sabato, giugno 23, 2007

vite parallele /10

"IL TESORETTO" di Brunetto Latini
e di Tommaso Padoa Schioppa .



Ovvero:Ampli stralci di un gustosissimo articolo di Siegmund Ginzberg sul Foglio di sabato 23 giugno 2007.
ALTRO CHE PRODI. PER UN TESORETTO MESSER LATINI FINI’ ALL’INFERNO
Destra e sinistra, giustizia e mercato, politica ed economia. Il poeta che fu maestro di Dante ha scrritto un’opera sulla quale Padoa-Schioppa avrebbe di che riflettere. Il bestseller della crisi perfetta:


"Siete voi qui ser Brunetto?” gli chiede Dante sorpreso incontrandolo nell’Inferno (Canto XV, 30). Ai giorni nostri l’avrebbe potuto incontrare, inferno per inferno, altrove, in una delle bolgie in cui si fa o si discute della politica italiana, magari nel comitato promotore del partito democratico.
No, no, che avete capito? Non per quello. In questo articolo che vi accingete a leggere non si parla di family day, matrimoni gay e pederastia, anche se da qualche tempo si è avuta quasi l’impressione che questi argomenti avessero, come dire, sequestrato la politica italiana. Del resto, non sono così sicuro che Messer Brunetto si trovi all’inferno perché omosessuale.

Leggendo il suo Tresor, nella curatissima, preziosa (anche per il costo) edizione nei Millenni Einaudi, col testo a fronte nell’originale francese (pagine LIX, 890, euro 85), ho avuto piuttosto l’impressione che soffrisse le pene dell’inferno per altre ragioni: perché, dopo aver passato una vita a considerare la politica come la cosa più seria di cui ci si possa occupare, si era accorto che, come si suol dire, la situazione era “grave, gravissima, ma non seria”; e dopo aver passato la vita a dare buoni consigli ai politici, si era reso conto di aver sprecato il suo talento.

“Sieti raccomandato il mio Tesoro/, nel qual io vivo ancora, e più non cheggio”, è il modo in cui alla fine del Canto XV Ser Brunetto si congeda da Dante che era stato suo allievo. Tresor in francese. Tesoretto nella versione italiana, che non è affatto identica, tanto che a lungo fu attribuita ad un altro autore [...].

Sin dall’esordio ci viene spiegato che il libro si chiama “Tesoro” perché raccoglie sapienza in pillole, esattamente come “il signore che vuole accumulare in poco spazio cose di grandissimo valore, non soltanto per il proprio piacere, ma per accrescere la propria potenza e rendere sicuro il proprio stato in guerra e in pace, raccoglie le cose più care e i gioielli più preziosi”.
Si tratta di un’enciclopedia, come ce n’erano molte nel Medioevo, una raccolta, un compendio di conoscenze in pillole, su quasi ogni ramo del sapere del tempo. Qualcuno ha notato: una sorta di Wikipedia di quei tempi, cui anche Dante aveva abbondantemente attinto. Parla di tutto, di anime e corpi, santi e fanti, asini e cammelli, ma anche di zoologia fantastica, alla Borges. A differenza delle altre compilazioni enciclopediche e bestiari, questa ha però un filo conduttore di un’attualità impressionante.
Ecco come, sin dalle prime righe, ci viene anticipato il contenuto delle tre parti in cui il libro si divide.

“La prima parte di questo tesoro è paragonabile al denaro contante, da spendere sempre in cose necessarie; vale a dire che tratta sommariamente del principio del mondo, dell’antichità delle vecchie storie, della composizione del mondo e della natura di tutte le cose…”. Con l’avvertenza che “come senza denaro non ci sarebbe alcuna mediazione tra le opere degli uomini, che regolasse gli uni nei confronti degli altri, similmente nessuno può conoscere pienamente le altre cose se non conosce questa prima parte…”.

Della seconda parte ci viene detto che “è di pietre preziose”, perché “tratta dei vizi e delle virtù… cioè tratta di quali cose si devono e quali non si devono fare, e mostra per quale ragione…”.
Mentre “la terza parte del tesoro è d’oro puro, vale a dire che insegna a parlare… e come il signore deve governare le genti… in particolare secondo gli usi degli italiani”. Con l’avvertenza che “come l’oro supera tutte le specie di metalli, così la scienza del ben parlare e governare gli uomini è la più nobile di ogni arte del mondo” (Tresor, I,1.1-4).

