giovedì, giugno 01, 2006

Gran Rabbi nato /3

ovvero:Il Papa e il rabbino
(di Marina Valensise, Il Foglio, mercoledì 31 maggio 2006)


Semplice e potente, il discorso di Benedetto XVI ha colpito Benedetto Carucci Viterbi. Il rabbino romano che insegna esegesi biblica al Collegio rabbinico e da tre anni tiene corsi di introduzione all’Ebraismo alla Pontificia università gregoriana, è severo nel giudizio.
Ne ha fatto una lettura circostanziata, l’ha trovato “interessante, complesso, di spessore notevole”. Alla fine, però, dopo varie glosse e interrogativi talmudici, ha dovuto ammettere: “Sul piano teologico, contiene un’affermazione forte, che pone fine a duemila anni di antisemitismo cristiano”. Cos’altro dice infatti il Papa di Roma quando, nel cuore del suo discorso di Auschwitz, cita le parole del Salmo e parla di “quei criminali violenti”, che “con l’annientamento di questo popolo ebraico, intendevano uccidere quel Dio che chiamò Abramo, che parlando sul Sinai stabilì i criteri orientativi dell’umanità che restano validi in eterno?”.

Risponde rav Carucci leggendo il discorso di Ratzinger passo passo: “Il Papa riconosce che il popolo ebraico è una testimonianza del Dio che ha parlato all’uomo. E nel far questo, porta alle estreme conseguenze lo sterminio nazista, come un paganesimo esasperato, negazione del piano del divino. La negazione di Israele, insomma, è una negazione di Dio, che induce l’uomo a ergersi ad arbitro assoluto e di fatto ad arbitro dominatore. La vera morte di Dio dunque per lui non è alle spalle del nazismo, ma di fronte al nazismo. Il nazismo uccide Dio, il Papa sta dicendo che il nazismo uccide Dio attraverso il tentativo di distruzione del popolo di Israele.
E’ un’altissima dichiarazione di rispetto e riconoscimento. Mette fine a una guerra durata duemila anni”. Di fronte a simili considerazioni, le divergenze e il contenzioso teologico passano in secondo piano. Certo, per Carucci, il fatto che il successore di Pietro, rappresentante di Cristo in terra, abbia citato solo ed esclusivamente l’Antico Testamento, resta un motivo di riflessione, prossimo alla perplessità. A cominciare dal silenzio di Dio, un tema costitutivo nella tradizione biblico-rabbinica.

“Il primo riferimento, spiega Carucci, è un testo della Bibbia che dice ‘chi è come te fra gli dei’: si trova nella cantica del Mare, che gli ebrei cantano dopo aver traversato il Mar Rosso, quando escono dall’Egitto per andare nella Terra promessa. Quel verso, incongruente visto che per l’ebraismo non ci sono altri dei, ha subìto una rielaborazione dovuta al gioco di una quasi omografia tra le due parole, tant’è che la tradizione talmudica legge: ‘chi è come te tra i muti’. Per noi è sinonimo di grandezza. Dio viene definito come colui che si contiene, al punto da non esprimersi, da restare ammutolito di fronte alla sofferenza del popolo”.

Vuol dire che Dio, che per l’Antico Testamento è innanzitutto legge, dovere, ferocia e severità, abbandona il suo popolo?

“No – risponde Carucci – Vuol dire che Dio fa forza su se stesso e preferisce restare ammutolito, per non intervenire nelle vicende degli uomini, lasciando a essi piena responsabilità di fronte alla sofferenza, in quanto costitutiva dell’uomo nel mondo è una sostanziale libertà, che ovviamente ha un prezzo”. E’ questo per Carucci il nocciolo della questione del silenzio di Dio. “E’ vero che nelle fonti biblico- ebraiche citate dal Papa, e nella letteratura rabbinica che le rielabora, questo tema compare, come pure quello del nascondimento del volto di Dio, ma ciò per gli ebrei interpella innanzitutto la responsabilità umana, non quella divina.
Il silenzio di Dio, in altri termini, comporta l’assoluta responsabilità dell’uomo”.

