Don Giussani […] Allora io proporrei di sospendere il tema che ho dato stamattina e domandarci a bruciapelo: che cos’è per noi il cristianesimo.
[…] Proviamo anche a domandarci quando mai ci siamo posti questa domanda, non come spontaneamente frullata in testa, ma con una volontà sistematica: “sistematica” non nel senso scolastico del termine, ma nel senso vitale del termine, perché la vita è un organismo, è un sistema.
Se lo sentite come un cambiamento un po’ presuntuoso e pesante, ritorniamo al tema di prima. Ma io propongo questo cambiamento perché non mi sembra proprio un cambiamento. Casomai ci aiuterà a saltare dei passaggi inutili, perché a noi non interessa il movimento, per noi, è questa risposta alla vita. …
Forza, entriamo in medias res. Cos’è per noi il cristianesimo?
Intervento Sono stato richiamato a concepire questo luogo come il luogo della presenza del Signore, e quindi della mia verità, e non come luogo di gente che si ritrova perché la pensano tutti alla stessa maniera su un determinato punto. Ho capito che qui dentro, con questi volti, con queste persone, si gioca la mia salvezza.
Don Giussani E allora? Il tuo intervento – si vede che sono un po ottuso – che connessione immediata ha con la domanda che ci siamo posti?
Intervento La connessione immediata è che è qui dentro…
Don Giussani Ma che cosa è il cristianesimo?
Intervento È la verità della mia vita.
Don Giussani Tu hai usato anche un’altra parola: la parola “salvezza”.
Soltanto, ragazzi, che dobbiamo sfondare queste parole! Non si capisce una parola, se non in quanto se ne percepisce lo “spessore” – come dite voi -, lo spessore esistenziale. Una parola è come un indice: è un segno, segno di una realtà; un segno, proprio come c’è una freccia… Allora, non si capisce una parola, se non si percepisce la realtà che essa indica.
Per questo la domanda: “Che cos’è il cristianesimo?” è – a mio avviso – la domanda più urgente per noi che diciamo di esserci impegnati con esso. Ma lo è per tutto il mondo se – anche solo come ipotesi – il cristianesimo è inteso come la proposta della storia per una autenticità maggiore del cammino umano e per una sicurezza nei confronti del destino.
Allora della parola “salvezza”, come anche della parola “verità”, bisogna che si rompa l’involucro formale, perché qualsiasi cosa che l’uomo usi tende al formalismo. Qualsiasi rivoluzione e qualsiasi riforma – qualsiasi! – cadono immediatamente nel formalismo, nella standardizzazione, nello schematismo. C’è un peso d’inerzia dentro l’impeto umano per cui la ricchezza di tale impeto viene indirizzata verso la morte, subito! È il peccato originale, si dice.
Il peccato originale è la parola che sembra la più evacuabile dal nostro linguaggio – e, infatti, tanta teologia del postConcilio l’ha evacuata completamente -, perché non sembra, appunto, connettersi con nulla, sembra non coincidere con niente dell’esperienza, non avere aggancio a nessun fatto della vita; così tutto quanto il pensiero moderno la considera astratta e cerca di identificarla tutt’al più con un gap, con la distanza tra quello che l’uomo è e quello che deve essere. Perciò la parola “peccato originale” indicherebbe lo stadio inferiore di una evoluzione: il peccato originale sarebbe l’evoluzione che non è ancora avanti come dovrebbe. Mi spiego?
Invece no! Il peccato originale è un’idea essenziale dell’antropologia cristiana, e indica questo: qualunque sforzo, qualunque iniziativa che l’uomo prenda (intellettuale o pratica, di dottrina o affettiva), esistenzialmente scivola, tende a scivolare verso la morte, verso il formalismo, verso la sclerotizzazione totale.
Forse qualcuno ricorda il paragone che facevo a scuola, quello del filo: se io cammino su un filo a terra, ce la faccio bene. Ma prendete lo stesso filo e tiratelo su di cento metri: non ce la faccio più. Quindi, la capacità teorica, strutturale, di fare così, io ce l’ho, ma se la condizione esistenziale muta, non sono più capace di farlo: se voi me lo tirate su di cento metri, ci vuole un equilibrista.
È un paragone. La dottrina cattolica, del peccato originale dice questo: che l’uomo strutturalmente dovrebbe essere capace di fare certe cose, ma esistenzialmente si trova in una condizione tale – la sua situazione esistenziale - che è incapace di perseguire gli ideali che gli nascono dentro, e l’impeto ideale si corrompe in un rotolare verso la morte, subito!
È impressionante quanto questa idea cristiana, se la si fa agire nella propria esistenza, si riveli comprensiva dell’esistenza stessa.
Se uno non ha ancora sorpreso in se stesso questa corruzione dei suoi ideali più nobili come impeto originale (l’affezione alla donna, l’attenzione all’altro, la compassione per l’altro, la passione per la verità, il fascino che attira l’uomo verso la realtà e il cui volto immediato è la curiosità, il fascino travolgente della curiosità), se uno non ha ancora scoperto in se stesso la corruzione immediata che questi impeti nobili immediatamente assumono (è come se non stessero a galla, come se non riuscissero a stare all’altezza a cui l’impeto ci manda), non è ancora un uomo; è ancora un bambino.
[…]e quanto più uno pretende di crearsi da sé un sistema per correggere tale destinazione amara di quello che di più buono sente nascere in sé, tanto più genera una situazione illusa, che aggrava – alla fine – i termini della questione.
La presunzione dell’uomo di salvarsi da sé è all’origine di tutti i dispotismi, di tutti i terrorismi, di tutte le intolleranze, dalla società alla vita familiare, dalla vita consociata ai rapporti di amicizia.
Al cristiano a cui è stato portato l’annuncio della salvezza, viene tolta la disperazione e rimane questa tristezza illuminata e piena di speranza.
(Tracce Febbraio 2005)
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