Sa di politica, e sa di economia Messer Brunetto. Il suo “tesoretto” non è quello di cui leggiamo in questi giorni, ma è sorprendentemente più affine agli argomenti dei tempi di Tommaso Padoa-Schioppa che di Tommaso d’Aquino. Scrive di denaro e di economia, e del loro rapporto con la politica in termini che suonano sconvolgentemente moderni, e insieme sanno di antica saggezza senza tempo. State a sentire:
“Il giusto equilibramento dell’amicizia riequilibria i tipi di amicizia che sono diversi, come avviene nelle città; il calzolaio infatti vende le sue scarpe per quanto valgono, e altrettanto fanno gli altri. Tra tutti loro c’è una cosa in comune amata da tutti, per mezzo della quale essi preparano e confermano la transazione, e cioè l’oro e l’argento” (Libro II, capitolo 44,“Qui parla del governo”, paragrafo 18). Scommetto che il vecchio Karl Marx si roderebbe le dita per non aver trovato questa citazione mentre lavorava sul suo grande romanzo del Capitale.

E quest’altra? “Se un uomo canta con la speranza di guadagnare, se gli rendi in cambio del canto non se ne riterrà soddisfatto, perché si aspettava un’altra ricompensa. Non ci sarò dunque concordia nei commerci se questi non sono concordati secondo volontà, e ciò avviene quando ciascuno riceve ciò che desidera in cambio di ciò che dà” (II, 44.21).

Non so se ci sia altro autore pre-moderno tanto convinto che il mercato faccia bene, sia il luogo d’equilibrio per eccellenza.
Sa benissimo che il mercato è un campo di battaglia, in cui ciascuno pensa al proprio interesse, e lo persegue anche a discapito degli altri. E che “essendo un uomo cavaliere, un altro mercante, altri contadini, e recando perciò danno il profitto dell’uno al guadagno dell’altro, nascerebbero odi e guerre, e porterebbero alla rovina l’umanità, se non ci fosse la giustizia a tutelare e difendere la vita in comune ; la giustizia, la cui forza è così grande che quegli stessi che si pascono di fellonia e di torti non possono vivere senza almeno un po’ di giustizia”.
Tutti la vogliono, tutti la chiedono, la giustizia, “anche i ladri che rubano insieme, infatti, vogliono che sia osservata giustizia tra loro e, se il loro capo non spartisce equamente la preda, i suoi compari lo uccideranno o lo abbandoneranno”.
Senza giustizia non funzionerebbe nulla, nemmeno il mercato, ragione per cui, quanto e più ancora che a tutti gli altri, “la giustizia è necessaria a quelli che vendono e comprano, prendono e danno in affitto e si occupano di commercio”.

Ma c’è chi ha osservato che la giustizia di Brunetto Latini non ha la rigidità, la precisione matematica di quella di Aristotele, è una giustizia pragmatica, approssimativa. Una “iustitia mediatrix”, giustizia mediatrice, verrebbe da dire col Kantorowicz. “La giustizia sta a metà tra il guadagnare e il perdere, e non può essere senza un dare, un prendere e uno scambiare”. Ed è così “perché il mercante di stoffe dà stoffa in cambio di un’altra cosa di cui ha bisogno, e il fabbro dà del ferro per un’altra cosa ancora; ed è poiché in quello scambio c’era grande difficoltà che fu inventata una cosa che lo regolasse, cioè il danaro, in modo che l’opera di chi costruisce la casa si possa commisurare in denaro con l’opera del calzolaio” (II, 38.6).
[...]
Nella carretta che trasporta ed espone il tesoro di Ser Brunetto c’è mercanzia per tutti i gusti. Ci sono perle e molta fuffa. C’è il costante invito al “giusto mezzo”, tanto ricorrente e insistente da farlo apparire “cinese”, farmi pensare a Lao Tse e alla sua “via del tao”. “La premiere vertu c’est prudence” si intitola il capitolo 57 del II Libro. “Ancore de prudence”, quello successivo. Poi passa a parlare della “previdenza” (cap. 60) e della “cautela” (cap. 61).
Maestro Brunetto è un “centrista” sfegatato, non un estremista come il suo allievo Dante. E’ un “riformista”, e anche molto cauto e prudente, non un “rivoluzionario”.
Trasuda moderazione da tutti i pori.