Volevano strappare le nostre radici comuni “Dov’era Dio in quei giorni?” si è domandato il Papa davanti alle lapidi di Auschwitz. “Perché Egli ha taciuto? Come poté tollerare questo eccesso di distruzione, questo trionfo del male?”. E ha citato il Salmo 44, il lamento dell’Israele sofferente, quasi a suffragare l’intento di riconciliazione, ricacciando la responsabilità del male nell’orbita del paganesimo.
“Quando il Papa dice che con la distruzione di Israele volevano strappare anche la radice su cui si basa la fede cristiana è un fatto rilevante, che potrebbe essere interpretato in modo duplice: sostituendola con la fede fatta da sé, la fede nel dominio dell’uomo, del forte, mentre il silenzio di Dio che per la tradizione ebraica è un atto di forza che Dio fa su se stesso, quando decide di non mostrarsi, viene interpretata come assenza di Dio, come sopraffazione dell’uomo di Israele e di altre genti. Tant’è vero che i nazisti dicevano ‘Gott mit Uns’”.

Infine, altro aspetto incomprensibile per noi cristiani, la contabilità del rancore, il rendiconto degli atti di Dio che gli ebrei da pari a pari esigono da lui: “E’ presente nella Bibbia, e si continua sin nella letteratura hassidica. Il Papa però si ferma sulla soglia quando dice non possiamo giudicare, ‘Non possiamo scrutare il segreto di Dio’. Nella tradizione rabbinica invece, la giustizia del giusto consiste proprio nel chiedere conto a Dio della sua giustizia. ‘Forse che il giudice di tutta la terra non farà giustizia? ‘Sarebbe un modo di autoprofanarti’ dice Abramo rivolgendosi a Dio alla vigilia della distruzione di Sodoma, quando basterebbero dieci giusti per risparmiarne tutti gli abitanti.
Il baratro di Auschwitz non ha avuto di fronte uomini giusti a sufficienza per fare lo stesso. Nessuno vuole imputare responsabilità collettive, resta però la domanda sul silenzio umano di fronte al silenzio di Dio. Ma esiste anche un altro versante in cui, dopo Auschwitz, si è mantenuta sino all’estremo limite la fede in Dio”.

1 commento:

Duque de Gandìa ha detto...

Non mi andava di fare un altro post per cui: ecco sempre dal Foglio del 31 maggio Maurizio Crippa che affronta il tema della "morte di Dio"
Il mistero di un Dio nascosto esilente e la tentazione teologica
della sua espulsione dalla storia

“Dopo Auschwitz possiamo e dobbiamo affermare con estrema decisione che una Divinità onnipotente o è priva di bontà o è totalmente incomprensibile”, ha scritto il filosofo Hans Jonas nel suo celebre “Il concetto di Dio dopo Auschwitz”. La domanda su Dio e il male è del resto così radicale, tanto più per l’ebraismo contemporaneo, da avere condotto personalità come Jonas a cercare strade teologicamente nuove, a bordeggiare la filosofia e la teosofia, nell’intento di trovare nuove basi alla possibilità di credere. Per Jonas, destituire Dio della sua onnipotenza è l’unico modo per poterlo pensare innocente: “Il male c’è solo in quanto Dio non è onnipotente. Solo a questa condizione possiamo affermare che Dio è comprensibile e buono e che nonostante ciò nel mondo c’è il male”. Ovvio che una domanda di tale portata non potesse essere elusa da Benedetto XVI. “Dov’era Dio in quei giorni?”, ha scandito il Papa tedesco davanti alla testimonianza della Shoah. Lo ha quasi gridato, non con la voce agnostica dell’assenza di Dio, tantomeno con la voce secolarista del Dio cacciato dalla storia, ma con la voce della Bibbia, il salmo 44, la voce di Israele sofferente.
Ripetendo in modo apparentemente simile il disagio di Jonas e di tutti coloro che si sono domandati il perché del “silenzio di Dio”, riecheggiando le grandi domande bibliche di Giobbe.

