lunedì, ottobre 31, 2005

Il Papa è hard Rock e l’abbè Pierre è hard sex

sabato, ottobre 29, 2005


A TORINO:
IL PAPA é ROCK
MA LA STAMPA è LENTISSIMA

Il Papa è Hard Rock

“Perché ha aperto ai divorziati”, parola di Adriano Celentano …
Il Sinodo dei Vescovi ha espresso un pensiero più articolato:

Proposizione 40

I divorziati risposati e l’Eucaristia

In continuità con i numerosi pronunciamenti del Magistero della Chiesa e condividendo la sofferta preoccupazione espressa da molti Padri, il Sinodo dei Vescovi ribadisce l’importanza di un atteggiamento e di un’azione pastorale di attenzione e di accoglienza verso i fedeli divorziati e risposati.

Secondo la Tradizione della Chiesa cattolica, essi non possono esser ammessi alla Santa Comunione, trovandosi in condizione di oggettivo contrasto con la Parola del Signore che ha riportato il matrimonio al valore originario dell’indissolubilità (cf. CCC 1640), testimoniato dal suo dono sponsale sulla croce e partecipato ai battezzati attraverso la grazia del sacramento. I divorziati risposati tuttavia appartengono alla Chiesa, che li accoglie e li segue con speciale attenzione perché coltivino uno stile cristiano di vita attraverso la partecipazione alla Santa Messa, pur senza ricevere la Santa Comunione, l’ascolto della Parola di Dio, l’Adorazione Eucaristica, la preghiera, la partecipazione alla vita comunitaria, il dialogo confidente con un sacerdote o un maestro di vita spirituale, la dedizione alla carità vissuta, le opere di penitenza, l’impegno educativo verso i figli.
Se poi non viene riconosciuta la nullità del vincolo matrimoniale e si danno condizioni oggettive che di fatto rendono la convivenza irreversibile, la Chiesa li incoraggia a impegnarsi a vivere la loro relazione secondo le esigenze della legge di Dio, trasformandola in un’amicizia leale e solidale; così potranno riaccostarsi alla mensa eucaristica, con le attenzioni previste dalla provata prassi ecclesiale, ma si eviti di benedire queste relazioni perché tra i fedeli non sorgano confusioni circa il valore del matrimonio.

Nello stesso tempo il Sinodo auspica che sia fatto ogni possibile sforzo sia per assicurare il carattere pastorale, la presenza e la corretta e sollecita attività dei tribunali ecclesiastici per le cause di nullità matrimoniale (cf. Dignitas connubii), sia per approfondire ulteriormente gli elementi essenziali per la validità del matrimonio, anche tenendo conto dei problemi emergenti dal contesto di profonda trasformazione antropologica del nostro tempo, dal quale gli stessi fedeli rischiano di esser condizionati specialmente in mancanza di una solida formazione cristiana.

Il Sinodo ritiene che, in ogni caso, grande attenzione debba esse assicurata alla formazione dei nubendi e alla previa verifica della loro effettiva condivisione delle convinzioni e degli impegni irrinunciabili per la validità del sacramento del matrimonio, e chiede ai Vescovi e ai parroci il coraggio di un serio discernimento per evitare che impulsi emotivi o ragioni superficiali conducano i nubendi all’assunzione di una grande responsabilità per se stessi, per la Chiesa e per la società, che non sapranno poi onorare.


Intanto, essendo Zapatero LENTISSIMO, il Vaticano s’è premunito di prepararlo psicologicamente comunicando con largo anticipo il programma della visita di Benedetto XVI in Spagna nel luglio 2006, in occasione del V Incontro Mondiale delle Famiglie cattoliche.

giovedì, ottobre 27, 2005

INTERRANTE


Lo Confesso!
Ebbene si: non ho resistito!
Anch'io ho mandato un sms per eliminare dall'Isola dei famosi Daniele Interrante.

mercoledì, ottobre 26, 2005

Last night I dreamt of San Pedro /2

Ovvero: IPOTESI SU SAN PIETRO o d’un’agiografia per la regia del teologo Giulio Base

La rappresentazione del “primato” di Pietro che ne da la fiction lascia molte perplessità.
Se si va a leggere la trama: “Pietro era il suo più fedele discepolo”,
“Pietro deve vincere le proprie debolezze e deve capire che gli è stata affidata un compito, il compito di tenere unita la comunità e di edificare spiritualmente e materialmente la Chiesa. Pervaso dai sensi di colpa per il rinnegamento e per non essere stato in grado di salvare il maestro, Pietro non si sente adeguato, non si sente all’altezza del compito.
Intanto dopo tre giorni Gesù risorge…”


Riverbero la mia perplessità per la mancanza di un totale smarrimento nella psicologia degli Apostoli. Il Venerdì Santo segna il crollo delle cose in cui avevano sperato, crolla la fede nella messianicità di Gesù.
La crocifissione è la prova che Gesù non è il Messia che doveva ristabilire il “regno di Dio”, e tutte quelle sue belle parole si dissolvono nella tomba insieme con lui.

Nella fiction -invece- a poche ore dalla morte di Cristo gli Apostoli “braccano” Pietro e lo eleggono “per acclamazione” loro capo: “adesso che non c’è più Gesù devi essere tu a guidarci!”
Quest’ansia di mettere al più presto fine alla “sede vacante” la troverei più appropriata in riferimento al conclave 2005, rispetto alle ore che seguirono la Passione.

A capo di cosa doveva mettersi Pietro?
E a quale scopo?
Continuare la missione di Gesù?
Ma qual era la missione di Gesù?



Dalla lettura dei Vangeli sappiamo che Gesù per quasi tre anni è andato in giro dicendo: «In verità vi dico: vi sono alcuni qui presenti che non morranno prima di aver visto il regno di Dio» (Lc 9,27).
«Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino» (Mc1,15).
Cioè: si è compiuto il tempo delle profezie bibliche che annunciavano la salvezza del popolo ebraico per mezzo del Messia inviato da Dio.
Gesù applica quelle profezie a se stesso: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi» (Lc 4, 16-21)
I suoi discepoli quindi credevano che Gesù fosse il Messia e la loro fede era rafforzata dai prodigi che egli compiva. Gli Apostoli erano convinti che in questo futuro “regno di Dio” loro avrebbero svolto il ruolo di “Consiglio dei Ministri”. Il Messia doveva essere discendente del re Davide per questo il futuro regno di pace e di giustizia, ed abbondanza (vedi moltiplicazione dei pani!) nelle menti degli Apostoli, coincideva con i confini dell’antico regno d’Israele. Lo stesso Gesù non faceva nulla per smentire questa ipotesi. Mentre una donna fenicia implorava un miracolo, i discepoli chiesero a Gesù: “Esaudiscila, vedi come ci grida dietro”, Gesù rispose: “Non sono stato inviato se non alle pecore perdute della Casa d’Israele” (Mt 15, 21-28)
Se gli Apostoli davano questa lettura della missione di Gesù è evidente che:
a) solo un profeta inviato da Dio con poteri soprannaturali poteva riuscirci
b) Gesù pur avendo quei poteri è morto senza instaurare il regno di Dio.
Persino dopo la Risurrezione gli Apostoli non si elevano ad una visione più spirituale della missione di Gesù. Scrive infatti Luca che durante una delle apparizioni gli domandarono: "Signore, è questo il tempo in cui ricostituirai il regno d’Israele?" (At 1,6)
Da queste premesse “evangeliche”, risulta chiaro che con la morte di Gesù il sodalizio degli Apostoli non aveva più alcun senso e alcun futuro. Soprattutto vista la brutta fine che era toccata al loro capo e indottrinatore, l’ultima cosa che gli Apostoli volevano era passare per un gruppo gerarchicamente organizzato.

Ma si dirà –come dicono infatti i discepoli della fiction- che Pietro è “la roccia”; che Gesù lo ha prescelto per essere a capo della comunità!
Il riferimento è al famosissimo episodio della “consegna delle chiavi” (Mt 16, 17-18) che però bisognerebbe prendere molto con le molle. Così come il fatto che nelle liste dei dodici Apostoli, che fanno gli Evangelisti, Pietro sia il primo della lista.
I Vangeli sono stati scritti con la stessa ottica delle detective stories, dove l’autore ha in testa da subito che l’assassino è il maggiordomo, perciò nel corso del romanzo vengono inseriti i vari indizi che porteranno al colpo di scena finale. Similmente gli Evangelisti, fermamente convinti della realtà della Resurrezione, hanno descritto la vita di Gesù alla luce del mistero pasquale e delle sue conseguenze. Per cui se negli Atti degli Apostoli emerge l’autorità carismatica di San Pietro ciò non vuol dire che nei tre anni precedenti fosse considerato un’autorità dagli altri Apostoli, ne tanto meno questa autorità gliela conferì Gesù!
La metafora delle “chiavi del regno” è un’espressione biblica che si riferisce alla cerimonia con cui gli antichi re d’Israele nominavano il primo ministro. Quindi Gesù avrebbe promesso a Pietro di metterlo a capo dell’esecutivo del suo futuro Governo del “regno dei cieli”. Ma questo non risulta abbia dato a Pietro alcun potere sopra gli Apostoli: rimaneva una promessa (“fonderò” “di darò” “ciò che legherai” “ciò che scioglierai”) da avverarsi in futuro.
Pietro non era per volontà di Cristo il leader incontrastato del gruppo degli Apostoli se nei Vangeli si parla di molte discussioni su chi di loro fosse il più grande! Persino durante l’Ultima Cena.! E quel “povero Cristo”, non rispose loro che Pietro era il suo vice, ma fece il gesto di lavare loro i piedi, per mostrare che chi più si ritiene grande ha il dovere di mettersi al servizio degli altri.