“La cautela consiste nel guardarsi dai vizi opposti… seguire in ogni cosa il giusto mezzo; si devono conservare i propri averi in modo tale che, per fuggire l’avarizia, non si diventi poi dissipatori, e ci si deve mantenere tanto lontani dalla stolta temerarietà da non cadere però nella paura, perché è infatti veramente ardito chi intraprende ciò che è da intraprendere, e fugge ciò che è da fuggire, mentre il pauroso non intraprende né l’una né l’altra cosa e lo stolto temerario le intraprende entrambe” (II, 61.1). E’ l’esatto contrario del fanatico, mette in guardia dallo sposare con eccessivo entusiasmo e in modo acritico qualsiasi causa, diffida di tutte, comprese quelle che gli sono care. “Riguardo a ciò che è dubbio non dare giudizi, ma tieni i tuo parere in sospeso, senza definirlo, perché non tutte le cose verosimili sono vere, e non è falsa ogni cosa che sembra incredibile. La verità ha molte volte l’aspetto della menzogna e la menzogna è coperta da una parvenza di verità; perché come l’adulatore copre le sue cattive intenzioni con un atteggiamento accattivante del viso, così la falsità può ricevere il colore e l’aspetto della verità per meglio indurre in errore” (II, 58.3).

Per governare bisogna saper parlare alla gente. Farsi capire è più importante ancora del governare bene.
Sono, dovrebbero essere cose ovvie.
Trovo straordinario però che l’importanza cruciale, per la politica, del saper comunicare l’avesse afferrata già tutta un uomo del 1200.
Ser Brunetto è maestro di retorica, anzi rettorica, con la doppia t, che, come spiega suggestivamente Pietro Beltrami nell’introduzione a questa edizione del Tresor, “non è semplice variante formale di retorica, ma il segno di una sovrapposizione mentale e culturale, che si impone nel Duecento italiano, fra la figura del rètore, di colui che sa pronunciare discorsi persuasivi, e quella del rettore, di colui che ‘regge’, governa il comune”.
[...]
Ser Brunetto è un maestro nell’arte governare e di spiegarsi, della politica come gestione del “bene comune”, e insieme del cimento per “indurre ad unità gli animi molti”; insomma è esperto tutt’uno di politica e scienza della comunicazione, come diremmo oggi.
Allora non c’erano le tv. Non c’erano ancora nemmeno i giornali. Lui conosce due modi per comunicare, per spiegarsi, “due maniere di parlare”: “de boche o par letres”, con la bocca o con le lettere. E li padroneggia entrambi, cavalcando le spalle dei giganti antichi, da Aristotele e Cicerone, ma aggiungendovi anche del suo. Non lo fa gratis. E’ un maestro anche nel vendere i suoi discorsi.
I suoi Tesori e Tesoretti furono innanzitutto anche grandi bestseller della sua epoca, venivano copiati e ricopiati, miniati, trasformati in edizioni di gran lusso, non c’era corte europea degna di rispetto che non sentisse il bisogno di averne almeno una copia, di manoscritti ce ne sono tanti da far perdere la testa agli studiosi, e per giunta diversi tra loro, al punto da dire cose completamente diverse, talvolta opposte, in passaggi cruciali.
[...]
Ser Brunetto non è solo un teorico della politica. E’ un tecnico, un virtuoso, un acrobata. Che da muoversi in una politica che appare per certi versi anche più aggrovigliata di quella cui siamo abituati. Altro che bipartitismo imperfetto: le città di quei tempi sono lacerate da conflitti che si intrecciano tra di loro, in una miriade di sottoconflitti all’interno di quelli che a prima vista potrebbero anche apparire come due schieramenti contrapposti.

