mercoledì, gennaio 18, 2006

Gran Rabbi nato /2

Ricevendo - lunedì 16 gennaio - in privata udienza il dottor Riccardo Di Segni, Rabbino Capo di Roma, il Sommo Pontefice "ccioiosamente regnante" ha tenuto una breve ma quanto mai intenza allocuzione che nei media è passata come un "volemose bbene" politically correct; in realtà si è trattato di un discorso epocale!
La linearità, la brevita, ma al contempo la profondità sono, infatti, i grandi pregi dell'oratoria ratzingeriana.
"E' stato un discorso religioso": è stato l'universale commento. E non capisco perchè avrebbe dovuto essere un discorso politico dato che l'illustre ospite non era un ambasciatore di uno Stato o un ministro ma un leader religioso.Il Papa non ha quindi nominato lo Stato d'Israele (cosa che invece ha fatto Di Segni), nè "intifada", nè la politica mediorientale, rendendo perciò quel bellissimo -breve- discorso poco appetibile alla pubblica opinione.
Invece la pubblica opinione dovrebbe scolpirsi a caratteri d'oro nelle propria cervella le elevatissime espressioni usate da Benedetto XVI, ad in questo son certo che il dottor Di Segni ne converrebbe.

Benedetto XVI ha improntato il suo indirizzo di saluto ai rappresentanti della comunità israelitica romana su un livello, squisitamente ed elevatamente religioso.

Forse questo potrebbe anche infastidire un poco qualche cattolico e qualche ebreo. C'è chi,infatti, auspicherebbe che dopo quasi due millenni in cui la "giudeofobia" è stata giustificata ed argomentata dai teologi cristiani, si vorrebbe che il "mea culpa" nei confronti dell'antisemitismo partisse da una "laica" presa d'atto del male arrecato, e che "solo" da ciò scaturisse "la ragione" di un nuovo atteggiamento improntato ad una "civile" concordia e collaborazione, abbandonando per sempre inutili e dannose controversie teologiche: "Non c’è più la gara per dimostrare chi è più potente magicamente, o chi è vero e chi è falso, chi vale ancora e chi è scaduto; ma ben venga una gara di dimostrazione di virtù al servizio degli altri, dei valori condivisi da testimoniare e applicare nella realtà quotidiana, ciascuno seconda la propria identità".
Questa tesi che a prima vista parrebbe legittima, la più ragionevole e sensata, non prende in considerazione invece che:
a) La propensione culturale di un Occidente che avalla le legittime rivendicazioni ebraiche (e dello Stato d'Israele in particolare) non scaturisce solo in base a considerazioni astrattamente razionali ma anche in nome di un sentimento di vergogna e di condanna (ed in un certo modo, quindi, di postumo risarcimento) per gli abomini compiuti contro gli ebrei dagli avi degli attuali popoli libertari e democratici dell'Occidente, obbrobri culminati nella follia antisemita del terzo Reich.
Bisogna cominciare a prendere coscenza che gli ebrei non potranno in eterno invocare la Shoà per provocare nel cristiano il senso di colpa per l'epilogo hitleriano di millenovecento anni di antigiudaismo cristiano, trovandosi a che fare con le nuove generazioni che non hanno il benchè minimo senso (tantomeno il culto!) della memoria storica.
Ed inoltre mi permetto la considerazione che il "senso di colpa" non è certamente il sentimento più sano sulla base del quale intessere una serena relazione col prossimo. Su questo l'ebreo Sigmund Freud avrebbe senzaltro qualcosa da dire.
b)Ogni decisione della Chiesa Cattolica deve avere fondamenti teologici. Ogni consuetudine tipica del cristiano, fosse anche annaffiare i fiori sul balcone di casa propria, rinvia ineludibilmente ad una valutazione teologica dell'identità ontologica della Chiesa e del suo sacramentale rapporto con il suo Divino fondatore Gesù Cristo.
Che vuol dire?
Vuol dire che se il disprezzo cristiano per il Popolo ebraico ha avuto delle legittimazioni teologiche basate sull'interpretazione della Bibbia, allo stesso modo la condanna da parte della Chiesa cattolica di ogni forma di antisemitismo e la proclamazione addirittura di uno speciale amore che la Chiesa nutre per gli ebrei deve necessariamente avere a fondamento e a legittimazione la stessa Parola di Dio. Questo Benedetto XVI lo sà perfettamente! Per questo nel suo interloquire con il rabbino Di Segni Benedetto XVI non ha parlato della necessità di una "civile" convivenza ma si è attenuto ad un linguaggio di livello ostentatamente teologico.