Nella fiction a ventiquatt’ore dall’Ultima Cena –invece- tutti proclamano che Cristo aveva scelto Pietro per guidarli. Ma Gesù non lo nominò mai suo successore, casomai promise di dargli la Presidenza del Consiglio nel suo Regno; promessa, che dopo la morte di Gesù, che valore poteva ancora avere, e per lui, e per gli altri?
E per inciso, leggendo il Vangelo, non risulta che Pietro fosse il “più fedele discepolo” di Gesù. Gli Evangelisti sono impietosi nel raccontare la goffaggine, l’ottusità e soprattutto l’incoerenza di san Pietro. In ultimo l’averlo apertamente rinnegato.

Il grande errore che solitamente fa la cinematografia, quando tocca questo argomento, è presentare “il primato” di Pietro come un premio al più affidabile quando invece il compito di pascere le pecorelle di Cristo –che Gesù da a Pietro solo dopo la Resurrezione!- vuol essere invece la dimostrazione plateale che quello veramente affidabile è Dio che rimane comunque fedele alle sue promesse nonostante l’infedeltà e l’incoerenza umana.

martedì, ottobre 25, 2005

Last night I dreamt of San Pedro /1

Ovvero: IPOTESI SU SAN PIETRO o d’un’agiografia per la regia del "teologo" Giulio Base.

Lunedì 24 ottobre ’05. La prima puntata della fiction religiosa si apre con la Madonna Lina Sastri ai piedi della croce.

Confesso di non aver mai visto una Addolorata così poco addolorata.
Ho sempre pensato che Lina Sastri sarebbe potuta essere perfetta nel ruolo della Madonna ma, in quest’interpretazione, la “santa donna”, sotto la croce del figlio, s’è limitata ad un poco convinto urletto di circostanza. Poi subito dopo “al funerale”, la Beata Vergine si rivolge a san Pietro venuto a porgerle le condoglianze (?!) dicendogli beatamente –corpore insepulto- che è inutile rammaricarsi di come la storia è andata a finire; tutto è andato come deve andare e bisogna mettersi l’animo in pace: in fondo l’ha voluto “Lui”!
“Signora mia!” – anzi Nostra Signora!- che lucidità! Ad un’ora, due ore, dall’atroce morte del figlio unico di madre vedova, ha già operato una rielaborazione del lutto che ha del miracoloso!
Ciò lo trovo storicamente e teologicamente disdicevole. Soprattutto il passo in cui la Santa Vergine, per nulla trafitta dallo spadone (come vorrebbe la logica umana e la pia tradizione) consola Pietro dicendogli grossomodo che Gesù anche da morto gli sarà vicino: basta invocarlo per sentirlo vicino a se!

Caro Giulio Base, che ti prendi la laurea in teologia per fare questi film, non avverti il senso della ridicola affettazione spiritualistica in un discorso del genere?
Forse tu e i tuoi sceneggiatori volevate mettere in bocca a cotanta santa degli ammaestramenti altamente spirituali e che avessero un valore catechistico per i pii telespettatori. Ma c’è una gran bella differenza tra sentire ancora vividamente il ricordo di un defunto e il credere nella reale presenza spirituale di un risorto!

Questa –non sottile!- differenza, nella fiction televisiva, non è per nulla rilevante tanto è vero che l’apparizione “a porte chiuse” di Gesù agli Apostoli perde di qualunque fondamento gnoseologico della realtà della resurrezione di Cristo. Gesù non trova gli Apostoli barricati e tremanti “per paura dei giudei” (e che hanno paura di aver di fronte un fantasma e che Gesù, per convincerli che è vivo, deve fargli toccare le piaghe e deve mangiare con loro del pesce arrosto) ma trova un Cenacolo con la porta spalancata per il via vai dei discepoli in fibrillazione che, a quarantott’ore dalla morte di Gesù, stanno già dandosi da fare per organizzare la Chiesa! È un Gesù che entra con la faccia di quello che dice: “E’ permesso? Passavo di qui, ho visto aperto e mi sono detto: andiamo a porgere un fraterno ‘ciao’ a quei simpatici esaltati!” Un Gesù che apparendo blocca l’opera apostolica: quasi un’azione di disturbo della “collegialità ecclesiale”. C’è da chiedersi che appaia a fare! Tanto tutti gli Apostoli, quella prima domenica di pasqua, andavano già in giro dicendo che Gesù era il Figlio di Dio e che era risorto!
Le apparizioni di Gesù, per il comitato teologico presieduto da “monsignor” Giulio Base, nulla aggiungono alla fede apostolica.

È forse inutile rammentare che una tale esposizione dei fatti è totalmente in contrasto con lo spirito e la lettera dei testi sacri?

Partiamo dal fatto che dalla lettura dei Vangeli si evince chiaramente che nei tre anni vissuti con Gesù gli Apostoli non avevano minimamente l’idea di essere una “Chiesa”.
Erano dodici discepoli tra i molti che però Gesù aveva scelto affinché stessero sempre con lui, notte e giorno, a cui poter parlare, non solo per parabole, per esporre apertamente la propria dottrina e la propria missione. Ma non è che gli Apostoli rispondano alle sollecitazioni teologiche con molto acume intellettuale!
Per esempio: mentre Gesù al pozzo di Sicar sta cercando di convertire la Samaritana, gli Apostoli lo interrompono chiedendogli se vuole mangiare.
Il Signore, disturbato mentre fa il suo mestiere di redentore, risponde: “ho da mangiare un cibo che voi non conoscete”, che è un modo gentile per dire: “non rompetemi le scatole mentre sto predicando la parola di Dio!”. Ma gli Apostoli si chiedevano l’un l’altro: “forse qualcun altro gli ha già portato da mangiare?”.
È assai difficilmente ipotizzabile che persone, di una tale finezza spirituale, abbiano in poche ore metabolizzato la morte di Gesù, tanto da invocare Pietro come loro capo che li guidi nella continuazione dell’”annunzio della lieta novella”; e, poi, quale lieta novella?

I Vangeli raccontano cose ben diverse.
1) L’unico Apostolo presente alla sepoltura di Gesù fu Giovanni. Pietro stava ben lontano per varie ragioni.

2) Il sabato gli Apostoli non correvano a destra e a manca per le vie di Gerusalemme sia perché la Legge di Mosè lo vieta sia perché erano terrorizzati dalla possibilità che anche loro venissero condannati a morte perché discepoli di un sovversivo bestemmiatore, anche questo in base alla Legge di Mosè.

3) Giovanni racconta che il primo giorno dopo il sabato la Maddalena disperata corre al Cenacolo per lamentare il furto del cadavere del Maestro. Nella fiction invece la Maddalena corre giuliva dagli Apostoli -trova la porta aperta!- annunciando che il corpo non c’è più quindi Gesù è risorto come aveva detto (la logicità e la linearità di un simile ragionamento alla Maddalena dei Vangeli è ignoto).

4) Giovanni (che è l’unico degli undici che sa esattamente dove e come è stato sepolto Gesù) corre al sepolcro seguito da Pietro. Giovanni, che è molto giovane, corre e arriva per primo vede le bende ma non entra: aspetta Pietro. Lo fa non perché ne riconosce il primato pontificio ma perché la mamma gli ha insegnato ad avere rispetto per gli anziani; è possibile che, oltre sessanta anni dopo (avendo noi presente la forte valenza mistica che Giovanni dà alle parole), nello scrivere il suo Vangelo abbia voluto dare un significato spirituale alla notizia che è Pietro il primo in assoluto ad entrare.
Ma nonostante qualunque postumo misticismo, Giovanni dice chiaramente che non Pietro ma lui vide e credette. Infatti solo Giovanni poteva fare una comparazione tra ciò che vedeva in quel momento e come era stato sepolto Gesù due giorni prima.

Nella fiction Pietro alla vista delle bende è preso da grande gioia e crede che Gesù è vivo.Luca scrive: «Pietro tuttavia corse al sepolcro e chinatosi vide solo le bende. E tornò a casa pieno di stupore per l’accaduto » (Lc24,12).Stupore, non fede!