Non ci sono solo la destra e la sinistra, il popolo grasso e il popolo minuto, nobili e mercanti, i partigiani del Papa e quelli dell’Imperatore, Guelfi e Ghibellini. Ci si divide a morte anche tra Guelfi bianchi e Guelfi neri, tra le famiglie capeggiate dai Cerchi e quelle capeggiate dai Donati, e all’interno della stessa famiglia. Ci sono guelfi che propugnano l’alleanza con il Papa e l’Angiò, e accusano altri guelfi di tradimento e intelligenza coi ghibellini. Ci sono i poteri forti che si contendono le amicizie politiche, si schierano in base a strategie contrapposte, ci sono cordate di banchieri in concorrenza con altre cordate di banchieri.
Ser Brunetto, notaio, avvocato d’affari, sottile diplomatico, legato a grandi interessi bancari con ambizioni europee, li conosce a menadito, si muove con competenza nella giungla.
[...]
Eppure Li Livres du Tresor è un bestseller datato.
L’originale risale a quando Ser Brunetto, notaio e alto funzionario della repubblica fiorentina, era stato sorpreso, mentre si trovava all’estero, da un improvviso cambio di governo a Firenze. In un momento confuso, in cui si moltiplicavano le candidature al sacro romano impero quasi come sembrano moltiplicarsi le candidature a leader del partito democratico (ma si potrebbe dire lo stesso per l’altro Polo), l’avevano mandato a svolgere una delicata missione diplomatica presso Alfonso X di Castiglia.
[...]
La Siviglia in cui Ser Brunetto fu ricevuto da Alfonso il Saggio nell’Alcazar, da poco riconquistato ai Mori, era uno dei cuori pulsanti dell’Europa, un eccezionale laboratorio dove cristiani, ebrei e musulmani collaboravano strettamente. Brunetto ne fu certamente impressionato. E’ possibile che proprio in quella occasione il notaio fiorentino abbia acquisito stimoli culturali, libri e manoscritti che poi avrebbe trasmesso ai suoi migliori allievi.
Forse anche alcune delle “fonti musulmane” della Divina commedia. Che Dante possa essersi ispirato, nell’immaginare il suo viaggio dall’inferno fino al paradiso a uno e l’altro dei molti testi sui viaggi ultraterreni di Maometto...

...grazie anche a tutto quel che aveva appreso a Siviglia, la New York di allora, Brunetto Latini aveva messo momentaneamente da canto la politica e s’era poi messo a scrivere il suo Tesoro. E’ lui stesso a raccontarlo in un passo scherzoso, deliziosamente carico di humour, del Tesoretto, con versi nei quali qualcuno ha addirittura creduto di vedere il modello per l’incipit della della Commedia di Dante: “E poi sança soggiorno/ Ripresi il mio ritorno,/ Tanto che nel paese/ Di terra navarrese, / Venendo per la valle/ Del piano di Roncisvalle,/ Incontrai uno scolaio/ Sovr’un muletto baio/ Che venia da Bolongnia/… Ed io pur domandai/ Novelle di Toscana/ In dolce lingua e piana;/ Ed e’cortesemente/ Mi disse immantinente/ Che Guelfi di Fiorença/ Per mala Provedença/ E per forza di guerra/ Eran fuori de la terra,/ E il dannagio era forte/ Di pregione e di morte”.

I guelfi fiorentini “vennero cacciati fuori dalla città e le loro cose messe a fuoco e fiamme e distrutte” e “con costoro fu cacciato Maestro Brunetto Latini, e per quella guerra era esiliato in Francia quando compose questo libro per amore del suo amico”, il modo in cui la mette nel Tresor (I, 99.1). Comunque la si voglia mettere, sul comico o sul drammatico, in tragoedia o in comoedia, la sostanza è che Ser Brunetto aveva capito al volo che non tirava più aria. Anche questo è una dote non da poco per un leader politico. Non è forse a caso che diversi dei capitoli finali del Tresor siano dedicati all’argomento dell’uscita di scena del leader, non meno importante della sua entrata in scena, al “come il signore deve comportarsi alla fine della sua signoria”, alle “cose che il signore deve fare al termine della sua funzione”, a “come il signore deve trattenersi a rispondere di sé”, cioè di come ad un certo punto deve rendere conto del suo operato e di quello dei suoi (III, 103-104-105).

Altro tratto particolare, che colpisce per la sua attualità, è che il signore di cui parla e dà consigli Ser Brunetto nel suo Tresor, è un signore democraticamente eletto. A differenza del Principe di Machiavelli, del suo potere deve rendere conto a degli elettori, la sua potestà è a termine.

Brunetto Latini si stacca da altri esponenti del pensiero medievale, e dallo stesso Dante, che come è noto invocava la “monarchia”, la leadership pura, il “Veltro” (no, non il Veltroni) salvatore, perché nella democrazia elettiva sembra crederci davvero, anche quando tutto direbbe che non funziona, o non la lasciano funzionare.
Ci crede al punto di forzare, anzi falsificare Aristotele, pur fingendo di farne una semplice traduzione. “Il governo è di tre tipi: il primo è dei re, il secondo è dei buoni, il terzo è dei comuni, il quale è di gran lunga il migliore tra questi altri”, esordisce il capitolo del Tresor in cui “ci dit de signorie”, cioè, si parla del governo. La tripartizone è fedelmente ripresa da Aristotele. La così netta dichiarazione di preferenza per la democrazia, invece è tutta di Ser Brunetto. Si doveva arrivare a Churchill perché in occidente qualcun altro dicesse chiaro e tondo di ritenere la democrazia una pessima forma di governo, tranne per il fatto che tutte le altre sono peggiori.

