lunedì, gennaio 11, 2010

Pro Missa bene cantata [14]

Sive: OREMUS ET PRO PERFIDIS EPISCOPIS




In data mercoledì 3 ottobre 1984, anno sesto del pontificato di Giovanni Paolo II, l'allora Sacra Congregazione per il culto Divino inviava ai Presidenti delle Conferenze Episcopali una lettera circolare che gode della peculiarità d'esser notoria per l'incipit latino "Quattuor abhinc annos": una singolarisima titolatura latinegginte nel post-conciliare cartaceo, e volgare, mare magnum con cui la Santa Sede ha sommerso l'orbe cattolico.
Nell'incipit si ricordava che "quattro anni prima", nel 1980 il Santo Padre, profondamente consapevole delle lacerazioni ancora ben presenti nel clero e nei fedeli intorno al divieto di celebrare i riti tridentini, aveva chiesto alle Conferenze Episcopali un dettagliato resoconto sulla ricezione della riforma liturgica a dieci anni della entrata in vigore della "Messa di Paolo VI". Il resoconto doveva inoltre indicare "le difficoltà apparse nell’attuazione della riforma liturgica" nonché prospettare soluzioni "circa il modo di superare eventuali resistenze".

Quattro anni dopo, il Sommo Pontefice, mercé la circolare della Congregazione per il Culto divino, sbugiardava l'episcopato: "In base alle loro risposte sembrava fosse quasi interamente risolto il problema di quei sacerdoti e fedeli che erano rimasti ancorati al cosiddetto rito tridentino." Invece Papa Wojtyla, perfettamente al corrente dell'esistenza di (seppur marginali) resistenze all'introduzione del "Novus Ordo", decretava un "indulto" (in deroga alla normativa liturgica generale) "di poter celebrare la S. Messa usando il Messale Romano secondo l'edizione del 1962" per tutti quei sacerdoti e fedeli "che saranno indicati nella lettera di richiesta da presentare al proprio Vescovo". Dunque, fatta salva "la legittimità e l’esattezza dottrinale del Messale Romano promulgato dal papa Paolo VI nel 1970", il Pontefice, con la suddetta circolare, concedeva ai vescovi diocesani piena facoltà e liberalità di affidare dei luoghi di culto a quel clero e a quei fedeli che avessero mendicato la celebrazione dei sacri riti "more antiquor". E per meglio evitare "ogni mescolanza tra i riti e i testi dei due messali" si chiedeva ai vescovi di concedere ai devoti della "Messa di S. Pio V" luoghi di culto che non fossero la Chiesa parrocchiale: "in modo da non recare pregiudizio alcuno all’osservanza della riforma liturgica".

Grazie all'indulto pontificio del 1984 vennero così costituiti dell'orbe cattolico dei legittimi "ghetti" dove poter celebrare il rito tridentino, compresi perciò i riti del Venerdì Santo in ottemperanza del Missalem Romanum promulgato da Giovanni XXIII nel 1962.
In seguito alla scomunica a monsignor Lefebvre: "nell'anno 1988 poi Giovanni Paolo II di nuovo con la Lettera Apostolica Ecclesia Dei, data in forma di Motu proprio, esortò i Vescovi ad usare largamente e generosamente tale facoltà in favore di tutti i fedeli che lo richiedessero" (Summorum Pontificum).
Pertanto, per ben ventidue anni consecutivi, dal Venerdì Santo del 1985 fino a quello del 2007, i "tradizionalisti" (all'interno del loro ghetto liturgico) godettero della più aplia libertà di pregare "Pro Judeis", nella più totale indifferenza sia del mondo cattolico e tanto più del mondo ebraico. Infatti, i professionisti del dialogo interreligioso, sia da parte cattolica che da parte ebraica, sostenevano che l'orazione "pro judaeis" del Messale del 1962 era oramai recitata così tanto raramente da non essere più considerata un impedimento al dialogo fra cattolici ed ebrei. E questo spiega come mai Benedetto XVI e i suoi stretti collaboratori apparvero sorpresi, spiazzati, ed impreparati di fronte al generale ebraico stracciamento di vesti (e ancor di più di fronte alle pubbliche lamentazioni provenienti da eminetissimi prelati cattolici) per la liberalizzazione della preghiera per la conversione degli ebrei.
La polemica, rintuzzata dai cattolici corifei delle "magnifiche sorti e progressive" della mitologia vaticanosecondista, porterà nel 2008 (venendo incontro alla richiesta ufficialmente formulata dai due massimi rabbini d'Israele: sefardita e askenazita), alla sostituzione dell'Oremus da cui Giovanni XXIII aveva cancellato il riferimento alla "perfidia", con una nuovissima versione; orba di ogni possibile riferimento alla cecità spirituale del popolo ebraico; composta dal Benedetto vicario in terra del "Rex Judeorum".