Giovanni dice: «Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Non avevano infatti ancora capito la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti. I discepoli intanto se ne tornarono di nuovo a casa.» (Gv 20, 8-10).
Ma se erano in due, e Giovanni credette, chi saranno mai questi che non capivano le profezie bibliche se non Pietro stesso e gli altri discepoli rimasti chiusi in casa?

A questo punto sì che arriva la Maddalena tutta giuliva ad annunciare che Cristo è risorto! Ma non in base a delle sue devote considerazioni (come invece fa la Maddalena della fiction) ma perché lo ha visto, lo ha toccato, ci ha parlato!
I discepoli alle parole delle donne non si scompongono più di tanto. «Quelle parole parvero loro come un vaneggiamento e non credettero ad esse.» (Lc 24,11).

Sintetizza "simpaticamente" il Vangelo di Marco:
«Risuscitato al mattino del primo giorno dopo il sabato, apparve prima a Maria di Magdala, dalla quale aveva cacciato sette demoni.
Questa andò ad annunziarlo ai suoi seguaci che erano in lutto e in pianto. Ma essi udito che era vivo ed era stato visto da lei, non vollero credere.
Dopo ciò, apparve a due di loro sotto altro aspetto, mentre erano in cammino verso la campagna. Anch’essi ritornarono ad annunciarlo agli altri; ma neanche a loro vollero credere.
Alla fine apparve agli undici, mentre stavano a mensa, e li rimproverò per la loro incredulità e durezza di cuore, perché non avevano creduto a quelli che lo avevano visto resuscitato.»
(Mc 16, 9-14)

5) È un dato evidente che Marco, Luca e Giovanni, nel raccontare i fatti seguenti alla Resurrezione fanno particolarmente menzione di Pietro. Ciò è indicativo della venerazione delle prime comunità cristiane per quello che nelle liste dei dodici Apostoli viene messo, non a caso, al primo posto.
Scrive Luca che i discepoli di Emmaus tornati a Gerusalemme per annunciare di aver visto Gesù trovarono i discepoli che dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone».
Quest’evento Luca lo inserisce prima dell’apparizione serale a tutti gli Apostoli riuniti nel Cenacolo. Quindi dopo la Maddalena, Gesù sembrerebbe essere apparso a Pietro da solo, e prima, rispetto agli altri Apostoli mentre questi tornava dal sepolcro ancora turbato per ciò che aveva visto.
Solo Luca fa questo accenno, nemmeno i vangeli apocrifi, che amano abbondare in particolari fantasiosi, ne parlano quindi Giulio Base, o chi per lui, ha immaginato un Pietro che inquieto, di ritorno dal sepolcro, fa la carità ad un mendicante che poi si rivela essere Gesù in persona.
Si è voluto marcare la predilezione di Cristo –e della Chiesa- per i poveri?
Ma più che ai fioretti di San Francesco la pia invenzione sembrerebbe essere ispirata ad una fiaba dei fratelli Grimm.

mercoledì, ottobre 19, 2005

Gaia (incoscienza)

Ovvero: il pianeta di Mario (Fan)Tozzi

Il volto noto della divulgazione scientifica targata Rai, è stato denunciato da un ascoltatore di Radio Rai per il linguaggio volgarmente offensivo con cui il geologo ha picconato la Chiesa cattolica durante un dibattito radiofonico.
C’è stata un’interpellanza parlamentare per chiedere conto della veridicità o meno delle accuse su cui indaga la Procura di Roma.
Il ministro per i rapporti col Parlamento Carlo Giovanardi ha risposto affermativamente dopo aver consultato la trascrizione del programma radiofonico imputato dichiarando che «dalla sbobinatura dell’intervento risultano invece confermate tali affermazioni, se possibile ancor più offensive di quanto da più parti segnalato».
Frasi offensive contro Ruini che se non indirizzate contro un Cardinale di santa romana Chiesa ma contro un rabbino o un imam sarebbero costate a Mario Tozzi la gogna mediatica.
Eccone lo spassoso sunto che ne fa Paolo Passa sul Giornale

Tozzi esordisce: «Parliamo di rifiuti speciali (...) quelli tossici, quelli che intossicano, quelli nocivi (...) ci sono pure a Città del Vaticano».
Siamo in pieno dibattito sulle coppie di fatto. La posizione della Cei, per il geologo, è «un'intossicazione della vita sociale», produce «tossine», e «ci tocca sciropparci Ruini, quella specie di prugna secca... Penso si possa dire prugna secca, non lo so...». Il conduttore prova ad arginarlo, lui insiste: «Voglio finire di dire... queste tossine... questi rifiuti sparsi nel nostro Paese andrebbero eliminati, portati via, spazzati via...». Come? «Non si riescono a eliminare per via tradizionale, guarda che, a proposito di rifiuti, appunto sempre parlando sotto metafora s'intende, a Napoli c'è qualcuno che fa sparire tutto per 500 euro...».
Un ascoltatore protesta: «Più tossico di Mario Tozzi dove lo potevate trovare...», e giù con commenti coloriti. Il geologo ironizza: «Che succede, è il tasso alcolico di prima mattina! Ascoltatore mio, come stai, non ti preoccupare io bado alla mia salute, lei badi alla sua perché mi sembra in pericolo».
Un altro invece solidarizza con Tozzi, che gongola: «Zombi mattutini, esatto, perché gli ho toccato prugna secca...».
Un terzo ascoltatore ha la «sventura» di nominare monsignor Tommaso Stenico. Alla parola «monsignore» Tozzi inorridisce: «Ah!... aspetta che tocco l'aglio!». E ancora: il Vaticano dovrebbe andare «duemila anni a Cracovia», le chiese «buttiamole giù, con la ruspa, con le pale, con la dinamite, con il fuoco...». Altro ascoltatore: «Mi sento disturbato» dice, contestando Tozzi che sbotta: «Lei si limiti a riflettere, mi pare che non ci riesce».
Nuova telefonata, il conduttore saluta monsignor Stenico. Il geologo dà il meglio di sé: «Ancora Tommaso, fuori da questo Paese... prugna secca parlasse nelle chiese, stesse duemila anni a Cracovia (...) Tommaso non ne posso più, sgombrate il campo, voi intossicate il Paese, basta! (...) La gran puttana descritta da Dante te la ricordi? Sempre la stessa chiesa era...».
La conversazione va avanti, Tozzi a inveire e l'interlocutore, senza scomporsi, ad argomentare. Sarà per questo che lo scienziato, nel bel mezzo della discussione, ha lasciato gli studi.
Forse un impegno improvviso.

martedì, ottobre 18, 2005

Clericis Laicos

All'Onorevole Senatore MARCELLO PERA
Presidente Onorario della Fondazione Magna Carta

Ho appreso con piacere che la Fondazione Magna Carta e la Fondazione per la Sussidiarietà hanno promosso a Norcia un incontro di studio sul tema "Libertà e laicità".
... ... ...
... Formulo poi l'auspicio che la riflessione che si farà al riguardo tenga conto della dignità dell'uomo e dei suoi diritti fondamentali, che rappresentano valori previi a qualsiasi giurisdizione statale. Questi diritti fondamentali non vengono creati dal legislatore, ma sono inscritti nella natura stessa della persona umana, e sono pertanto rinviabili ultimamente al Creatore.
Se, quindi, appare legittima e proficua una sana laicità dello Stato, in virtù della quale le realtà temporali si reggono secondo norme loro proprie, alle quali appartengono anche quelle istanze etiche che trovano il loro fondamento nell'essenza stessa dell'uomo. Tra queste istanze, primaria rilevanza ha sicuramente quel "senso religioso" in cui si esprime l'apertura dell'essere umano alla Trascendenza.
Anche a questa fondamentale dimensione dell'animo umano uno Stato sanamente laico dovrà logicamente riconoscere spazio nella sua legislazione. Si tratta, in realtà, di una "laicità positiva", che garantisca ad ogni cittadino il diritto di vivere la propria fede religiosa con autentica libertà anche in ambito pubblico.

Per un rinnovamento culturale e spirituale dell'Italia e del Continente Europeo occorrerà lavorare affinché la laicità non venga interpretata come ostilità alla religione, ma, al contrario, come impegno a garantire a tutti, singoli e gruppi, nel rispetto delle esigenze del bene comune, la possibilità di vivere e manifestare le proprie convinzioni religiose. Con tali voti, mi è gradito rinnovare a Lei ed ai partecipanti al Convegno il mio deferente e cordiale saluto. Benedetto PP XVI


Quale degna glossa alle parole ratzingeriane,propongo la puntuale disamina che ne fa questo eminentissimo blogger

lunedì, ottobre 17, 2005

Der Papst "cciofane" /2



Andrea: «Caro Papa, quale ricordo hai del giorno della tua prima Comunione?»

