sabato, giugno 10, 2006

Assassinio nella Cattedrale

Ovvero: come mirabilmente avvenne che l' "orrido" Camillo Langone, studiando il nuovo, monumentale dizionario “I nomi di persona in Italia” (Utet) sia venuto a conoscenza del luogo ed, eziandio, della data di morte dei nomi dei santi patroni, con relativi colpevoli e complici.
[Il Foglio; sabato 10 giugno 2006]



Baudolino (cattedrale di Alessandria).

E’ stato ucciso dall’indifferenza dei cittadini alessandrini nel 1969.
Da quell’anno più nessun bambino è stato chiamato col nome del santo patrono che aveva protetto la città dalla fondazione, per otto secoli, riuscendo a salvarla perfino da Federico Barbarossa.

Se l’alessandrino Luigi Tenco non si fosse sterilmente suicidato a Sanremo, avrebbe potuto dare un senso alla sua vita mettendo in cantiere un piccolo Baudolino che sarebbe stato sicuramente più bello della canzone bocciata al festival.
La cattedrale di Alessandria accoglie, in un tripudio di candele elettriche, le statue dei patroni delle 24 città della Lega Lombarda. Sono per lo più inerti decorazioni, senza rapporti coi nomi e quindi con le cose del nostro tempo. Uno dei pochi meriti di Umberto Eco consiste nell’aver intitolato un suo romanzo “Baudolino”: non è servito ma almeno ci ha provato, a resuscitare un nome un tempo molto diffuso in Piemonte il cui significato è “amico coraggioso” [...].

Chiafreddo (cattedrale di Saluzzo).

Saluzzo diede alla patria Bodoni il gran tipografo, Pellico il gran prigioniero, Bergese il grande cuoco, Dalla Chiesa il gran carabiniere. Da quindici anni non dà più nemmeno un Chiaffredo.
L’ultimo venne calpestato in cattedrale dai fedeli distratti nel 1991.

Quei saluzzesi avevano altri nomi e altre storie a cui pensare: era l’anno di “Castelli di rabbia”, il fortunato esordio di un giovane corregionale, Alessandro Baricco. Il protagonista del romanzo si chiamava Dann.

Grato (cattedrale di Aosta).

Gli irriconoscenti cittadini aostani, notoriamente interessati solo a riempirsi le tasche di buoni benzina a spese dei cittadini italiani che pagano le tasse anche per loro, hanno ucciso Grato nel 1963.
Ricavo la ferale notizie da “I nomi di persona in Italia”, il nuovo, prodigioso, dizionario onomastico Utet compilato da un gruppo di linguisti torinesi capeggiati da Alda Rossebastiano.

Nella cattedrale di Aosta ancora si conservano le reliquie di san Grato vescovo, ma sembra che quegli ossicini non siano più buoni nemmeno per il brodo. Nessuna mamma valdostana intende onorare il patrono del capoluogo dando il suo nome al proprio pargolo. Una volta erano dedicate a San Grato le confraternite che aiutavano i contadini rovinati dal maltempo, oggi ai risarcimenti per la grandine ci pensa Pantalone, che ad Aosta più che altrove fa rima con corruzione.

Secondo (collegiata di Asti e cattedrale di Ventimiglia).

Per chiamare un bambino Secondo bisogna che esista un Primo e che si ipotizzi un Terzo. Difficile che ciò avvenga presso un popolo morente da 1,3 figli per donna. Anzi impossibile, siccome Secondo è stato assassinato nel 1992.
Chi è stato?
Il dizionario Utet segnala solo la data dei delitti, per quanto riguarda i luoghi vengono avanzate ipotesi (Asti o Ventimiglia) mentre su colpevoli e complici ho
notato un certo riserbo. Niente paura, le indagini le completo io: il 1992 era l’anno del trattato di Maastricht, la più grande cessione di sovranità che governo italiano (in questo caso l’Andreotti Sette) abbia mai firmato. E senza nemmeno la scusa di una pistola puntata alla tempia. Nell’uomo come negli animali cattività e sterilità vanno di pari passo: il numero medio di figli per donna, che da un paio di anni si manteneva stabile, basso ma stabile, ebbe un ulteriore cedimento. Giulio Andreotti, per chi non se lo ricordasse, era lo stesso uomo politico che firmò la legge autorizzante l’aborto [...].

