Andando alla ricerca di notizie sulla Roma dell’Ottocento, mi sono piacevolmente imbattuto in un polemico scritto protestante, delizioso nella descrizione e nella riprovazione dei costumi della Roma ecclesiastica.
Tra le altre cose si descrive un tipico Santo della Roma papalina:
Il santo contemporaneo, che fosse in maggior grido, era l’abate don Vincenzo Pallotti, chiamato comunemente 1’ abate Pallotta.
Era un uomo di statura piccolissimo, vestiva l’abito ecclesiastico con una semplicità piuttosto affettata, la sua casa era un santuario. Nella prima camera vi era una statua della Madonna in cera di grandezza naturale, ritta in piedi dentro un’urna di cristallo, una lampada era sempre accesa dinanzi ad essa.
In una seconda camera vi era un gran crocifisso alto quanto la parete con la via crucis all’ intorno.
La terza camera era piuttosto grande, e le pareti erano tutte ricoperte di libri ascetici e teologici perfettamente inutili per lui, perchè diceva non aver tempo da perdere nel leggere.In mezzo di quella camera vi era un gran crocifisso messo in terra, che tutti quelli che entravano dovevano baciarlo.
Finalmente vi era un camerino dove egli si teneva per confessare. In esso vi era il Monte Calvario con la scena della crocifissione tutta in rilievo, poi vi era un piccolo canapè tessuto di paglia ordinaria. Nella sua casa non vi era cucina, perchè per lui perfettamente inutile; egli non mangiava che poco pane, un pezzo di formaggio nei giorni di grasso, e qualche frutto secco nei giorni di magro; la sua bevanda non era che acqua semplice.
Il suo padre era un ricco pizzicagnolo. Divenuto vecchio, vedendo il figlio così santo, confessò al figlio di avere, come il solito, rubato nel peso agli avventori, e domandò al figlio come rimediare a questo fatto. Il figlio che era ignorante, ma di buona fede, non aveva adottata la morale dei preti di restituire alla Chiesa quello che si è rubato ai laici; d’ altronde è impossibile trovare tutti i derubati per fare la restituzione. Allora l’abate Pallotta ordinò al padre di dare da quel1’ ora innanzi tre once di più a libbra a tutti coloro che andavano a spendere. Il buon vecchio così fece; ma il pubblico essendosene avveduto, era tale l’affluenza degli avventori nella sua bottega, che dalla mattina alla sera era sempre piena. La cosa sarebbe finita con l’intiero fallimento del vecchio; ma gli altri due figli che erano nella bottega, che non dividevano per nulla le opinioni del fratello, scacciarono il padre, e così rimisero le cose come prima.
L’ abate Pallotta godeva una grande influenza in Roma, egli otteneva tutto quel che voleva, avea fondato due case di rifugio per le povere ragazze abbandonate, e mandava tutte le sere alcuni de’ suoi discepoli nelle vie più frequentate di Roma a cercar coteste ragazze, e persuaderle di entrare nei suoi rifugi; in questo modo ne manteneva più di duecento. Egli aveva stabilito una congregazione di preti chiamata l’Apostolato cattolico(…)
L’abate Pallotta era un fanatico, ma lo era in buona fede. Egli non si serviva della sua santità per arricchire sè od altri; egli era umile, ed era notte e giorno occupato a predicare, confessare ed assistere i malati. Egli morì nel 1849, nei tempi di grandi sconvolgimenti in Roma; egli fu sempre eguale a sè stesso, continuò nel suo tenore di vita senza intrigarsi per nulla nelle cose politiche; a tutti coloro che gli domandavano cosa egli pensasse su quelle cose, rispondeva che bisognava pregare e pregar molto, affinché Dio dirigesse tutto alla sua gloria.
Mentre il popolo romano dava la caccia ai preti, 1’ abate Pallotta era da tutti riverito e rispettato.
Ed ecco l’incontro ecumenicamente encomiabile tra don Pallotti e l’autore del libro anticattolico, all’epoca seminarista passato alla riforma grazie alla propaganda valdese.
L’ abate Pallotta è un prete che gode in Roma fama di grande santità. Piccolissimo di statura, macilente nel viso, gracile nella persona, calvo nella testa, coperto di un abito di panno grossolano, legato al fianco con una cintura della stessa stoffa, affetta 1’ aria di uno di quei santi che si veggono dipinti sugli altari. Egli gode in Roma tutta la stima e la venerazione specialmente del popolo basso.