Innanzitutto vorrei dire grazie per questa festa della fede che mi offrite, per la vostra presenza e la vostra gioia. Ringrazio e saluto per l'abbraccio che ho avuto da alcuni di voi, un abbraccio che simbolicamente vale per voi tutti, naturalmente. Quanto alla domanda, mi ricordo bene del giorno della mia Prima Comunione.
Era una bella domenica di marzo del 1936, quindi 69 anni fa. Era un giorno di sole, la chiesa molto bella, la musica, erano tante le belle cose delle quali mi ricordo. Eravamo una trentina di ragazzi e di ragazze del nostro piccolo paese, di non più di 500 abitanti. Ma nel centro dei miei ricordi gioiosi e belli sta questo pensiero - la stessa cosa è già stata detta dal vostro portavoce - che ho capito che Gesù è entrato nel mio cuore, ha fatto visita proprio a me. E con Gesù Dio stesso è con me. E che questo è un dono di amore che realmente vale più di tutto il resto che può essere dato dalla vita; e così sono stato realmente pieno di una grande gioia perché Gesù era venuto da me. E ho capito che adesso cominciava una nuova tappa della mia vita, avevo 9 anni, e che adesso era importante rimanere fedele a questo incontro, a questa Comunione. Ho promesso al Signore, per quanto potevo: "Io vorrei essere sempre con te" e l'ho pregato: "Ma sii soprattutto tu con me". E così sono andato avanti nella mia vita. Grazie a Dio, il Signore mi ha sempre preso per la mano, mi ha guidato anche in situazioni difficili. E così questa gioia della Prima Comunione era un inizio di un cammino fatto insieme. Spero che, anche per tutti voi, la Prima Comunione che avete ricevuto in quest'Anno dell'Eucaristia sia l’inizio di un'amicizia per tutta la vita con Gesù. Inizio di un cammino insieme, perché andando con Gesù andiamo bene e la vita diventa buona.…… ...

Anna: «Caro Papa, ci puoi spiegare cosa voleva dire Gesù quando ha detto alla gente che lo seguiva: "Io sono il pane della vita"»?


Allora dobbiamo forse innanzitutto chiarire che cos'è il pane. Noi abbiamo oggi una cucina raffinata e ricca di diversissimi cibi, ma nelle situazioni più semplici il pane è il fondamento della nutrizione e se Gesù si chiama il pane della vita, il pane è, diciamo, la sigla, un'abbreviazione per tutto il nutrimento. E come abbiamo bisogno di nutrirci corporalmente per vivere, così anche lo spirito, l'anima in noi, la volontà, ha bisogno di nutrirsi. Noi, come persone umane, non abbiamo solo un corpo, ma anche un'anima; siamo persone pensanti con una volontà, un’intelligenza, e dobbiamo nutrire anche lo spirito, l'anima, perché possa maturare, perché possa realmente arrivare alla sua pienezza. E, quindi, se Gesù dice io sono il pane della vita, vuol dire che Gesù stesso è questo nutrimento della nostra anima, dell'uomo interiore del quale abbiamo bisogno, perché anche l'anima deve nutrirsi. E non bastano le cose tecniche, pur tanto importanti. Abbiamo bisogno proprio di questa amicizia di Dio, che ci aiuta a prendere le decisioni giuste. Abbiamo bisogno di maturare umanamente. Con altre parole, Gesù ci nutre così che diventiamo realmente persone mature e la nostra vita diventa buona.

Adriano: «Santo Padre, ci hanno detto che oggi faremo l'Adorazione Eucaristica? Che cosa è? Come si fa? Ce lo puoi spiegare? Grazie»

Allora, che cos'è l'adorazione, come si fa, lo vedremo subito, perché tutto è ben preparato: faremo delle preghiere, dei canti, la genuflessione e siamo così davanti a Gesù. Ma, naturalmente, la tua domanda esige una risposta più profonda: non solo come fare, ma che cosa è l'adorazione. Io direi: adorazione è riconoscere che Gesù è mio Signore, che Gesù mi mostra la via da prendere, mi fa capire che vivo bene soltanto se conosco la strada indicata da Lui, solo se seguo la via che Lui mi mostra. Quindi, adorare è dire: «Gesù, io sono tuo e ti seguo nella mia vita, non vorrei mai perdere questa amicizia, questa comunione con te». Potrei anche dire che l'adorazione nella sua essenza è un abbraccio con Gesù, nel quale gli dico: «Io sono tuo e ti prego sii anche tu sempre con me».

Bene! Bravo: 7+!

Ovvero:Otto e mezzo

Venerdì 14 ottobre ’05, facendo zapping mi sono imbattuto nelle barbe di Giuliano Ferrara e di Gad Lerner che intervistavano il dissidente, teologo, Hans Küng (o teologo dissidente, se si preferisce).
Tema: il dialogo tra cristiani e mussulmani; prendendo spunto dall’ultima fatica del teologo svizzero che, dopo le monografie dedicate al Cristianesimo e all’Ebraismo, ha dato alle stampe un tomo sull’Islam.

Il buon Ferrara ha cercato di impelagare Küng nelle sue battaglie culturali cui il teologo si è salomonicamente sottratto.
Trovo giusto che uno studioso di dottrine teologiche relativizzi il peso delle recriminazioni di carattere politico. È anzi opportuno che il teologo prenda le distanze da qualunque contingente revanscismo storico ma è anche molto istruttivo per lo spettatore rendersi conto delle motivazioni per cui un teologo ( e nel caso di Küng anche prete sospeso a divinis) si dia cuore di sfornare libri sul tema del dialogo interreligioso.
Küng definisce: “medievale” ogni atteggiamento critico verso l’Islam, definitivamente superato grazie al Concilio Vaticano II.

Or bene:la dichiarazione “Nostra Aetate”, nello spirito pastorale del Concilio Vaticano II, esprime “Nel nostro tempo in cui il genere umano si unifica di giorno in giorno più strettamente e crescere l’interdipendenza tra i vari popoli” la volontà della Chiesa Cattolica“di promuovere l’unità e la carità tra gli uomini, ed anzi tra i popoli”. “I vari popoli costituiscono, infatti, una sola comunità. Essi hanno una sola origine”.

Se la Chiesa però parla di dialogo non lo fa rinunciando alle sue pretese teologiche e dogmatiche, ma proprio perché la Chiesa cattolica distingue tra i diversi livelli e la diversa importanza esistente tra le verità teologiche.
Infatti la Chiesa insegna che anche senza la fede, ma con il solo uso del “lume razionale” l’uomo può riuscire a pensare all’esistenza di un Dio, unico, di natura spirituale, eterno, perfettissimo, trascendente il mondo che Egli ha creato; l’esistenza dell’anima immortale; distinguere i Bene dal Male ed a considerare la possibilità di un premio o una punizione ultraterrena dopo la morte.
Non c’è necessità d’essere cattolico per ritenere fermamente come vere queste affermazioni! Sono invece a fondamento di qualunque ricerca, ed approdo, spirituale. Sono quel che si definisce naturale “senso religioso”dell’essere umano (l’espressione è stata usatissima da Luigi Giussani ma non è stata certo una sua invenzione!). Sono quello che i Padri della Chiesa chiamavano “semi del Verbo” presenti abbondantemente nella filosofia pagana.

La dimensione in cui vive l’uomo religioso, questo suo personalissimo rapporto con il Totalmente Altro, può e deve essere fonte di rispetto e di stima che affratelli chiunque si rapporti al Trascendente. Ed il rapportarsi dell’uomo al Totalmente Altro si chiama preghiera. Utilizzando una celebre formulazione di sant’Alfonso de Liguori si può dire che: “chi prega si salva , chi non prega si danna”. Quindi è dogma di fede cattolica che il mussulmano (pur considerando bestemmie i fondamentali dogmi cristiani) che prega cinque volte al giorno ha infinite probabilità in più di andare in paradiso rispetto al cattolico che va a messa in occasione di matrimoni e funerali.

È perciò giusto e doveroso per un cattolico dialogare con i non cristiani e, i non credenti, intorno alle problematiche esistenziali –Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai- senza per questo dover scomodare la Santissima Trinità, la Madonna di Fatima e Padre Pio.
La fede soprannaturale nel Figlio di Dio si pone su un altro livello! Risponde ad altre domande e a problematiche più “raffinate” rispetto a: “L’universo è stato creato o si è formato da solo?”
Diverso è meditare sul perché delle cose, sulla ipotesi di una Causa incausata, sul principio di Necessità; su un altro piano si pone invece la riflessione sulla Grazia, la Misericordia, l’azione dello Spirito Santo etc…“Mirabile e stata la Creazione ma ancora più mirabile la Redenzione”, recitava l’antica liturgia.

Non c’è nulla di “eretico” o di poco devoto, perciò, nelle riflessioni intellettuali di Küng finalizzate alla fondazione di un’etica della pacifica convivenza religiosa. Su questo punto ha ricevuto addirittura la benedizione di Benedetto XVI che fino a prima dell’elezione era definito spregiativamente da Küng: il grande inquisitore. E non è che “il grande inquisitore” mutando abito abbia mutato anche idee: il modo cattolico di pensare il fenomeno religioso è completamente diverso da quello della maggior parte delle denominazioni protestanti per le quali prima di affrontare qualunque discorso spirituale devi accettare Gesù “come tuo personale Signore e Salvatore”, ma anche diverso dalla forma mentis islamica per cui “così è perché così dice il Corano”.
E questa profonda differenza di metodo ermeneutico tra Cattolicesimo ed Islam è stato il tasto su cui, forse maliziosamente ma pertinentemente, ha martellato Giuliano Ferrara.