Omobono (cattedrale di Cremona).

Scrive Lévi-Strauss: “Ogni nome possiede una determinazione culturale che permea
l’immagine che gli altri si fannodel portatore e che, attraverso vie sottili, può contribuire a modellare la sua personalità in maniera positiva o negativa”.
Bisognerebbe verificare l’incremento di cattiveria (reati eccetera) registrato a Cremona dal 1987, anno in cui Omobono è stato soffocato in cattedrale con la complicità del clero. Era ancora fresco il nuovo codice di diritto canonico, dove si legge: “I genitori, i padrini e il parroco abbiano cura che non venga imposto un nome estraneo al senso cristiano”. Formulazione vaga per non dire pilatesca, vattelapesca il senso cristiano. Sembra di capire che un prete, al massimo, può obiettare se gli sottopongono un disgraziatino da battezzare come Belfagor o Seiseisei, per il resto il codice non alza alcun argine al dilagare dell’onomastica bariccoide dei Danny (982 bambini spuntati proprio a fine Ottanta) e dei Denny (1.102).

Intanto il nome di Sant’Omobono, “uomo semplice, fedelissimo e devotissimo”, partecipe del senso cristiano come pochi, riposa in pace.

Berica (basilica di Vicenza).
La Madonna di Monte Berico è ancora, dicono, patrona di Vicenza, ma a Berica hanno tagliato la gola nel 1982. Da allora più nessuna bambina è stata battezzata (o anche non battezzata) con questo nome, a Vicenza (o anche non a Vicenza).
In compenso quell’anno Jessica Lange vince il premio Oscar, e il suo nome dilaga per il Veneto.

Vent’anni dopo, con Berica dimenticata nella cassa, lo scrittore Vitaliano Trevisan, vicentino e bernhardiano, spande queste righe: “L’unica cosa che raggiunge il cielo, nello spaventoso buco di provincia che è il nostro comune, ma anche tutta la provincia e certamente l’intera regione del Veneto e in definitiva tutta la nazione, è la puzza del cattolicesimo”. Trevisan ha un buco al posto del naso e confonde Cristo con Hollywood.

Petronio (basilica di Bologna).

I nomi sono conseguenza delle cose e l’assenza delle cose è conseguenza dell’assenza dei nomi. Che in piazza Verdi non esista legge (per quanti ruggiti faccia Sergio Cofferati, leone sdentato che non mette paura nemmeno al cane più pulcioso di punkabestia), che in piazza Maggiore non esista tranquillità (la basilica è transennata e poco agibile per timore di attentati musulmani), certo è dovuto all’affievolimento del patronato di San Petronio sulla città, a sua volta dovuto alla fine di una tradizione onomastica che univa la terra al cielo e saldava le generazioni in un vincolo a prova di bomba.

Nell’ormai lontano 1974 i bolognesi uccisero il bambino Petronio e più nessuno ha pensato di riportarlo in vita.

Nell’ormai lontano 1974 il professor Giovanni Brizzi chiamò suo figlio Enrico. Pensava forse che se lo avesse chiamato Petronio “Jack Frusciante” avrebbe venduto di meno? Eppure Brizzi, specialista di storia romana, non poteva ignorare Petronio Arbitro, il primo grande romanziere sorto in Italia.
In questi trent’anni su Bologna si è scritto, detto e cantato anche troppo, senza mai arrivare al nocciolo della questione. Ad esempio nessuno ha mai detto che l’affresco antimaomettano nella basilica di San Petronio non si protegge con spiegamenti di polizia ma col restauro delle convinzioni culturali quindi cultuali, perciò anche onomastiche, che ne sono alla base.
“Nel centro di Bologna non si perde neanche un bambino” cantava Lucio Dalla, e invece il bambino si è perso eccome. Ma forse è un caso di morte apparente: se domani il bambino Petronio venisse riportato in vita sono sicuro che la città sarebbe salva.

