In morte di padre Ragheed Ganni sacerdote della Chiesa Cattolica Caldea assassinato a Mossul assieme a tre diaconi la domenica di Pentecoste dopo che aveva celebrato la divina liturgia nella chiesa parrocchiale dedicata allo Spirito Santo.
Dopo la celebrazione eucaristica, padre Ragheed si stava allontanando dalla chiesa in macchina insieme ai tre diaconi e alla moglie di uno di questi, Gassan Isam Bidawed.
Negli ultimi giorni i tre accompagnavano sempre il sacerdote per cercare di proteggerlo. «Erano giovani pieni di fede, che viaggiavano con il loro parroco rischiando la vita credendo in Cristo», raccontano gli amici. All'improvviso, proprio all'angolo della strada, la macchina è stata fermata da uomini armati.
Gli aggressori, fatta allontanare la donna, hanno ucciso con più colpi d'arma da fuoco i quattro ecclesiastici.
Intorno ai cadaveri, hanno poi piazzato alcune autobomba, progettando di far morire altra gente che si fosse avvicinata a recuperare i corpi. Nelle prime ore successive all'attentato, le salme sono rimaste abbandonate per strada perché nessuno osava avvicinarsi. Solo verso le 22 (ora di Mosul), le forze dell'ordine sono riuscite a disinnescare le bombe e recuperare le salme, ricomposte nella chiesa del Santo Spirito.
Sull'Avvenire di martedì 5 giugno il seguente profilo a firma di Lorenzo Fazzini:
«Non ho paura: si deve compiere la volontà di Dio»
Per lui il patriarca caldeo Emmanuel Delli ha speso l'impegnativa parola di «martire». In effetti non esiste termine più appropriato per la figura di padre Ragheed Ganni, il sacerdote caldeo assassinato domenica scorsa a Mosul insieme a tre suddiaconi davanti alla chiesa dello Spirito Santo, di cui era parroco da pochi anni. Sì, perché padre Ragheed aveva chiara la coscienza che vivere da cattolico nell'Iraq martoriato dalla crescente persecuzione anticristiana poteva voler dire la morte. Una strada su cui il giovane sacerdote caldeo (aveva 35 anni) si era incamminato volontariamente: nel 2003 aveva deciso di rientrare nella sua città, Mosul, nel Nord dell'Iraq, un tempo ritenuto più sicuro per la minoranza cristiana irachena. «Questo è il mio Paese, qui c'è la mia gente: dopo sette anni di studio in Italia (a Roma aveva frequentato il collegio irlandese, ndr) dovevo tornare» aveva confidato in un'intervista ad AsiaNews nel 2004. Diventato segretario del vescovo caldeo di Mosul, monsignor Paul Faraj Raho, e docente anche all'istituto teologico di Baghdad (a Roma aveva conseguito una licenza in Ecumenismo), era stato diretto spettatore» dell'escalation di violenze contro i cristiani. Il 7 dicembre 2004 aveva visto con i propri occhi lo sfregio all'arcivescovado di Mosul: si trovava lì quando 5 terroristi erano penetrati nell'edificio e lo avevano disseminato di bombe per poi farlo saltare in aria. «È rimasto in piedi un muro, sopra c'è la foto di Giovanni Paolo II» raccontò dicendo di sentirsi un «sopravvissuto a morte certa». Poi, il 2 marzo e il 30 marzo del 2006, altre bombe contro la chiesa dello Spirito Santo: «Ma non smetteremo di celebrare la messa, lo faremo sotto terra» diceva ai giornalisti; la sua parrocchia aveva subito un'altra azione ostile il primo aprile scorso. Padre Ganni era intervenuto al Congresso eucaristico di Bari il 28 maggio 2005 nella veglia precedente l'arrivo di Benedetto XVI: «Proprio fra le difficoltà stiamo comprendendo il valore della domenica, giorno dell'incontro con Gesù il Risorto, giorno dell'unità e dell'amore fra di noi - aveva scandito nella piana di Marisabella -. Qualche volta mi sento fragile e pieno di paura. Quando, con in mano l'Eucarestia, dico "Ecco l'Agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo", sento in me la Sua forza: io tengo in mano l'ostia, ma in realtà è Lui che tiene me e tutti noi, che sfida i terroristi e ci tiene uniti nel suo amore senza fine». A Bari, padre Ganni rifletteva sul paradossale dono «elargito» dal terrorismo ai cristiani iracheni: «In tempi tranquilli ci si dimentica il grande dono che ci è fatto. L'ironia è questa: attraverso la violenza abbiamo scoperto che l'Eucarestia, il Cristo morto e risorto, ci dà la vita. E questo ci permette di resistere e sperare». «Qualcuno pensa che dovremmo combattere, ma io dico che con la nostra fede dobbiamo insegnare agli altri il nostro modo di vivere»: questo il punto di vista di padre Ragheed sul ruolo dei cristiani nell'Iraq insanguinato.
Di recente aveva confidato ad una giornalista di AsiaNews: «Stiamo per crollare». A sminuire la fiducia dell'incrollabile prete caldeo - giunto al sacerdozio dopo una laurea in ingegneria - erano le vessazioni degli estremisti contro i cristiani, la solitudine che questi ultimi sentivano, la mancanza di acqua, luce e gas; i rapimenti che non risparmiavano i religiosi. Un giorno, in un colloquio telefonico, gli chiesero: padre, ma perché è tornato in Iraq dove rischia la vita? «Non ho paura - rispose -. Ho sempre pregato perché si compia la volontà di Dio. Qui a Mosul c'è la mia diocesi, ci sono i miei cristiani. Dovevo tornare perché la gente ha bisogno di guide spirituali; e io non sono migliore di loro per stare lontano da qui».
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