Il Corano è un dettato di Dio al Profeta; la Bibbia è solo ispirata da Dio, questo può essere un fattore di inconciliabilità non tanto teologica quanto psicologica tra cristiani e mussulmani?
Giuliano Ferrara ha posto quesiti teologici cui il teologo Hans Küng non ha voluto rispondere, rammentando che le differenze profonde esistono e tutte le problematiche teologiche sono disaminate nel suo libro, si vada perciò a comprare il suo libro, ma che il fine del dialogo è far uscire allo scoperto l’Islam moderato, per mezzo del quale provocare un progresso generale nell’Islam come il Concilio Vaticano II ha prodotto un profondo cambiamento della Chiesa cattolica. Testuali parole: l’Islam oggi si trova nelle stesse condizioni della Chiesa cattolica romana prima del Vaticano II.
Al che Giuliano Ferrara gli ha fatto presente che l’affermazione “è un po’ forte”; che è un modo gentile per dire: “lei è un cretino”.
Non si può minimamente paragonare la Chiesa di Pio XII e la sua “battaglia” contro il Comunismo alla “battaglia” contro ebrei e crociati degli ideologi di Al Quaida! Il Cristianesimo ha superato la boa del suo XXI secolo, l’Islam è nel XV secolo della sua storia: non è minimamente in una situazione simile alla Chiesa cattolica prima del VaticanoII, casomai prima di Lutero, se si vuol continuare ad insistere su questa discutibile comparazione.

Allora il telespettatore capisce che quella di Küng non è sano distacco accademico, ma che quando dice che con il VaticanoII tutto è cambiato sta pensando ad un concilio che c’è stato solo nella sua testa. Rivendica la sua opera di teologo sessantottino al fine di promuovere l’unico progresso possibile del cattolicesimo: la protestantesizzazione. E non essendoci riuscito, alla sua veneranda età, gioca a fare il teologo demolitore dell’Islam “cattivo”, rammaricandosi che i musulmani non possono però avere un Papa, un Concilio e un Magistero che possa veicolare il “progresso” religioso da lui auspicato. E questa continua, implicita, equiparazione tra Cattolicesimo ed Islam fondamentalista denota la cattiva coscienza del vecchio professore.

A questo punto la delusione di Ferrara, e nostra, è grande. Tutto il lavoro di dialogo teologico cristiano-islamico si riduce al pio desiderio che i mussulmani diventino meno “medievali”?.

Dove sono le fondamenta teologiche del dialogo interreligioso proclamate dal tanto osannato Concilio Vaticano II?
Dove il proficuo connubio tra Fede e Ragione?

Grazie professor Küng: m’è venuta voglia di rileggermi la Nostra Aetate.

venerdì, ottobre 14, 2005

Vite Parallele

Ovvero: Mr. Lapo Wonka

Willy Wonka era un bambino che desiderava solo un’infanzia normale, ma ebbe la ventura d’essere il figlio di un dentista “fondamentalista” il cui unico sogno era che il proprio figlio sfoggiasse un cavo orale perfetto. Così impose al piccolo Willy un super mega apparecchio ortodontico e gli vietò di mangiucchiare tutto ciò che fosse foriero di carie e tartaro: in primis la cioccolata! Ma il piccolo Wonka cominciò ad assaggiare praline al cioccolato di nascosto dal padre, appuntando su un taccuino i differenti gusti e retrogusti, divenendo un vero esperto del cioccolato fino a prendere coscienza della propria vocazione pasticcera!

Il padre non ne volle più sapere di lui.

Divenne un grande pasticcere Willy Wonka.

Riusciva a costruire palazzi di cioccolato: i mattoni erano di cioccolato, il cemento era cioccolato, e per evitare che un simile palazzo si liquefasse, riuscì pure ad inventare un cioccolato che non si squagliasse sotto il picchiare dei raggi del sole!

Willy Wonka era un genio, completamente assorbito dal suo mondo cioccolatoso, e questo lo rendeva diverso dalla massa degli uomini: era un po’ eccentrico nel modo d’esprimersi e nel modo di vestire; forse perché tutte le sue energie intellettuali erano indirizzate allo sviluppo della sua strabiliante fabbrica (che Mr Wonka cercava di rendere continuamente più strabiliante!), e forse anche a causa delle tristi vicende familiari di cui abbiamo detto.

Visto il proliferare di spie che rubavano le sue miracolose ricette dolciarie, Willy Wonka licenziò tutto il personale e si rinchiuse per sempre nel suo universo dolcemente parallelo in compagnia degli Umpa Lumpa: una popolazione di strani uomini che amano esibirsi in spettacoli canterini e soprattutto che adorano nutrirsi di cacao.

Ma come dice il saggio: quando “i grandi” dicono “per sempre”, in realtà vogliono dire “per tanto tempo”.
Infatti un brutto giorno, scoprendo il suo primo capello bianco, Willy Wonka decide di indire un concorso mondiale per scegliere un bimbo cui lasciare in eredità la fabbrica di cioccolato, e così riaprono i cancelli della fabbrica delle meraviglie per cinque fortunati bambini.
Willy Wonka, con tutti i suoi problemi affettivi irrisolti, ovviamente farà vincere il bimbo meno “rompicoglioni”. Ma il bimbo in questione (tanto buono e bravo) non ha nessuna intenzione di abbandonare la propria famiglia “povera ma onesta”.
Questo metterà in crisi Willy Wonka che riuscendo finalmente a rappacificarsi con la figura paterna, potrà così vivere felice con il bravo bimbo e tutta la sua famiglia “povera ma onesta” per la quale, all’interno della fabbrica di cioccolato, ideerà una casetta di marzapane che nelle fredde sere d’inverno viene innevata da una pioggia di zucchero a velo.


Lapo Elkann, nipote dell’Avvocato Agnelli e figlio di un fine giornalista intellettualoide, è cresciuto in un mondo dorato.
Ha avuto la possibilità di frequentare le migliori scuole, ovviamente rigorosamente all’estero: tra Inghilterra e Stati Uniti, e ciò è riscontrabile nel suo peculiare approdo al Modo Congiuntivo della Lingua italiana che lo rende tanto snob e che ce lo rendono tanto simpatico.

Il simpatico snobismo di Lapo Elkann è ancor più evidente nell’abbigliamento elegantemente strampalato che vuol rinnovare presso il pubblico giovane la maschia civetteria per la quale nel dopoguerra era famoso l’allora giovane ed affascinante Avvocato.

Lapo, insieme al fratello maggiore, a causa di una serie di lutti, s’è trovato ad essere l’erede della dinastia Agnelli. Ma lui più del fratello John, è considerato dall’opinione pubblica l’erede di Gianni Agnelli proprio per l’aver rinnovato i fasti mondani della famiglia. Sarà per l’erre moscia, per l’accompagnarsi con stelle e stelline del mondo dello spettacolo, ma anche per la passione con cui s’è impegnato per rendere pubblicitariamente appetibile ai giovanissimi il marchio della fabbrica di famiglia. Operazione quasi impossibile per cui è necessaria davvero tanta buona volontà e tanta pazienza!

Il 10 ottobre tutti abbiamo scoperto come Lapo cercasse di sfuggire alla pressione ed alla tensione del proprio ruolo pubblico chiudendosi in un suo angusto mondo fatto di festini a base di cocaina e di sessualità equivoca.

Infondo è solo un maschio ventottenne come tanti (i soldi non fanno la felicità, signoramia!)
Lapo (se lo chiamiamo tutti per nome è perché lo consideriamo di famiglia in fondo) ha le fragilità dei suoi coetanei proletari. Sniffa per non sentire “il vuoto di senso” (tema oggidì tanto caro alla poetica degli intellettuali di sinistra) e per questo è scusato dalle madri italiane.
Va con i trans, denudando così la ferita psicologica d’una generazione di maschi che non riesce a metabolizzare l’evoluzione della relazione uomo-donna, e questo gli accattiverà la complice benevolenza degli uomini italiani.

Lapo è uscito dal coma farmacologico cui l’avevano sottoposto precauzionalmente i medici. Ha ripreso conoscenza e ha ricevuto le visite dei familiari. Questo momento di crisi magari gli servirà per creare un più franco rapporto con il padre Alain, con il quale secondo il mio personalissimo giudizio, ha intellettualmente ben poco in comune.

Lo manderanno sicuramente in una clinica svizzera di disintossicazione e la mamma gli troverà uno psicanalista tanto bravo.
Lapo capirà che ormai è quasi un ometto e che deve mettere la testa a posto. Trovarsi una moglie, ovviamente nobile e distinta (e soprattutto tanto discreta!) e mettere al mondo dei bimbetti che tramandino l’erre moscia di famiglia.