Apollinare (basilica di Ravenna).

E’ morto addirittura nel 1970, Apollinare.
“Abbi cura del nome, perché esso ti resterà più di mille grandi tesori d’oro” scrive il Siracide. I ravennati hanno fatto il contrario: hanno lasciato morire il nome e hanno continuato a spolverare i mosaici luccicanti di Sant’Apollinare Nuovo. Per non perdere i turisti, mica per altro (ingresso in basilica euro 7,50, studenti e soci Touring 6,50, giornalisti e militari gratis).
Perduto il nome, perduta la ragione del luogo: oggi Sant’Apollinare Nuovo è un non-luogo, perfettamente riproducibile a Las Vegas, e Ravenna che fu capitale del mondo è solo un cadavere neanche troppo squisito.

Ceccardo (duomo di Carrara).

Il duomo di Carrara non si può dire propriamente cattedrale perché oggi il vescovo risiede a Massa. Forse concattedrale, o nemmeno, comunque la sostanza tragica non cambia: è qui che nel 1976 venne soppresso Ceccardo.

Il poeta Ceccardo Roccatagliata Ceccardi all’inizio del secolo scrisse “Colloquio d’ombre”, come se presagisse qualcosa. Nel ’76 nessuno prestò attenzione a questa morte, si preferì festeggiare la nascita del quotidiano “La Repubblica”, di linea abortista e quindi ceccardicida.
Oggi nessun bambino si chiama come l’antico vescovo di Luni, protettore della città delle cave. E il duomo suona a vuoto, come fosse stato costruito solo per fare pubblicità al marmo locale.

Rufino (cattedrale di Assisi).

Nel 1990 arrivò ad Assisi il capo musulmano Yasser Arafat, andò a torcere il collo sulla tomba di San Francesco, i frati si sdilinquirono, lui regalò loro un presepe in madreperla, i frati si risdilinquirono, pensarono di essere l’ombelico del mondo, si esaltarono, si agitarono, lo spirito di Assisi che bisognerebbe capire chi lo manda si mise a soffiare, a ululare, agitando tonache e cervelli e sandali.
Nel parapiglia i frati, forse senza volerlo, schiacciarono Rufino. Che poi San Rufino è il santo a cui è dedicato il duomo, centro della vita religiosa secolare, e non la basilica, centro della vita conventuale dedicato a San Francesco, ma siccome per molti anni i frati hanno goduto di sovraesposizione mediatica ciò che succedeva in basilica si rovesciava su Assisi tutta. Compreso il Padre Nostro recitato a favore di telecamera dal catastrofico custode del Sacro Convento assieme all’imam di Perugia.
Il motu proprio di papa Benedetto XVI ha imposto ai frati comportamenti più composti ma Rufino non è ancora resuscitato.
Che fare?
Il nuovo vescovo deve andare ai corsi prematrimoniali e raccontare ai fidanzati ivi riuniti la storia di questo santo che per rimanere fedele a Cristo si fece gettare nel fiume conuna pietra al collo.
Lì si parrà la nobilitate di monsignor Sorrentino: vediamo se riuscirà a persuadere qualche futura mamma.


Crescentino (cattedrale di Urbino).

Il bambino Crescentino è stato ucciso qui, tra le candele elettriche e le locandine di Famiglia Cristiana, nel 1990 come Rufino.