Qualche superficiale sì è stupito che un Papa potesse chiedere conto a Dio della sua assenza; qualche benpensante ha invece preferito cavarsela misurando il tasso di (presunto) revisionismo del suo discorso. Ma è probabile che il grido del Papa sul silenzio di Dio abbia scosso con forza soprattutto una certa teologia – di matrice protestante ma poi scivolata nel cattolicesimo di epoca post conciliare – da decenni affascinata (o appisolata) proprio dall’accettazione dell’idea di un Dio fattosi assente, silenzioso. Una teologia, per dirla con René Girard, che aveva “finito per accettare, tutto considerato, il verdetto di Nietzsche sul cristianesimo”.
Quello secondo cui Dio è morto.

Una corrente di pensiero che qualche decennio fa nei suoi esiti più radicali si chiamò “teologia della morte di Dio”, ma che, con la benedizione nobile del primo Hans Kung, ha influito su molto pensiero cattolico postconciliare.
Una teologia, a discapito del nome, progressista e ottimista, nata paradossalmente proprio nel nome di un teologo morto martire in una prigione nazista, Dietrich Bonhoeffer, e della sua luteranissima idea di responsabilità che escludeva dalla storia ogni consolatorio Dio “tappabuchi”.

Scriveva uno dei massimi esponenti del movimento, Thomas Altizer: “Dio è morto nel nostro tempo, nella nostra storia, nella nostra esistenza. Nella misura in cui viviamo nel nostro destino, non possiamo riconoscere né una traccia della presenza di Dio né l’immagine della sua realtà”. Era un modo per sbarazzarsi, più che di Dio, del suo palese conflitto d’interessi con la modernità secolarizzata.
Del resto un Dio che, tutto sommato, non era stato capace di impedire Auschwitz,
poteva benissimo “sacrificarsi per la sua creatura” e liberarla una volta per tutte dalla sua presenza ingombrante. Un Dio afono, più che silenzioso.

Un’eutanasia filosofica o un omicidio?

Nelle parole pronunciate ad Auschwitz da Benedetto XVI non vi è alcuna indulgenza
verso queste posizioni. La sua idea della “morte di Dio” è molto lontana. Quando dice che “i potentati del TerzoReich volevano schiacciare il popolo ebraico nella sua totalità; eliminarlo dall’elenco dei popoli della terra”, aggiunge che con ciò “volevano strappare anche la radice su cui si basa la fede cristiana, sostituendola definitivamente con la fede fatta da sé”. Dio che se ne va dalla storia per una morbida eutanasia filosofica, o peggio teologica, ragiona il Papa: “Se questo popolo, semplicemente con la sua esistenza, costituisce una testimonianza di quel Dio che ha parlato all’uomo”, “allora quel Dio doveva finalmente essere morto”.

“L’interpretazione del Papa è evidentemente molto diversa”, spiega Massimo Borghesi, docente di Filosofia della religione a Perugia che ha a lungo approfondito le tematiche del rapporto tra il cristianesimo e la modernità: “Ratzinger dice che Dio è proprio fatto fuori: la morte di Dio è un omicidio. Anzi, è lo sterminio del suo popolo.
Non c’è nulla di quella visione secolarizzata della religione.

Il Papa prende molto sul serio l’affermazione di Nietzsche: Dio è fatto fuori dalla storia perché viene ammazzato. E’ in questo senso, fa capire il Papa, che anche il popolo cristiano, che testimonia la stessa chiamata di Dio, soffre. E per estensione ‘tutti coloro che nella storia – ieri oggi e domani – soffrono per amor di Dio’, come ha detto riferendosi al Salmo 44”.

Per Ratzinger, il nazismo è l’estrema infamia prometeica del tentativo di far fuori Dio dal mondo”. Benedetto XVI ad Auschwitz ha ricordato due cose: la volontà di sradicare Dio dalla storia come fonte del male, e il mistero del silenzio di Dio che suscita il grido dell’uomo. E idealmente ha anche chiuso i conti con il fascino discreto del cristianesimo che si mette ottimisticamente d’accordo per l’eliminazione di Dio dal mondo. “Siamo molto distanti da quella cultura – ribadisce Borghesi – Qui siamo nel cuore e nelle parole della Bibbia, nel grido per il mistero di un Dio nascosto. Ma altro è il Dio silenzioso per la colpa degli uomini. Altro il Dio fatto fuori dalle loro filosofie e teologie”.