Poi, in quei momenti in cui “la carica” si sarà un po’ affievolita, un Lapo che avrà raggiunto un migliore equilibrio con se stesso potrà, ogni tanto, anche farsi po’ di “neve”.

martedì, ottobre 11, 2005

onomastico virtuale


Quando Ci proposero l’apertura di un weblog ,
dovendolo Noi battezzare (ciò s’addice al veritiero padre!), vollimo scegliere di porre questo blog sotto la propiziatrice nomèa di quel Santo Duca, Nostro omonimo, che sempre fu, nella Nostra mente, una delle più eloquenti personalità del “Siglo de oro”.
ParveCi quasi arguto motto che palesasse la Nostra ironia a fil di spada, e fosse opportuno ammanto e protezione alle Nostre invettive poco acconce al Galateo odierno.
Oltrechè, non di meno, meravigliar, e far star sospesi, i rari viatori tra le fila mediatiche del Nostro aracnide parto.

Stupore e compiacimento-lo confessiamo!-, inarcano le Nostre sopracciglia quando abbiamo la ventura di scoprire che dei benevoli Nostri leggitori, benignissimamente, hanno decretato d’onorarci ponendo il nostro umillimo blog, tra i link preferiti che, quasi stelle fisse, troneggiano nell’empireo della home page di codesti weblog.

Colgo l’occasione della gloriosa memoria del sullodato patrocinio per porgere fervidi voti a coloro che si sono affezionati al Nostro inutile blog.

Ed inoltre porgo una “Grida” ch’avvisi il benevolo lettore della necessità di un surplus di benevolenza nei Nostri riguardi, se giammai fosse invogliato a porre un ‘comment’ sul negro talamo dei Nostri post.
Indarno potrete or mai commentare anonimamente! Abbiamo dato ordine alle maestranze d’obbligare i volenterosi commentatori a sottomettersi a delle propedeutiche ‘forche caudine’ consistenti nel tracciare un proprio “profilo” su Blogger.

Spero vivamente che ciò non sia di nocumento delle altrui volontà dialettiche.

In fede ( speranza e scarsa carità),

l’umillimo
Francisco de Borja




(PS: e poi c’è pure qualcuno che pensa che questo sia un blog serio!)

lunedì, ottobre 10, 2005

Beati tedeschi

Ovvero: appunti di una beatificazione.

Se Giovanni Paolo II non fosse morto ad aprile oggi avremmo potuto ricordare la beatificazione del cardinale Clemens August von Galen, assieme ad altri santi preti e sante suore, celebrata in piazza san Pietro sotto il tiepido sole di domenica 24 aprile 2005.
Quella domenica invece in piazza san Pietro si è svolta la cerimonia di inizio del pontificato di Benedetto XVI ragion per cui quella beatificazione non solo è stata rimandata, ma anche non più celebrata poiché Benedetto XVI, non intendendo più presiedere personalmente le beatificazioni -avocando a se le sole canonizzazioni-, ha smembrato quella cerimonia originariamente fissata al 24 aprile, in tante cerimonie (quasi quanti sono i nuovi beati) presiedute dal cardinale prefetto della Congregazione delle cause dei Santi.

Non è una vera innovazione.
Fu Paolo VI nel ’71 a presiedere per la prima volta una beatificazione: quella di Massimiliano Kolbe, quale segno d’omaggio alla cattolicissima Polonia, nazione “martire” tra nazismo e comunismo. L’esperimento venne giudicata da papa Montini, pastoralmente efficace per cui decise di proclamare personalmente non solo i santi ma anche i beati, e papa Woytjla ne ha imitato l’esempio.

Prima era ben diverso: le canonizzazioni (sempre multiple) erano rare ed erano una delle pochissime occasioni per vedere il Sommo Pontefice celebrare dentro la Basilica Vaticana; fino a tutto il pontificato di Giovanni XXIII, infatti, quasi tutte le rarissime messe celebrate in pubblico del papa erano celebrate dentro alla Cappella Sistina.
Le beatificazioni invece (sempre singole), venivano celebrate, al mattino, dal cardinale arciprete della basilica di San Pietro all’altare della Cattedra poi al pomeriggio il Sommo Pontefice scendeva in basilica a venerare le reliquie del nuovo beato.

È indubbio che lo snellimento del processo di canonizzazione voluto da Giovanni Paolo II ha aumentato enormemente il numero dei nuovi santi, ma soprattutto quello dei beati!

Preoccupazione del Papa teologo è stata probabilmente quella di far percepire al fedele la netta distinzione teologica tra l’essere beato e l’essere santo, ed ha declinato ai cardinali il presiedere ai riti di beatificazione per evitare accuratamente che i fedeli possano considerare la canonizzazione un doppione della cerimonia di beatificazione.

Altra novità delle beatificazioni ratzingeriane sarà la loro “devolution”.
I Servi di Dio la cui beatificazione, regnante Giovanni Paolo II, era stata prevista a San Pietro verranno elevati agli onori degli altari a Roma ma d’ora in poi i riti di beatificazione avverranno nelle patrie e nelle diocesi d’appartenenza dei Servi di Dio. Ciò significa che se la decisione di procedere alla beatificazione del “Leone di Münster” fosse stata presa sotto il pontificato ratzingeriano, oggi, il rito di beatificazione del Cardinal von Galen si sarebbe svolto sotto le volte gotiche del duomo di Münster e non sotto il cupolone michelangiolesco.

Ma Clemens August von Galen era pur sempre un cardinale di santa romana Chiesa; e non capita tutti i giorni di beatificare un cardinale; così che rispetto ad altri “beatificandi” è stata riservata una maggiore cura organizzativa alla cerimonia per il “Leone di Münster”, avvenuta il 9 ottobre ’05 , non foss’altro per la comune origine tedesca col Sommo Pontefice “ccioiosamente” regnante e per l’alto valore storico della sua opera pastorale che lo pose in collisione col regime nazista e la sua ideologia anticristiana e neopagana.


L’aristocratico vescovo Clemens August von Galen, si oppose strenuamente alla soppressione dell’ora di religione che nei piani dei nazisti doveva essere sostituita con indottrinamento hitleriano della gioventù; si oppose alla politica di asservimento della Chiesa, e dei suoi beni economici, ai fini bellici; denunciò la politica di sterminio dei portatori di handicap e condannò la discriminazione delle minoranze. Forse fu l’unico uomo pubblico che in Germania si oppose apertamente contro la politica nazista, tanto da essere definito dal New York Times «il più accanito oppositore del regime nazionalsocialista» e gli alleati lanciavano sopra Berlino persino volantini con i testi delle sue prediche.

Hitler voleva condannarlo a morte ma ciò avrebbe significato suscitare l’opposizione di tutta la cattolica regione della Westfalia, decise perciò di rimandare la propria vendetta alla fine della guerra. Non potendolo colpire direttamente, a mo d’intimidazione, vennero condannati ai campi di concentramento 42 ecclesiastici della diocesi di Münster di cui 10 non sopravvissero agli stenti.
Il Cardinale stesso sopravvisse miracolosamente alle “moral bombs” sganciate dagli alleati sul duomo di Münster.
Durante l’occupazione alleata, poi, protestò veementemente presso il comando britannico per i maltrattamenti nei confronti degli uomini e degli stupri delle donne operate dalle truppe d’occupazione.

Il vescovo von Galen in tutta la sua azione pastorale tenne sempre in grande ossequio il magistero pontificio, difese sempre papa Pacelli dalle accuse della propaganda nazista, e cercò (come si evince dalle 8 lettere che riuscì a far giungere a Roma), ed ottenne, la benedizione di Pio XII per i suoi eroici sforzi pastorali in quella così drammatica congiuntura storico-politica.

Quindi ci fu un comune spirito che animò il “Leone di Münster” che non si stava zitto ed il silenzioso “Pastore Angelico”?
Certamente si, in cuor loro.
Ed il fatto che la beatificazione del primo sia avvenuta esattamente nel 47° anniversario della morte di Pio XII lascia intendere implicitamente la volontà vaticana di estendere l’aureola del primo anche al secondo (può anche essere un caso fortuito ma oltretevere a certe coincidenze fanno molta attenzione).



La volontà di Pio XII, a pochi mesi dal termine della II Guerra Mondiale, di elevare al cardinalato, il 18 febbraio 1946, tre vescovi tedeschi, come premio e risarcimento per le vessazzioni subite sotto il regime hitleriano, è da considerarsi sintomo eloquente dei sentimenti di papa Pacelli.