Ad ogni modo sapeva come e quando mettersi da parte. E forse aveva fiducia nell’alternanza. [...] Persa la partita in politica, Brunetto Latini era tornato a guadagnarsi la vita “nel settore privato”, facendo il notaio tra Parigi e Arras, per i mercanti e finanzieri fiorentini. Ma quando l’alternanza funziona, c’è speranza anche per gli sconfitti. Ridivenuta Firenze nuovamente guelfa, Ser Brunetto vi era tornato, per candidarsi con successo al priorato nel 1287 e poi morirvi, a tarda età, nel 1293, al colmo di onori e prestigio, e al culmine della carriera.
L’“amico” dei tempi dell’esilio, cui aveva dedicato anni prima il Tresor, era l’allora re di Francia Carlo d’Angiò (Anjou).

Il clou della terza parte del Tresor, un modello di lettera, è niente meno che un invito ufficiale, “col comune assenso della città”, al re di Francia perché assuma la signoria (nel testo si dice Roma, ma è chiaro che ci si riferisce a Firenze), con regolare stipendio, “un salario di 10 lire di tornesi”, portandosi dietro “dieci giudici e dodici notai”, “voi e tutto il vostro seguito”, epperò “a vostro rischio per le persone e le cose”, insomma intervenga con le sue truppe in Italia, contro gli eredi dell’imperatore Federico.
[...]
Il Tresor non è “pacifista”, ma ha buoni consigli per tutti, sulla necessità di avere comunque obiettivi chiari, una exit strategy: “In tempo di guerra, quando è necessario combattere, i signori devono in primo luogo cominciare la guerra con l’intenzione di poter vivere in pace dopo il combattimento, senza fare torti (II, 86).
Il problema è che anche chi aveva approvato, o addirittura invocato l’intervento, tende a cambiare idea quando le cose si mettono male. L’entusiasmo per Carlo si erano rapidamente raffreddato, anche per coloro che l’avevano poco prima invocato ed “eletto” salvatore d’Italia. Persino Papa Clemente VI, che lo aveva nominato re di Sicilia e addirittura proprio vicario, si mise a rampognarlo di malgoverno, e di aver disatteso i suoi consigli.

Sotto accusa erano in particolare le sue politiche fiscali, che avevano scontentato tutti. Scoppiarono rivolte contro l’eccesso di tasse. In particolare, la “decima” per finanziare una crociata contro Costantinopoli ortodossa (anziché per la “liberazione” di Gerusalemme musulmana) aveva rovinato la Sicilia. Anche gli amici di un tempo cominciarono a prendere le distanze.

Una copia della prima edizione italiana del Tesoro già dice che è stata scritta da Ser Brunetto “per amor del suo nimico”, anziché “amico” come diceva il Tresor in francese.
Gli danno ormai del tiranno, del “più Nerone che Nerone”, peggio persino dei saraceni: “Tu vero Nerone Neronior, et crudelior saracenis”. Finché con la rivolta dei Vespri siciliani, per i francesi di Carlo si mette davvero male. C’è persino chi ritiene che nei Vespri ci fosse lo zampino di Ser Brunetto.
Faceva finta di essere dalla parte di Carlo “ma in tutte cose al segreto gli fu contrario… acconsentì e diede aiuto e favore al trattato e rubellazione ch’al re Carlo fu fatto dell’isola di Cicilia”, sostiene il Villani.

Se a questo punto volete sapere perché, pur con tutto l’affetto e il rispetto che gli porta, Dante lo manda all’inferno, a rischio di deludervi, vi confesso che non lo so.
[...]
Anche per gli altri, nominati in sua compagnia, di cui ci viene detto che “saper d’alcuno è buono; de li altri fia laudabile tacerci”, e che “tutti fur cherci e letterati grandi e di gran fama, d’un peccato medesimo al mondo lerci”, può far venire in mente Pasolini o l’argomento preti e pedofilia, ma non è accertato che di questo si tratti. C’è chi ha osservato che i nominati occupavano quasi tutti di finanza, quindi Dante che è un po’ moralista potrebbe avercela con loro perché troppo “furbetti” [...].

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