Ovvero: Roma e Bisanzio: nel XX secolo pace (quasi) fatta!
(Un lungo articolo di Carlo Cardia sul Foglio di di martedì 21 novembre 2006)
«La storia del patriarcato ecumenico sotto la cattività ottomana si conclude agli inizi del Novecento con un episodio e un evento del tutto particolari. Un fatto singolare si verifica nei rapporti tra Roma e Costantinopoli, nella Prima guerra mondiale, quando l’impero ottomano si allea con gli imperi centrali, tedesco e austroungarico, e combatte contro il suo nemico storico, la Russia zarista.
A Mosca si coltiva un disegno di riconquista di Istanbul e di liberazione del Patriarca di Costantinopoli che era rimasto comunque la figura più eminente e il padre spirituale di tutti gli ortodossi.
Nel progetto russo è previsto che, dopo la riconquista di Istanbul, si crei un’area extraterritoriale per trasferirvi il Santo Sinodo russo [!!!] e per creare una condizione in qualche modo analoga a quella di cui godeva il Pontefice romano all’epoca, con la legge delle Guarentigie approvata in Italia nel 1871. Una condizione, cioè, di tipo extraterritoriale che assicuri al centro dell’ortodossia autonomia e indipendenza, e ne esalti il ruolo di fronte a tutta la cristianità.
Questo disegno preoccupa Roma, soprattutto quando nel 1916 le armate russe sembrano cogliere i primi successi verso uno sfondamento in Turchia. E’ allora che la Santa Sede, violando la neutralità che osserva nel conflitto, avverte l’alto comando tedesco della situazione e chiede uno sforzo militare speciale per fermare l’avanzata russa.
Difficile commentare questo episodio.
L’interpretazione più moderata può evocare la contrarietà vaticana alla disgregazione dei grandi imperi, per le conseguenze che possono derivarne con l’esplosione dei diversi nazionalismi. La lettura più realistica spinge a considerare la scelta come l’ultimo riflesso di quelle gelosie che per secoli hanno diviso Roma dal maggior Patriarca orientale, e che ancora agli inizi del Novecento fanno temere una rinascita dell’ortodossia e della sua capacità di attrazione.
Il secondo evento è di portata più generale e cambia la condizione giuridica e politica del patriarcato. Esso si realizza in rapida successione con le svolte politiche prima della rivoluzione dei giovani turchi, poi della riforma di Kemal Ataturk, che creano la Turchia moderna.
Crolla l’impero della Sublime Porta con le sue istituzioni medievali, nascono strutture statali laiche, almeno da un punto di vista formale. Con queste riforme il patriarcato perde il carattere di istituzione imperiale (l’impero non esiste più), e con esso la giurisdizione sui patriarcati storici e sui cristiani che si trovano fuori della Turchia; diviene struttura nazionale e repubblicana con giurisdizione soltanto spirituale sui cittadini turchi di religione greco-ortodossa, cioè una infima minoranza in un paese che restava, ed è tuttora, un paese totalmente musulmano.
Vengono meno anche i residui privilegi materiali perché la laicizzazione imposta da Ataturk riduce l’importanza del patriarcato, oltre a impoverirlo di beni e possedimenti. Con l’aggiunta, un po’ curiosa, che la legge che proibisce di portare fogge ecclesiastiche in pubblico riguarda anche il Patriarca, il quale, senza più un vero popolo spirituale, si vede ridotto al rango di un qualsiasi cittadino turco.
Però, da quel momento il patriarcato d’oriente inizia a pensare e ad agire in un orizzonte diverso e più ampio: prima quello della Società delle Nazioni, poi della divisione del mondo tra est e ovest, quando la Turchia si schiera con il mondo occidentale in chiave anticomunista, infine l’orizzonte della mondializzazione e della globalizzazione dopo la caduta del comunismo in tutta Europa.
E’ del 1920 una enciclica del Patriarca ecumenico che concerne una serie di problemi tipicamente ecclesiali: dialogo tra le chiese, unità del calendario, rapporti tra scuole di teologie e tra teologi per l’accesso reciproco a scuole ecclesiastiche, congressi pancristiani, rispetto degli usi delle differenti chiese, e altre questioni relative ai matrimoni misti, alle esequie, alle attività poste in comune.
L’incontro tra Atenagora e Paolo VI
In questo quadro, a conclusione del Concilio vaticano II, si realizza la storica caduta degli steccati tra Roma e Costantinopoli.
Nell’incontro del 1965 a Gerusalemme tra il Patriarca ecumenico Atenagora e il Pontefice romano Paolo VI vengono finalmente revocate le scomuniche che le chiese d’occidente e d’oriente si erano lanciate nel 1054.
Il ritardo storico con cui matura riduce l’importanza dell’evento, tuttavia da allora nulla sarà come prima nei rapporti tra cattolici e ortodossi.
Si effettuano altri incontri, come quello tra Giovanni Paolo II e il Patriarca Demetrio nel 1979, e tra Roma e le capitali dell’ortodossia nell’ultima parte del secolo ventesimo. Si moltiplicano i riconoscimenti reciproci, anche se offuscati e frenati da tendenze proselitiche di parte cattolica nei paesi ex comunisti.