Non è sufficiente perciò alla Chiesa ammetter che quelle interpretazioni delle parole del Vangelo,che hanno nei secoli giustificato l'odio e la violenza contro gli ebrei, erano interpretazioni sbagliate?
Si, ma questa è appunto una operazione teologica.

Il Concilio Vaticano II, nella Dichiarazione "Nostra Aetate" ha voluto condannare una interpretazione pregiudizialmente antisemita dell'espressione: "il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli" contenuta nel vangelo di Matteo (Mt 27,25).

"Perchè si vuole oggi chiamarli innocenti di questo crimine? Si è fatto portare alla Chiesa fino ad oggi la responsabilità delle colpe commesse in altri tempi da alcuni suoi uomini (gli abusi dell'Inquisizione, la strage di San Bartolomeo, gli albigesi...); si fa portare a dei popoli la responsabilità delle colpe commesse in altri tempi dai loro avi o da alcuni loro capi. Perchè si vuole che gli ebrei non portino la responsabilità morale di un crimine commesso dai loro avi e dai capi della loro Nazione? E' forse per impedire che siano perseguitati? Ma non è per questo crimine che alcuni popoli li respingono oggi, è per ragioni sociali, raziali, economiche, politiche ecc... Oggi che il papa stesso sente il bisogno e la convenienza di non chiamare innocenti dalle colpe del passato gli uomini di Chiesa, perchè ci si tiene a chiamare ufficialmente gli ebrei innocenti del sangue di Gesù che hanno crocifisso?
Perchè ci si tiene a questa dichiarazione ufficiale della loro innocenza quando essi stessi per bocca dei loro avi, hanno detto nel vangelo: "Che il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli?" (la nostra posterità)?"

Queste sono le perplessità di una delle personalità più eminenti (ed incisive)parecipanti al Vaticano II: Sua Beatitudine Maximos IV patriarca greco-cattolico di Antiochia.

Perchè,si chiedeva il "leone del Concilio", proclamare solennemente che:"se autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione, non può essere imputato né indistintamente a tutti gli Ebrei allora viventi, né agli Ebrei del nostro tempo"?

Perchè la costernazione e la condanna più totale della criminale e mostruosa ecatombe che è stata la Shoà non è in grado di smuovere di un millimetro una dottrina teologica!
Anzi! Se un cristiano è convinto che anche sugli ebrei a lui contemporanei si riversi la punizione del Padre Eterno per aver, i loro avi, fatto uccidere "il Figlio di Dio", allora, il fatto che non sono più i sovrani cristianissimi e cattolicissimi a perseguitare gli ebrei ma un regime che si dichiara anticristiano, questa potrebbe essere considerata la prova del nove di un'effettiva maledizione divina.
Questo non significa che un cristiano con una tale forma mentis possa giustificare la persecuzione hitleriana. Egli potrebbe benissimo essere un accanito antinazista e condannare ed agire contro ciò che ai suoi occhi è omicidio e sterminio inaccettabili, ma questo non implica che pur condannando il fenomeno storico egli non possa tranquillamente accettare l'idea che la causa ontologica e remota sia una divina maledizione.

Il terrificante orrore della Shoà non è allora sufficiente per provocare esso solo, nel cristiano, una riconsiderazione profonda dei rapporti tra Ebraismo e Cristianesimo?
Umanamente, si. Sociologicamente, si.
Spiritualmente, no.
Perchè tra quei cristiani che effettivamente salvarono la vita a migliaia di ebrei, a rischio della propria vita, sicuramente il pensiero dominante era: "Dio, non è giusto che tu continui a punirli così!": è questa la grande aberrazione - tutta teologica - che il Concilio Vaticano II ed il successivo Magistero pontificio hanno inteso guarire.
E quest'opera di purificazione può attuarsi solo ad un livello teologico e spirituale di cui l'istituzione della giornata del diaologo ebraico-cristiano è espressione.
Dialogo che se vuol essere incisivo deve essere innanzitutto spirituale! Fondato perciò sulla meditazione della comune Parola di Dio, e sul riconoscimento da parte cristiana, del legame del profondo che lega il Nuovo Testamento all'Antico che non si è ormai concluso, non ha perso di senso con l'avvento di Cristo ma come ammonisce San Paolo, la fede ebraica è la radice del Cristianesimo e se quindi la radice perisse perirebbero anche i rami:
"Se le primizie sono sante, lo sarà anche tutta la pasta; se è santa la radice, lo saranno anche i rami. Se però alcuni rami sono stati tagliati e tu, essendo oleastro, sei stato innestato al loro posto, diventando così partecipe della radice e della linfa dell'olivo, non menar tanto vanto contro i rami! Se ti vuoi proprio vantare, sappi che non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te.(Rm 11,16-18)

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