Scrive il beato von Galen il 6 gennaio 1946 al pontefice per ringraziarlo della porpora:
“La radio e poi i giornali hanno reso noto che Vostra Santità si è compiaciuto di integrare il Sacro Collegio cardinalizio con la nomina di un gran numero di nuovi membri. Chiamando al supremo Senato e Consiglio del Capo della Chiesa uomini di tutte le parti del mondo, popoli e nazioni, Vostra Santità ha dimostrato e manifestato in modo insuperabile al mondo intero la sovranazionalità della santa Chiesa cattolica, la sua coesione e la sua unità che mostrano quanto sia vergognoso l’odio dei popoli. Neppure il nostro povero popolo tedesco, devastato dalla guerra, umiliato dalla sconfitta, e oggi da ogni parte calpestato dall’odio e dalla sete di vendetta, è stato dimenticato, bensì illustrato dalla nomina di tre vescovi tedeschi nel Collegio cardinalizio; e per questo, con cuore profondamente commosso, i cattolici tedeschi insieme ai loro vescovi e sacerdoti e anche a molti tedeschi non cattolici ringraziano il Vicario di Cristo in terra.”

sabato, ottobre 08, 2005

Piccolo trattatelo di "spretatologia" applicata

Ovvero: l’infuocato oratore Chiaravallense ogni tanto inveisce pertinentemente.

venerdì, ottobre 07, 2005

"...e sul suo capo una corona di 12 stelle"



Ovvero: le isteriche figlie di Eva

(dal Foglio del 7 ottobre 2005)

Al direttore - Grossolano attacco alla religione e alla Chiesa cattolica in un rapporto, “Donne e religioni in Europa” presentato al Consiglio d’Europa due giorni fa da Rosemarie Zapfl-Helbling.
Zurighese, membro autorevole del partito popolare, la Helbling ha perorato la difesa dei diritti delle donne europee con sconcertanti affermazioni e una serie di luoghi comuni anticattolici mescolati a evidenti falsità. Il tutto molto politically correct.

Obiettivo della crociata la religione cattolica, più volte citata negli interventi in Aula dalla relatrice ed altri, responsabile di limitare i diritti delle donne o di minacciarli condannando il gentil sesso, come affermato nel rapporto, alle “violazioni più gravi dei diritti fondamentali come il crimine d’onore, i matrimoni forzati e le mutilazioni genitali femminili (!!!) che sono in aumento in alcune comunità europee”.
L’influenza religiosa, continua la filippica, è raramente inoffensiva perché “i diritti delle donne sono permanentemente e continuamente violati e minacciati” nel nome della religione che ha contribuito, attraverso stereotipi maschilisti “a conferire agli uomini un sentimento di superiorità che ha portato alla discriminazione della donna fino al ricorso alla violenza fisica”. Ma una delle colpe più grandi attribuita alle credenze religiose “al fine dell’asservimento della donna” è il “rifiuto di mettere in discussione una cultura patriarcale che considera il ruolo della sposa, della madre e della donna di casa, come modello ideale”.
Francamente stupisce che possa rivivere ancora oggi in una rappresentante in Consiglio d’Europa del partito popolare europeo come la Rosemarie Helbling, un vetero femminismo così acre e demodé ma soprattutto fa meraviglia che questo furore antireligioso che non ha mai citato la condizione della donna islamica, sia diretto contro la Chiesa che ha consacrato da secoli la figura di Maria come sintesi di ogni virtù femminile e della santità. Dopo tutte queste premesse, la vibrata esortazione della Helbling a tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa a lottare contro le mutilazioni genitali femminili, i matrimoni forzati, ecc. perché “la libertà di religione trova i suoi limiti nel rispetto dei diritti della persona umana”. Venga garantita, dunque, “la separazione necessaria tra Stato e Chiesa perché le donne non siano sottomesse a politiche e a leggi ispirate dalle religioni” in particolare riguardo alla famiglia, al divorzio e all’aborto.

Infine l’ultima invocazione del Rapporto è rivolta agli Stati perché nessuna giovane, ancorché minorenne, debba essere costretta a sottomettersi a delle regole religiose o le sia impedita la libertà di movimento o ancora le sia vietato l’utilizzo dei contraccettivi da parte della famiglia o della comunità in cui vive.

E’ ovvia la preoccupazione per un simile linguaggio e per tesi che non trovano nessun sostegno nella realtà europea e nei fondamenti della religione cattolica, soprattutto se vengono attribuiti genericamente alla religione riti come le mutilazioni genitali femminili o consuetudini come i matrimoni forzati che ci sono totalmente sconosciuti. Ma l’ambiguità di fondo sta nel confondere il cattolicesimo o il sentimento religioso in generale con gli abusi, i crimini o le prevaricazioni che vengono fatti con il pretesto della religione o in nome della religione stessa.
La zelante relatrice zurighese, anticattolica e membro del partito popolare europeo, dimentica che la conquista forse più grande della nostra civiltà, ossia la laicità dello Stato, ha da secoli tracciato una chiara demarcazione tra Stato e Chiesa.
Stupisce che non se ne sia accorta e vale forse la pena ricordarle che è il rispetto della legge la garanzia dei diritti di ciascuno e le istituzioni democratiche la difesa di tutti. Inutile dire che decine di emendamenti, tesi a migliorare il testo, sono stati respinti e che il politically correct ha trionfato ancora una volta contro il buon senso e la verità.

Nello stesso pomeriggio, in assemblea plenaria del Consiglio d’Europa, è stato ospitato il signor Ekmeleddin Ihsanoglu, Segretario generale dell’Organizzazione della Conferenza islamica, che ha illustrato i possibili punti di incontro tra l’Islam e le altre religioni. Vale la pena ricordare che nella Risoluzione n.12/31, approvata dalla stessa Conferenza islamica nel giugno 2004, circa il ruolo della donna nello sviluppo della società musulmana, si affermava che “si dovessero prendere misure appropriate per organizzare attività femminili a livello nazionale e internazionale nel rispetto della natura della donna e nel quadro delle restrizioni previste dalla Sharìa”. E ancora, nel comunicato finale della stessa Conferenza , al comma 62, “si riafferma il diritto degli Stati islamici a preservare la loro specificità religiosa, sociale e culturale (...). Si fa appello ad astenersi da ogni utilizzo dell’universalità dei diritti dell’uomo come pretesto per l’ingerenza negli affari interni degli Stati islamici (...). Infine, si denuncia la decisione dell’Unione europea che condanna la lapidazione (delle adultere,ndr) e le altre pene qualificate come inumane che vengono applicate in alcuni Stati islamici in virtù delle disposizioni della Sharia”. Non credo ci possano essere dubbi che i margini di dissenso con queste posizioni, così autorevolmente espresse dalla Conferenza islamica del 2004, siano molto ampi e facciano riflettere.


Fiorello Provera membro del Consiglio d’Europa

giovedì, ottobre 06, 2005

Tota vita Christi fuit crux et martyrium

Ovvero:lo strano caso del Cristo "deposto" dalla Playstation e di Buddha issato sulla croce.



“...il testardo laico non laicista, malgrado le intimidazioni lessicalmente corrette, esita a non interpretare se non come una manifestazione di laicismo dottrinario e involontariamente comico la pretesa avanzata in Lombardia da anticlericali bontemponi di sradicare le croci piantate sulle vette delle montagne per sostituirle con icone dell’inconsapevole Buddha.
Pensa al ridicolo relativista di battaglie condotte nel nome di crepacci multiculturali, cime plurireligiose e ferrate politeiste. E finisce per deplorare il neodogmatismo laicista (sì, laicista) che sfida impavido il grottesco e perché non solo si sente offeso dalla presenza dei crocefissi nelle aule scolastiche ma sente l’urgenza di svellere il cristianesimo, oltrechè dai trattati costituzionali, anche dalle innevate vette d’Europa.

Il laico non laicista, dopo aver preso le distanze dai laicisti, riscopre tuttavia il proprio cuore di laico quando viene a conoscenza delle veementi proteste e dei conseguenti provvedimenti censorii ai danni di una innocua pubblicità della Playstation in cui viene raffigurato un ragazzo incoronato di spine.

Dall’espressione di quel ragazzo non trasudava niente che richiamasse un’atmosfera dissacratrice e blasfema, eppure tale è stato il clamore delle reazioni indignate che quella blanda, innocentissima, giovanilmente spensierata allusione al martirio di Cristo è stata prontamente ritirata dalla circolazione.
Il laico non laicista sospetta che nell’arcigno zelo degli indignati si riveli un’attitudine un po’ plumbea a sciogliere con l’arma definitiva del divieto e della proibizione persino il richiamo tutto sommato affettuoso e certamente venato di bonaria ironia alle vicissitudini cristiane.
Si tratta dello stesso richiamo al lessico familiare di chi usa espressioni consuete come «portare la croce» per indicare una situazione di profano tormento o come «è stata una via crucis» per designare un percorso dolorosamente accidentato: nessuno si sognerebbe di commisurare veramente le piccole disgrazie quotidiane con i supplizi patiti da Nostro Signore.