Si avverte che l’evoluzione storica pone i due centri della cristianità su un medesimo fronte ideale e strategico, si ricrea insomma una situazione analoga a quella dei primi secoli del cristianesimo.
E’ la riflessione strategica sul futuro del mondo che rende l’incontro del 28 novembre tra Bartolomeo I e Benedetto XVI un evento unico nel suo genere.
La storia universale è cambiata, è entrata in una fase nella quale l’unità del continente europeo si sta costruendo con fatica e incertezze, mentre il risveglio dell’islam costituisce una nuova emergenza per il cristianesimo e le terre d’occidente. Entrambi i problemitrovano convergenza in Turchia. Perché in discussione il suo ingresso in Europa, con tutto il carico di speranze, ma anche di diffidenze e di rischi, che comporta.
La Turchia costituisce la frontiera più fragile tra le due grandi religioni del libro, e l’ingresso di Ankara in Europa potrebbe portare una confusione di questi confini, ma ciò che si profila è una alternativa affascinante e preoccupante insieme: o la creazione di un islam moderato e liberale, o un ingresso dell’islam in Europa e nelle sue istituzioni, capace di influenzare e condizionare le nostre leggi, i nostri costumi, di travolgere il carattere laico-cristiano del vecchio continente.
L’agenda storica che apriranno nel loro incontro, chiede a Benedetto XVI e a Bartolomeo I di pensare in termini geopolitici.
L’ortodossia, come la chiesa cattolica, sta prendendo coscienza che la costruzione dell’Europa si va realizzando fuori di un orizzonte cristiano, ed è attraversata da un processo di secolarizzazione inarrestabile. D’altra parte, proprio nell’epoca in cui trionfa al suo interno una cultura razionalistica senza limiti, l’occidente assiste a un risveglio dell’islam che sembra antistorico ma che può produrre risultati paradossali; perché l’islam può penetrare in Europa, non più con le armi o con la pressione politica diretta, ma con l’immigrazione, con un fondamentalismo che pone a rischio tante conquiste europee di libertà e di autonomia dei singoli, degli stati, delle chiese.
Su questi temi l’Europa, il Papa, il Patriarca sono incerti, sia nelle analisi che nelle soluzioni da proporre. Un solo dato certo e consolidato. Gli interessi di Roma Costantinopoli non sono più divergenti.
Entrambi i centri della cristianità si trovano nuovamente a dovere affrontare problemi che li riguardano e li pressano da vicino, che mettono in discussione il futuro del cristianesimo. Per questo, il capitolo storico delle gelosie tra ortodossia e cattolicesimo si è chiuso per sempre. Sul resto, permangono i dubbi e le incertezze, anche la paura di fare passi falsi.
Se, ad esempio, la Turchia non entrasse in Europa essa verrebbe ricacciata dentro un confine islamico saturo di fondamentalismo e integralismo, e svanirebbero le speranze in una sua evoluzione in senso liberale e occidentale.
Nessuno vuole correre questo rischio, e soprattutto nessuno vuole apparire responsabile di un simile fallimento.
Ma i pericoli di un ingresso frettoloso della Turchia in Europa non sono meno gravi. Perché la Turchia, è stata certamente laicizzata da Kemal Ataturk e ha mantenuto un ordinamento diversificato rispetto a quelli islamici del vicino oriente. Ma la società turca è rimasta impermeabile a quel movimento di trasformazione civile e religiosa che ha investito gli ordinamenti occidentali.
Il problema della libertà religiosa in Turchia
Soprattutto dal punto di vista della libertà religiosa, il profilo istituzionale nasconde una realtà sostanziale ancora oggi compattamente musulmana.
La libertà religiosa non consiste soltanto nel rispetto giuridico delle minoranze, ma nell’apertura al nuovo, al proselitismo religioso, ideologico.
Libertà religiosa vuol dire consentire l’apertura di giornali, case editrici, l’accesso ai media, vuol dire accettare pienamente la diffusione di altre idee religiose. Tutto ciò in Turchia non esiste.
D’altronde, se si uccidono preti, si minacciano ritorsioni contro il Papa, si manifesta a favore dell’islam più intransigente, tutto ciò non può essere imputato soltanto a singoli perché è il frutto di un clima, di una cultura, di una “appartenenza” che è quella di sempre, alla “umma” e alla terra dell’islam. Per questo motivo il Papa romano e il Patriarca ecumenico sanno che il rischio più serio è che, entrando la Turchia in Europa, non sia la prima a modificarsi e aprirsi, ma sia la seconda a farsi influenzare, condizionare, contaminare nelle proprie istituzioni, nel proprio tessuto sociale, nella propria identità più profonda che resta laica e cristiana. Da quando l’Europa è diventata cristiana non ha avuto dubbi sulla propria identità.
Oggi Roma e Costantinopoli devono affrontare con realismo e coraggio l’interrogativo che molti si pongono: se l’islam penetrerà in Europa con il suo bagaglio di aggressività e di ostilità al cristianesimo, o se l’Europa laica e cristiana cambierà l’islam trasformandolo in una religione libera, evoluta, ricca soltanto di spiritualità. Forse nel rapporto con la Turchia, e nelle risposte che si confideranno il Papa e il Patriarca sta la cifra per rispondere a questa domanda».
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