sabato, aprile 04, 2009
In Passione Domini [3]
"... come fu la vita di Gesù , il Figlio del Dio vivente?
Dove nacque? In una stalla. Credo che pochissimi uomini abbiano subito una così grande umiliazione; nato non in una casa accogliente e confortevole ma in mezzo ad animali. E quale fu la sua culla? Una mangiatoia. Tali furono gli inizi della sua esistenza terrena; e la sua condizione non cambiò con il passare degli anni. Disse una volta: Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli i loro nidi ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo.
Gesù non aveva casa: quando cominciò a predicare era quello che oggi viene chiamato con disprezzo un vagabondo. Alcuni sono costretti a dormire dove possono; e tale sorte toccò, per buona parte, anche a Nostro Signore. Leggiamo nel vangelo che Marta e altri furono ospitali con lui ma sebbene ci sia detto poco in proposito sembra che egli abbia condotto una vita più dura di qualunque contadino di villaggio.
Per quaranta giorni fu nel deserto; e dove dormì in tutto questo tempo? Nelle cavità della roccia. Chi furono suoi compagni? Peggiori anche di quelli nacque; nacque in una grotta passò quaranta notti in una caverna. Ma almeno alla nascita si trovò tra la mansuetudine di un bue e un asino; durante i quaranta giorni nel deserto invece egli fu con le bestie selvagge. Le caverne del deserto sono pieni di animali feroci e velenosi; lì dormì Cristo, e certamente, se non fosse stato per la'aiuto invisibile del Padre e della sua santità, essi lo avrebbero assalito.
Tra le avversità che ci affliggono nei sensi c'è inoltre il freddo, e Gesù volle sopportare anche questo: si alzava prima dell'alba e andava a pregare in luoghi solitari, alcune volte rimaneva di notte in mare. Ancora: il caldo [...] Gesù soffrì la fame e la sete. Era assetato al pozzo di Giacobbe e chiese alla Samaritana dell'acqua, ebbe fame nel deserto dopo aver digiunato per quaranta giorni. In un'altra occasione lui e i suoi discepoli, impegnati intensamente in opere di misericordia, non trovavano il tempo per mangiare il pane. E veramente , viaggiando qua e là per il proprio ministero, non sempre era sicuro di trovare cibo. [...]
Consideriamo le altre sofferenze che Gesù prese su di se quando divenne povero: il disprezzo, l'odio, la persecuzione ne sono alcuni aspetti. Già nell'infanzia Maria, sua madre, dovette fuggire con lui in Egitto per difenderlo da Erode che voleva ucciderlo. Quando tornò non poté abitare in Giudea ma dovette ritirarsi a Nazaret dove la Santa Vergine aveva ricevuto l'annunzio dell'angelo.
Sappiamo tutti come egli fu disprezzato dai farisei e dai sacerdoti quando cominciò a predicare e fu costretto a fuggire e a nascondersi più volte per salvare la vita.
Un'altra grande sofferenza che Gesù non allontanò da sé fu fu la perdita e la morte di parenti e amici: volle assaporare anche questa afflizione per amore nostro. Questo, in verità, non fu per niente facile per lui che su questa terra aveva solo un familiare e ben pochi amici. Lazzaro era suo amico, ed egli lo perdette; sapeva, è vero, che poteva risuscitarlo, come poi fece, tuttavia lo pianse amaramente, tanto che i giudei dicevano: Vedi come lo amava.
Ma la più grande e vera perdita, se possiamo osare di parlarne, fu il suo originario atto di umiliazione nel lasciare la glori del cielo e venire su questa terra. Questo in realtà è un grande mistero per noi, dall'inizio alla fine, e tuttavia Gesù concesse a san Paolo di parlarne come di un suo spogliarsi della gloria; cosicché possiamo considerarlo, con umiltà e venerazione, come una ineffabile e misteriosa privazione che egli volle subire divenendo per un certo tempo diseredato e simile alla carne del peccato.
Ma tutto questo non fu che l'inizio dei suoi dolori.
Per vedere la loro pienezza dobbiamo guardare alla sua Passione: nell'angoscia che allora sopportò vediamo riuniti e superati tutti gli altri dolori. [...]
Fu tradito a morte da uno dei suoi amici. Quale colpo amaro è questo! Era già abbastanza solo in vita ma in quest'ultima prova uno dei dodici, un suo amico intimo, lo tradì e gli altri lo abbandonarono e fuggirono, anche se Pietro e Giovanni subito dopo ripresero un po' di coraggio e lo seguirono. Ma poi Pietro cadde in un peccato ancor peggiore rinnegandolo tre volte.
