunciate nella Nostra Aetate:

"Diversamente dal testo del 1970, la nuova formulazione del testo del 1962 parla di Gesù come il Cristo e la Salvezza di tutti gli uomini, quindi anche degli ebrei. Molti hanno inteso questa affermazione come nuova e non amichevole nei confronti degli ebrei. Ma essa è fondata sull'insieme del Nuovo Testamento (cfr 1 Timoteo, 2, 4) e indica la differenza fondamentale, nota ovunque, che permane sia per i cristiani, sia per gli ebrei.
Anche se non se ne parla esplicitamente nella Nostra ætate, né nella preghiera del 1970, non si può estrapolare la Nostra ætate dal contesto di tutti gli altri documenti conciliari e nemmeno la preghiera del Venerdì Santo del Messale del 1970 dall'insieme della liturgia del Venerdì Santo che ha come oggetto appunto quella convinzione della fede cristiana. La nuova formulazione della preghiera del Venerdì Santo del Messale del 1962, quindi, non dice nulla di veramente nuovo, ma esprime soltanto ciò che già finora era presupposto come ovvio, ma evidentemente, in tanti dialoghi, non era stato tematizzato a sufficienza".

"La riformulata preghiera del Venerdì Santo esprime questa speranza in una preghiera di intercessione rivolta a Dio. Con questa preghiera la Chiesa ripete, in fondo, l'invocazione del Padre nostro "Venga il tuo regno" (Matteo, 6,10; Luca, 11,2) e l'acclamazione liturgica protocristiana "Maranà tha": Vieni, Signore Gesù, vieni presto (1 Corinzi, 16,22; Apocalisse, 22,20; Didachè, 10,6).
Tali preghiere per la venuta del Regno di Dio e per la realizzazione del mistero della salvezza, secondo la loro natura, non sono un appello rivolto alla Chiesa a compiere un'azione missionaria verso gli ebrei. Anzi, esse rispettano tutta la profondità abissale del "Deus absconditus", della Sua elezione per grazia, dell'indurimento, come della Sua misericordia infinita.
Con la sua preghiera la Chiesa, dunque, non assume la regia della realizzazione del mistero imperscrutabile. Non lo può affatto."

Conclude il Cardinal Kasper:
"Un dialogo sincero tra ebrei e cristiani, infatti, è possibile solo, da un lato, sulla base della comunanza nella fede nell'unico Dio, Creatore del cielo e della terra, e nelle promesse fatte ad Abramo e ai Padri, e, dall'altro, nella consapevolezza e nel rispetto della differenza fondamentale che consiste nella fede in Gesù quale Cristo e Redentore di tutti gli uomini."

Va notato che, nella sua millenaria sapienza, la Santa Sede, per mezzo dell'eminentissimo Kasper, ha risposto alle lamentazioni rabbiniche solo dopo la celebrazione del Triduo Pasquale ,come a voler comprovare con la prova dei fatti che la proclamazione della nuova-vecchia orazione in nulla aveva incrinato i rapporti amichevoli dei cattolici nei confronti degli ebrei.

Basterà? Mi sovviene alla mente quella domanda di Gesù:
“Vi ho fatto vedere molte opere buone da parte del Padre mio; per quale di esse mi volete lapidare?”.
Gli risposero i Giudei: “Non ti lapidiamo per un’opera buona, ma per la bestemmia che tu, che sei uomo, ti fai Dio”.(Gv X, 32-33)

2 commenti:

L'agliuto ha detto...

Bellissimo il link alla sora Limentani. Ce ne vorrebbero altri, di segni così.

Duque de Gandìa ha detto...

AD PERPETUAM REI MEMORIAM

E' un'ebrea la pasticciera di Benedetto XVI: "Vi racconto quali dolci piacciono di più al Papa..."

di Bruno Volpe

CITTA’ DEL VATICANO - E’ una pasticciera ebrea di Roma, Vilma Limentani, a preparare i dolci preferiti del Papa. Una storia davvero curiosa, che ‘Petrus’ può rivelare in esclusiva ai suoi lettori. A quanto pare, Benedetto XVI predilige i pasticcini secchi con cannella e mandorle e va ghiotto per la ‘pizza ebraica’, una specie di tronchetto a base di canditi, mandorle, uva passa e pinoli. La pasticceria della signora Liverani, 'Zì Boccione', si trova nel cuore del quartiere ebraico di Roma, il ‘Ghetto’, a qualche passo dalla Sinagoga, in un locale sobrio, di circa 50 metri quadrati, affollato sin dalle prime ore del mattino. Tra i clienti più assidui, Silvio Berlusconi, Massimo D’Alema e Giuliano Ferrara.

Signora Limentani, ci spieghi come i Suoi dolci sono arrivati sulla tavola del Papa…

"Per caso. Un nostro amico e cliente, il Dottor Giacomo Perugia, è uno dei medici di fiducia di Benedetto XVI. Così, una volta volle acquistare alcuni biscottini di cannella e mandorla e la pizza ebrea per farne dono al Papa durante una visita di cortesia in Vaticano. Ricordo che il Dottore ritornò addirittura con un messaggio del Santo Padre che si complimentava per i nostri prodotti e lasciava intendere che ne avrebbe graditi ancora. Allora, ogni volta che il Dottor Perugia va dal Papa, passa prima da noi a ritirare un po’ di dolciumi”.

Che Lei sappia, qual è il dolce che ha apprezzato maggiormente Benedetto XVI?

"I biscottini. Tra l'altro sono anche adatti alla sua alimentazione. Sapete bene, infatti, che secondo i precetti della nostra religione, non possiamo adoperare i grassi animali saturi. Si tratta, quindi, di delizie magari un po’ caloriche ma che non fanno male alla salute e, in particolare, non aumentano il colesterolo".

Signora Vilma, la Sua pasticceria è quasi un esempio di dialogo interreligioso: ha alle dipendenze una donna di servizio filippina, cattolica e persino devota a Padre Pio…

"Ci vuole tolleranza, andiamo d'accordo. E poi ci unisce la simpatia per il Papa. Sa, sono davvero contenta che i nostri dolci siano apprezzati dal Pontefice. Sinora ho mantenuto il massimo riserbo, ma in omaggio al vostro giornale e per rispetto del nostro comune amico Mimmo Cavicchia della ‘Taverna Flavia’ di Roma, ho parlato ben volentieri di questa simpatica storia”.

Ci spiega qual è la caratteristica saliente della pasticceria giudea?

"Il discorso sarebbe lungo, lo sintetizzo in una parola ebrea: Kosher, cioè il pieno rispetto delle regole ingieniche e naturali, il che vuol dire fedeltà alla tradizione"

Tradizione, come la preghiera del Venerdì Santo per la conversione degli ebrei presente nel Messale in latino di San Pio V…

"Le assicuro che nutriamo il massimo rispetto per il Papa Benedetto XVI e riteniamo che certi radicalismi andrebbero ridimensionati anche da parte ebraica".