E invece, censura. Stavolta con un sovrappiù di rimpianto per le infiammate ma ma ormai logore discussioni che dividevano appassionatamente difensori della fede e fautori delle arti moderne e in cui si disputava sulla sospetta blasfemia delle ricotte pasoliniane, dei Gesù superstar al ritmo di rock e persino del didietro pubblicitario di attillattissimi jeans di marca pregiata. Già allora quelle polemiche sembravano pallide e indebolite copie dello scandalo suscitatola tempo di Caravaggio quando modellava le sue Madonne sulle fattezze di volgari prostitute. Ma,messe a confronto con le sforbiciate invocate per pubblicità tanto incolpevoli, sembrano risuonare di una certa imprevista grandezza. E il laico non laicista viene preso da un irrefrenabile impulso terzista per non darla vinta né ai laicisti che vorrebbero trasferire sulle vette alpine il loro coloratissimo pantheon multireligioso né ai censori che chiamano blasfemo il nulla di una di una banale pubblicità. E sceglierei di volta in volta da che parte non stare. Laicamente, si intende.”

Pierluigi Battista
(dal Corriere della Sera di lunedì 3 Ottobte 2005)

mercoledì, ottobre 05, 2005

non possiamo non dirci cristiani



La sera di lunedì 3 ottobre; nell’ambito di una missione di evangelizzazione di taglio decisamente giovanilistico; in una grande piazza romana l’ufficio diocesano della pastorale giovanile ha organizzata una conferenza-dibattito tra i giovani, appunto, e Sua Eminenza Ersilio Tonini: ultranovantenne porporato romagnolo, che fu parroco di Salsomaggiore e fu vescovo di Ravenna, e quando era ormai in pensione fu creato cardinale per "meriti televisivi".

Un gruppo di pischelli quindicenni attraversando la piazza, nota il capannello di giovani attorno al vivace vecchierello, e si avvicinano. Uno lo riconosce e spiega agli amici: “E’ il cardinale Tonini! Quello che sta sempre in televisione!”
Il pischello al suo fianco per niente entusiasmato dalla rivelazione lo strattona per un braccio e, trascinandolo via, sentenzia eloquentemente: “Ma chi se lo incula il cardinal Tonini!”

martedì, ottobre 04, 2005

la luna sotto i suoi piedi



Il 3 ottobre ’05 dopo anni di rinvii e dopo lunghe ore di estenuanti trattative tra i venticinque ministri degli Esteri dell’Unione riuniti a Lussenburgo, si è dato formale inizio ai negoziati, di durata quindicennale, per l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea.

Alla fine, grazia alla pressione diplomatica di Condoleezza Rice che ha telefonato al primo ministro austriaco, il popolare Wolfang Schussel, si è stemperato il “veto” austriaco. Infatti l’unico Paese dichiaratamente contrario ad una Europa politica di cui facciano parte a pieno titolo gli eredi dell’impero ottomano, è stato lo Staterello degli eredi dell’impero austro-ungarico che vorrebbe, alla fine del lungo negoziato, solo un partenariato privilegiato tra UE e Turchia.
La ministra degli Esteri Ursula Plassnik; una valchiria alta due metri, si è presentata al tavolo dei 25 con la teutonica volontà di far aggiungere alcune paroline al testo degli accordi euro-turchi che permettessero tale uscita di sicurezza per l’Unione europea se, caso mai, il negoziato quindicinale si rivelasse un vicolo cieco.

A dire il vero, la bozza redatta sotto la presidenza semestrale britannica, e che è stata approvata, menzionava, e menziona, la possibilità per l’Europa di mettersi una mano sul cuore –e una sul portafoglio- per riconsiderare la reale “capacità di assorbimento” di settantamilioni di cittadini turchi (e mussulmani) nelle struttura economica-amministrativa dell’UE.
Grazie alla “dolce”fermezza di Condoleezza, e del premier turco Erdogan, non è stata posta ufficialmente e preventivamente la possibilità di un’altra forma di legame politico tra EU e Turchia difforme dell’ingresso pieno nella Comunità europea. Anche se nei fatti, l’evolversi quindicinale delle “cose turche”, potrebbe anche riportare in auge la posizione dell’attuale governo di Vienna.

Per Vienna il significato storicamente sconvolgente dei drammatici eventi dell’11 settembre non deve essere minimizzato. Dell’11 settembre 1683, ovviamente!

lunedì, ottobre 03, 2005

l'allodola di Frisinga /3

Sive:"Surge Domine!"


Esattamente a sei mesi dalla morte di Giovanni Paolo II, Benedetto XVI, aprendo il Sinodo dei vescovi sull’Eucaristia, ha tenuto un’omelia con cui, commentando le letture liturgiche della XXVII domenica del tempo ordinario (anno A), ha sviscerato tutta la profonda spiritualità della definizione di “semplice, umile, operaio nella vigna del Signore”. Espressione che a me "quel" pomeriggio in Piazza san Pietro parve una frase di circostanza ma col senno di poi capisco che, pur nell’emozione del momento, era invece sintomo di un lucido giudizio ecclesiologico e insieme "canovaccio" del programma di governo del nuovo papa.

“La lettura tratta dal profeta Isaia e il Vangelo di questo giorno mettono davanti ai nostri occhi una delle grandi immagini della Sacra Scrittura: l’immagine della vite. Il pane rappresenta nella Sacra Scrittura tutto quello di cui l’uomo ha bisogno per la sua vita quotidiana. (…)
Il vino invece esprime la squisitezza della creazione, ci dona la festa nella quale oltrepassiamo i limiti del quotidiano: il vino "allieta il cuore". Così il vino e con esso la vite sono diventati immagine anche del dono dell’amore, nel quale possiamo fare qualche esperienza del sapore del Divino. E così la lettura del profeta, che abbiamo appena ascoltato, comincia come cantico d’amore: Dio si è creato una vigna - un’immagine, questa, della sua storia d’amore con l’umanità
(…)
Dio aveva piantato viti sceltissime e tuttavia era maturata uva selvatica. In che cosa consiste questa uva selvatica? L’uva buona che Dio si aspettava – dice il profeta – sarebbe consistita nella giustizia e nella rettitudine. L’uva selvatica sono invece la violenza (…)
Nell’Antico Testamento in primo piano c’è l’accusa per la violazione della giustizia sociale, per il disprezzo dell’uomo da parte dell’uomo. Sullo sfondo appare però che, con il disprezzo della Torah, del diritto donato da Dio, è Dio stesso che viene disprezzato; si vuole soltanto godere del proprio potere. Questo aspetto è messo in risalto pienamente nella parabola di Gesù: gli affittuari non vogliono avere un padrone – e questi affittuari costituiscono uno specchio anche per noi. Noi uomini, ai quali la creazione, per così dire, è affidata in gestione, la usurpiamo. Vogliamo esserne i padroni in prima persona e da soli. Vogliamo possedere il mondo e la nostra stessa vita in modo illimitato. Dio ci è d’intralcio. O si fa di Lui una semplice frase devota o Egli viene negato del tutto, bandito dalla vita pubblica, così da perdere ogni significato.
La tolleranza, che ammette per così dire Dio come opinione privata, ma gli rifiuta il dominio pubblico, la realtà del mondo e della nostra vita, non è tolleranza ma ipocrisia.



Laddove però l’uomo si fa unico padrone del mondo e proprietario di se stesso, non può esistere la giustizia. Là può dominare solo l’arbitrio del potere e degli interessi.
Certo, si può cacciare il Figlio fuori della vigna e ucciderlo, per gustare egoisticamente da soli i frutti della terra. Ma allora la vigna ben presto si trasforma in un terreno incolto calpestato dai cinghiali (…)
Il Signore, nell’Antico come nel Nuovo Testamento, annuncia alla vigna infedele il giudizio.
(…) Ma la minaccia di giudizio riguarda anche noi, la Chiesa in Europa, l’Europa e l’Occidente in generale.(…)
Anche a noi può essere tolta la luce, e facciamo bene se lasciamo risuonare questo monito in tutta la sua serietà nella nostra anima, gridando allo stesso tempo al Signore: "Aiutaci a convertirci! Dona a tutti noi la grazia di un vero rinnovamento! Non permettere che la tua luce in mezzo a noi si spenga! Rafforza tu la nostra fede, la nostra speranza e il nostro amore, perché possiamo portare frutti buoni!
(…) A questo punto però sorge in noi la domanda: "Ma non c’è nessuna promessa, nessuna parola di conforto nella lettura e nella pagina evangelica di oggi? È la minaccia l’ultima parola?" No! La promessa c’è, ed è essa l’ultima, l’essenziale parola.(…)
Dalla morte del Figlio scaturisce la vita, si forma un nuovo edificio, una nuova vigna.(…)
In questo modo Cristo stesso è diventato la vite, e questa vite porta sempre buon frutto: la presenza del suo amore per noi, che è indistruttibile.
(…) Egli dalla croce ci attira tutti a sé (Gv 12,32) e ci fa diventare tralci della vite che è Egli stesso. Se rimaniamo uniti a Lui, allora porteremo frutto anche noi, allora anche da noi non verrà più l’aceto dell’autosufficienza, della scontentezza di Dio e della sua creazione, ma il vino buono della gioia in Dio e dell’amore verso il prossimo.
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