Quest’uomo è il confessore ordinario dei prigionieri dell’ Inquisizione, ed era stato mandato da me per convertirmi. Appena entrato nella mia prigione, trasse da una delle vaste saccoccie del suo abito un Crocifisso di ottone, un libro, ed una stola violacea; poscia trasse da una manica del suo abito un’ immagine della Vergine in basso rilievo sul rame: adattò il Crocifisso sulla tavola poggiandolo al muro in modo che restasse ritto, e pose ai piedi di esso la immagine della Vergine, si pose al collo la stola e si prostrò avanti a quelle immagini a pregare.
Dopo alcuni minuti di preghiera, si assise, e m’ invitò ad inginocchiarmi ai suoi piedi per fare la mia confessione. Io risposi che Dio solo rimette i peccati, e che la mia confessione l’ aveva fatta a Dio, la faceva ogni giorno a Dio, e perciò non poteva farla ad un uomo; tanto meno a lui che non conosceva punto, e che sapea di certo non avergli mai fatta alcuna ingiuria per cui dovessi domandargliene perdono.
Mentre io parlava così, il povero abate si faceva segni di croce, si levò da sedere tutto spaventato, ed allontanandosi da me, mi disse che io era posseduto dal demonio, e che voleva esorcizzarmi (, ed afferrato il libro degli esorcismi si accingeva a farlo, ma io, levandogli il libro dalle mani, gli dissi che i posseduti dal demonio sono coloro che perseguitano così barbaramente gl’ innocenti, e quindi se avea voglia di esorcizzare qualcuno, andasse ad esorcizzare i Padri Inquisitori e il mio carceriere.
Queste parole fecero su di lui l’effetto della scossa elettrica. Cadde genuflesso innanzi a me, trasse di tasca una disciplina di ferro, e, movendo non so quale ordigno, si aprì il suo abito dietro le spalle che rimasero nude, in quello stato incominciò con quanta forza aveva a disciplinarsi gridando: "Signore, misericordia".
(L’ abate Pallotta era un missionario, ed i Missionari usano ancora, in Roma ed in qualche altro paese, di darsi la disciplina per muovere il popolo al ravvedimento. L’ abate Pallotta, uomo di buona fede, se la dava davvero; ma in generale la disciplina dei Missionari è un atto di commedia, nè più nè meno…
Per tornare all’abate Pallotta, egli avea sempre una disciplina in tasca; ma la sua disciplina non era per ostentazione, era piccola, ma le lamine di ferro erano taglienti, e fra una lamina e 1’ altra in luogo di esservi un anello, vi era una stella di ferro a più punte ben aguzze. Quando si disciplinava, tirava un cordoncino avanti sul petto che apriva la sottana in due dietro le spalle, e il sangue scorreva realmente allorchè si disciplinava. Egli non si faceva mai la disciplina in pubblico ma solo quando si trattava della conversione di qualche peccatore ostinato).
Quest’ azione mi scosse fortemente, non sapea cosa pensare di quell’ uomo. Pochi istanti passarono in quello stupore; ma, quando vidi le sue spalle insanguinate, mi scossi, mi gettai sopra lui, e gli strappai violentemente la disciplina di mano. Avrei desiderato di avere con me il sig. Pasquali, affinchè, col suo sangue freddo e con la sua conoscenza biblica, avesse fatto conoscere a quell’ uomo il suo fanatismo religioso: ma egli levatosi in piedi mi disse in tono amorevole: "Figlio mio, voi che temete tanto pochi colpi di disciplina, cosa farete nei tormenti indescrivibili dell’ inferno, nei quali fra poco cadrete, se ricusate il perdono che oggi Iddio vi offre nella sua misericordia?"
Qui nacque fra noi una discussione: io diceva che non solo non ricusava il perdono di Dio, ma che lo avea di già ricevuto nella sua misericordia. "Eresia, ostinazione, diceva il prete: il perdono di Dio non si riceve che per nostro mezzo."
Non ti starò qui a rapportare quella discussione che durò per circa mezz’ ora, solo ti dirò che a tutti i passi del Vangelo che io citava per dimostrare che il perdono dei peccati ci viene gratuitamente da Dio alla sola condizione di credere in Gesù Cristo, egli rispondeva baciando l’immagine della Vergine, e pregandola che mi liberasse dal demonio dell’eresia.
Voleva che anch’ io baciassi quell’ immagine e mi prostrassi con lui solo per dire un’ Ave Maria, promettendomi che la Vergine avrebbe operata la mia conversione.
Io mi ricusai positivamente, e recitai con solennità le parole del secondo comandamento di Dio. Allora l’abate Pallotta rimise in tasca le sue immagini, e uscì dalla prigione dicendo:
"Questo genere di demoni non si scaccia che con l’orazione e col digiuno!"
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