Il santo Crescentino, disgustato, non fa più crescere il nome di Urbino nel mondo ma anzi lascia che ogni anno la sua università si rimpicciolisca. Siccome l’onomastica non tollera vuoti, il ’90 fu l’anno di Kevin.
Grazie al premio Oscar vinto da Kevin Costner per “Balla coi lupi”, molti genitori italiani non ebbero più dubbi. O meglio, ebbero solo dubbi ortografici: il dizionario Utet segnala 1.808 Kevin, 11 Kewin, 8 Kevyn, 5 Keven. Ci sarebbe voluto il Regio Decreto numero 1238 del 9 luglio 1939 ma lo avevano cancellato nel ’66, anno di alluvioni e calate dei Beatles. Prescriveva saggiamente così: “E’ vietato imporre al bambino lo stesso nome del padre vivente, di un fratello o di una sorella viventi e, se si tratta di bambino avente la cittadinanza italiana, anche nomi stranieri”.
E’ improbabile che anche uno solo dei succitati genitori abbia inteso onorare San Kevin, monaco irlandese.

Magno (cattedrale di Anagni).

Nella città dei papi e di Manuela Arcuri, di cui san Magno vescovo e martire è patrono, c’è la cattedra ma non ci sono i discepoli.
Magno è stato fatto fuori nel 1994, il delitto è recente.

Quando si spegneva il nome del loro protettore in che faccende erano affaccendati gli anagnini?
A smantellare il culto non erano riusciti nemmeno i saraceni che nel IX secolo rubarono le reliquie (poi recuperate).
Forse aveva ragione Alain De Benoist, forse il nemico principale è un altro. Chiamiamolo nichilismo, il formidabile debilitante mentale che strema i genitori e impedisce loro di chiamare il proprio figlio con un nome che significa “grande”.

Cetteo (cattedrale di Pescara).

Si chiamava Cetteo il padre di Ennio Flaiano e si è chiamato Cetteo qualche altro pescarese fino al 1986, quando il nome è stato messo a morte.

Negli annali cittadini si ricorda che l’86 fu contrassegnato da scontri violenti, con numerosi feriti. Ma non era l’estrema difesa dei difensori di Cetteo contro i nemici del santo patrono: si trattava semplicemente di tifosi del Pescara e della Lazio.
Il sommo erudito Alfredo Cattabiani racconta in “Santi d’Italia” che san Cetteo, vescovo di Amiterno, venne gettato dai longobardi nel fiume Pescara con una pietra al collo (lo stesso metodo usato con Rufino). “Le loro ossa rifioriscano dalle tombe e il loro nome si perpetui sui figli” dice il Siracide. Se i genitori pescaresi la piantassero di dare ai figli nomi già pronti per le botteghe di modernariato (Ivan ovvero Scalfarotto, Jarno ovvero Trulli, Giada ovvero Colagrande), lascerebbero un segno più durevole del loro passaggio in questa valle di lacrime.

Archelao (cattedrale di Oristano).

Il dizionario Utet dice che l’onomastica religiosa maschile tiene meglio di quella femminile.
Il fenomeno è sotto gli occhi di tutti: Luca, Marco e Matteo vanno sempre piuttosto bene, a differenza di Anna e di Maria, che retrocedono continuamente, per non dire di Assunta, Carmela, Immacolata, un pianto.
Questo in generale, perché in particolare abbiamo visto quale strage di nomi maschili innocenti sia stata compiuta dalla modernità.

Nonostante sia indiscutibilmente virile (in greco significa “capo del popolo”), nemmeno Archelao ce l’ha fatta. E’ stato ucciso nella cattedrale di Oristano nel 1981.

Nulla ha potuto la Madonna del Rimedio, onorata nella cappella in fondo a destra. Stavolta non possono accusare i turisti perché Oristano è dalla parte opposta della Costa Smeralda. Sono stati i sardi, altroché.
Sant’Archelao invece fu lapidato per ordine dell’imperatore Traiano: la colpa era la solita, la conversione al cristianesimo.
“Il patrocinio del santo offre un modello di carità ed assicura la sua intercessione” ricorda il catechismo agli oristanesi dimentichi. Effettivamente c’è un gran bisogno di conversione e il battesimo di nuovi Archelao sarebbe un segno di speranza per tutta la Sardegna.

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