Dalle parole che rivolse agli Apostoli durante l'Ultima Cena si può capire quanto egli si sentisse affezionato a loro e spinto verso di loro da un naturale movimento del cuore all'avvicinarsi della sua prova: Ho desiderato ardentemente di mangiare con voi questa Pasqua, prima di soffrire. Subito dopo ebbero inizio le sue sofferenze.
Il nostro benedetto ed innocente Salvatore, il Figlio di Dio, il Signore della vita, fu abbandonato nell'anima e nel corpo alla malizia del grande nemico di Dio e degli uomini.
Si legge nell'Antico Testamento che Giobbe fu consegnato a satana ma entro certi limiti prescritti; in principio non gli fu permesso di toccare la sua persona, poi gli fu concesso di colpire la sua persona ma non la sua vita. Ma satana ebbe il potere di trionfare -o almeno così credette- sulla vita del Salvatore; Gesù infatti disse ai suoi persecutori: Questa è la vostra ora, è la potenza delle tenebre.
Il suo capo fu ferito e coronato di spine; il suo volto fu insozzato di sputi; le sue spalle caricate della pesante croce, la sua schiena sfregiata e trafitta di flagelli, le sue mani e i suoi piedi forate dai chiodi, il suo costato ferito con disprezzo dalla lancia; la sua bocca fu arsa dalla sete e la sua anima talmente angosciata che egli gridò: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
In questo stato rimase sei ore sulla croce, il corpo tutto una ferita, esposto quasi nudo agli occhi della gente disprezzando l'ignominia, deriso, insultato, maledetto da tutti quelli che passavano. Certamente le parole del profeta: Oh, voi tutti che passate per la via, considerate e osservate se c'è un dolore simile al mio dolore, al dolore che mi tormenta, e con cui il Signore ha voluto affliggermi nel giorno della sua ira ardente, queste parole si possono applicare in tutta la loro pienezza soltanto a lui.
Quanto sono piccoli i nostri dolori di fronte a questi!
Quanto sono piccole le nostre pene, le nostre privazioni, le nostre persecuzioni, in paragone con quelle che Cristo affrontò volontariamente per noi! Se egli, l'innocente, sopportò afflizioni così grandi, c'è da meravigliarsi se noi peccatori dobbiamo sopportarne una minima parte?
Quanto siamo abbietti e miserabili nel comprenderle così poco, ad esserne così poco impressionati! Oh, se le sentissimo come dovremmo certamente esse sarebbero per noi, in questo tempo di Passione, più amare della morte di un amico o di una pensosa malattia. Non saremmo capaci, in questo tempo, di trovare piacere in cose mondane, perderemmo la gioia delle cose della terra, perderemmo l'appetito, avremmo il cuore spezzato, e solo per dovere mangeremmo e d andremmo a lavoro.
La Settimana Santa nella quale stiamo entrando, sarebbe per noi una settimana di pianto come quando vi è un morto in casa.
E' vero, non possiamo "sentire" questo solo perché lo vogliamo e lo dobbiamo; non possiamo forzare noi stessi a entrare in tali sentimenti. Io non esorto questi o quello a sentire così, perché non è in suo potere; non possiamo forzare i nostri sentimenti; e se anche lo possiamo non dobbiamo farlo, perché non è cosa buona.
Il sentimento profondo è la conseguenza naturale e necessaria di un cuore santo. Ma sebbene non possiamo avere questi sentimenti subito, per volontà nostra, possiamo però camminare lungo il percorso per giungervi. Possiamo crescere in grazia fin quando non "sentiamo".
Nel frattempo possiamo osservare una esteriore astinenza dagli innocenti piaceri e dalle comodità della vita, per prepararci a tali sentimenti: quell'astinenza che faremmo volentieri se li avessimo già provati.
Meditiamo le sofferenze di Cristo. Saremo portati così, col passar del tempo, a tali profondi sentimenti.
Preghiamo Dio che faccia per noi quello che noi stessi non possiamo ottenere; che ci faccia "sentire", che ci doni lo spirito di gratitudine e di amore, di venerazione, di umiltà, di santo timore, di conversione, di santità e di fede viva."
(John Henry NEWMAN; Parochial and Plain Sermons, VI)
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