Or dunque, se il "Summorum Pontificum" del 7 Luglio 2007 ha liberalizzato la messa tridentina, persino da una superficiale lettura appare evidente che il suddetto Motu proprio non promuova affatta una maggior diffusione dell'uso dell'«Oremus et pro Judeis». Il Motu Proprio, infatti, se ha "liberalizzato" la " vecchia messa in latino" lo ha fatto non già rispetto alla Costituzione Apostolica Missale Romanum del 1969, con cui Paolo VI imponeva alla Chiesa cattolica tutta "la messa nuova", bensì all'indulto "Quattuor abhinc annos". Infatti per clero e fedeli (i quali nel frattempo non erano affatto diminuiti ma anzi aumentati rispetto al 1984) lo scoglio insormontabile all'utilizzo del Messale tridentino veniva proprio dell'Episcopato che accusava i "tradizionalisti" di non essere ubbidienti al magistero pontificio quando chiedevano quella messa tridentina che Giovanni Paolo II aveva dichiarato essere loro diritto di chiedere (cioè, ottenere!).
Benedetto XVI ha "liberalizzato" nel senso che ha eliminato l'impedimento principe: la (scarsissima) condiscensenza episcopale.

La dottrina canonico-liturgica sviscerata da Benedetto XVI nel Motu Proprio è chiara e lineare: nonostante l'introduzione massiccia e capillare del "Nuovo Messale Romano", il Messale di S.Pio V seppur fatto scomparire "de facto", non è stato mai abolito "de jure" (né poteva esserlo: i riti muoiono di morte naturale) esso rimane perciò un legittimo formulario del Rito Romano. Per meglio dire: "forma straordinaria" del Rito Romano, legittimo e valido quanto il rito post-conciliare. Ragion per cui, come qualunque sacerdote di "rito romano" non necessita di "exequatur" da parte del legittimo vescovo diocesano per celebrare secondo il messale di Paolo VI, allo stesso modo non ne avrà bisogno nemmeno per celebrare secondo il messale di S.Pio V, quando sia un congruo numero di fedeli a richiederli di celebrare nella "forma straordinaria".
Poichè "la salvezza delle anime è la legge suprema della Chiesa", i sacerdoti, e cioè specialmente i parroci, debbono assecondare la richiesta di quelli che vogliono "la messa in latino". Ecco che il Summorum Pontificum fa uscire la messa tridentina dal ghetto in cui l'avevano confinata la "Quattruorum abhic annos" e la "Ecclesia Dei afflicta": dal 14 settembre 2007 il rito antico può tornare nelle chiese parrocchiali (senza pericolo la più recente liturgia "riformata") e i parroci potranno -dietro espressa richiesta dei fedeli- celebrare con il messale tridentino del 1962 una delle messe domenicali.

Ma se il Motu Proprio auspica la liberalizzazione della messa tridentina non promuove affato la liberalizzazione del Rito tridentino! Infatti, il "Summorum pontificum" si guarda bene dall'equiparare i due riti (cioè le due forme del medesimo rito romano): "Il Messale Romano promulgato da Paolo VI è la espressione ordinaria della lex orandi della Chiesa cattolica di rito latino". Questo spiega il perchè nell'Articolo 2 si proibisca espressamente l'uso del rituale tridentino durante il Triduo Pasquale, quando si deve svolge un'unica celebrazione parrocchiale della messa "In Coena Domini" del Giovedì Santo, unico il rito della commemorazione della Passione del Venerdì Santo ed una è la veglia pasquale del Sabato Santo. In quel caso il parroco è obbligato a celebrare il Triduo pasquale nella forma "ordinaria" e cioè post-conciliare.
Per assurdo: persino nel caso che la maggioranza assoluta dei parrocchiani anelasse vehementemente ad un Sacro Triduo secondo il Missalem Romanum del 1962, e con tanto di orazione "Pro Judeis" riscritta da Benedetto XVI, il Parroco non avrebbe la discrezione di preferire il rito antico al rito "ordinario".
Pertanto l'affermazione secondo cui "Benedetto XVI ha liberalizzato la preghiera per la conversione degli ebrei del Venerdì Santo" è un'affermazione falsa e priva di qualsiasi riscontro sia nella lettera e tanto più nello spirito del Motu proprio Summorum Pontificum!

Di contro a tale lamentabile reiterata lamentazione ebraica, avremmo desiderato cordialmente che una tale ovvietà l'avessero additata gli eccellentissimi e gli eminentissimi professionisti del dialogo ebraico-cristiano, sin dal luglio 2007.

1 commento:

Duque de Gandìa ha detto...

Avrei voluto leggere sui neo-tridentini pulpiti virtuali, da coloro che eccellono nelle scienze canonistiche e rubricistiche, la cristallina confutazione di tale suddetta condannabile preposizione, che viene ripetuta massimamente da esponenti della cultura ebraica quasi come un mantra. Ma invano.